di Redazione.
Fin dal suo esordio chiarisce immediatamente la situazione: “L’Italia – esordisce – è all’ultimo posto tra le grandi economie europee per spesa in istruzione. Un sottofinanziamento che pone l’istruzione tra le voci prioritarie di spesa pubblica sulle quali investire per perseguire finalità di equità e crescita del Paese”.
Presentato a Roma lo scorso 27 novembre nell’Aula magna della Pontificia Università Gregoriana il Rapporto Svimez 2024, corposo ed articolato documento di 361 pagine diviso in cinque parti, che dedica il cap. 5 della seconda al “diritto all’istruzione”.
L’accento di questo capitolo del Rapporto viene inoltre posto sui dati riguardanti il calo demografico, divenuto un problema molto serio soprattutto per il Sud: “La progressiva riduzione del numero di iscritti nelle scuole italiane dell’ultimo quinquennio – si legge nel documento – riflette il trend demografico di un paese con sempre meno giovani, ma nel Mezzogiorno gli studenti sono diminuiti a un ritmo più che doppio rispetto al Centro-Nord. Tra gli anni scolastici 2017-18 e 2022-23, la platea studentesca nazionale si è ridotta da oltre sette milioni e mezzo a circa sette milioni (-6%). Negli stessi anni, il Centro-Nord è passato, all’incirca, da 4.650.000 a 4.463.000 alunni nel 2022/23 (-4%), il Mezzogiorno da quasi tre milioni a 2.670.000 (-9%)”.
Queste previsioni riflettono il quadro di complessivo peggioramento dell’intera struttura demografica del Paese e, senza correttivi immediati e scelte politiche ambiziose, gli effetti sulla tenuta del sistema scolastico saranno dirompenti, portando a rischio di chiusura i presidi scolastici nelle aree a maggior degiovanimento. Per il solo ciclo della primaria, ad esempio, il rischio è concreto per circa 3mila comuni italiani, il 38% del totale (con quote che oscillano tra il 27% del Nord-Est e il 46% del Mezzogiorno), localizzati nella maggior parte dei casi nelle aree interne di tutto il Paese.
L’attenzione è stata poi focalizzata sui docenti, sulla distribuzione nel sistema scolastico e sull’annosa questione della retribuzione.
Ecco il quadro d’insieme: dei circa 709mila docenti italiani, 407mila sono impiegati al Centro-Nord (57,5%), i restanti 302mila nel Mezzogiorno (42,5%). Prevalgono di gran lunga le donne (85,8%). La quota di uomini è particolarmente contenuta nei gradi di istruzione più bassi (1% nella scuola dell’infanzia e 4% in quella primaria); la componente maschile aumenta considerevolmente, pur restando in netta minoranza, nella scuola secondaria di I e II grado (rispettivamente 23 e 31%).
Sull’argomento salario, i dati Ocse confermano che quelli dei docenti italiani sono tra i più bassi in Europa: in termini di stipendio lordo i docenti italiani della scuola dell’infanzia e della scuola primaria è pari a 30.141 euro; 2.318 euro al mese, quello degli insegnanti della scuola secondaria di I grado di 32.079 euro; 2.467 euro mensili. Gli insegnanti della scuola secondaria di II grado guadagnano in media 34.027 euro; 2.617 euro al mese. Il livello medio delle retribuzioni degli insegnanti italiani si attesta al di sotto sia della media Ocse che di quella dell’Ue a 25 paesi, collocandosi tra i valori più bassi in Europa.
Anche a livello territoriale si evidenziano grandi differenze tra macroaree quando si osserva la composizione per età dei docenti. In media, il corpo docente meridionale è più anziano: la quota di docenti over 54 è del 38,3% al Centro-Nord e del 46,6% al Mezzogiorno. In tutte le regioni del Centro-Nord tale quota non supera mai il 43%, mentre rappresenta il valore più basso registrato nelle regioni meridionali. Complessivamente, l’età media del corpo docente in Italia si attesta a quasi 52 anni: 51 al Centro-Nord, 53 nel Mezzogiorno. Le differenze territoriali sono particolarmente evidenti nei primi due cicli di istruzione: nel Centro-Nord la quota di docenti over 54 è del 37% nella scuola dell’infanzia e del 36% nella scuola primaria; nel Mezzogiorno ammonta rispettivamente al 48% e al 47%. La componente più giovane (under 35), si attesta su una media nazionale lungo tutti i cicli di istruzione non terziaria del 4%, con una marcata differenza territoriale (5,3% al Centro-Nord e 2,5% al Mezzogiorno).
Al paragrafo 5.7 del Rapporto viene trattato il tema della dispersione scolastica. Dall’indagine longitudinale effettuata dall’Ufficio di Statistica del Mim seguendo il percorso lungo otto anni scolastici, dal primo anno di scuola secondaria di I grado (a. s. 2012-13) al quinto anno di scuola secondaria di II grado (a. s. 2019-20), emerge che dei 583.644 alunni iscritti al I anno di scuola secondaria di I grado a settembre 2012, 96.177 (pari al 16,5%) hanno abbandonato il sistema scolastico senza conseguire un titolo di studio nei sette successivi anni.
L’abbandono scolastico è particolarmente diffuso al Sud (17,4%) e nelle Isole (20,6%), mentre nel Centro-Nord si attesta al di sotto del dato nazionale (14,6% per il Centro e 15,6% per Nord-Est e Nord-Ovest). Più in dettaglio, le regioni in cui si è registrato l’abbandono più alto sono Sicilia (21,1%) e Campania (19,9%), mentre quelle in cui l’abbandono è risultato essere minore sono state Molise (11,3%) e Basilicata (9,8%). Relativamente alla caratterizzazione per genere, il fenomeno interessa maggiormente i maschi con il 19% contro il 13,7% delle femmine; sono soprattutto gli alunni di cittadinanza straniera, soprattutto quelli non nati in Italia, ad abbandonare precocemente gli studi.