Analisi & Commenti

Una riflessione sulla responsabilità educativa del ’68

Di Mario Caligiuri 

IL FACILISMO AMORALE

Una riflessione sulla responsabilità educativa del ’68

 

 

Prof. Mario Caligiuri, Università della Calabria

Sommario

Premessa

  1. Come si spiega il ‘68
  2. Le conseguenze sull’educazione nella società italiana
  3. La responsabilità educativa: il facilismo amorale
  4. “L’anno che ritorna”

Conclusioni

Premessa

Il ’68 nasce nelle università e infiamma la società, cogliendo un bisogno di cambiamento. É stato un fenomeno estremamente complesso in cui sono convissute spinte molteplici e, non a caso, furono i giovani che studiavano a intercettare lo spirito del tempo, dando vita a una rivolta inattesa e dalle conseguenze inedite. Si è evidenziato che “ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo. Il fatto che non siano state previste, e quindi siano state profondamente spontanee, chiarisce perché abbiano fallito e perché abbiano cambiato il mondo” (G. Arrighi, T.H. Opkins, I. Wallerstein, 1992, p. 85). Dopo mezzo secolo, ci sono punti di vista assai divergenti su quello che accadde. Infatti, per alcuni il ’68 ha davvero cambiato la società, mentre per altri è l’origine dell’inverno del nostro scontento. Sicuramente, ha inciso in entrambe le direzioni ma non in modo esclusivo poiché ovviamente hanno concorso tante altre cause, antiche e recenti. A noi interessa mettere in evidenza le ricadute sul piano educativo nel nostro Paese. Inizieremo affrontando le cause delle contestazioni giovanili, poi gli sviluppi che si sono verificati nell’educazione della società italiana, successivamente definiremo il fenomeno di facilismo amorale che si è manifestato nelle scuole e nelle università in conseguenza di richieste e scelte politiche demagogiche (E. Giudici, 1969). Infine, ci confronteremo con l’attualità di quella esperienza per trarre possibili indicazioni.

  1. Come si spiega il ‘68

Le cause del fenomeno sono diverse e tutte accomunate da un tentativo di cambiamento sociale che proveniva dalle giovani generazioni. Tutto divenne visibile nel 1964 all’Università di Berkeley, in California, dove hanno studiato 94 premi Nobel. All’origine della contestazione degli studenti c’era la guerra in Vietnam, ma sullo sfondo la segregazione razziale e le diseguaglianze sociali dell’America degli anni Sessanta, che avevano fatto emergere una controcultura. Nel gennaio del 1966 la prima occupazione di un’università nel nostro Paese avvenne a Trento, dove gli studenti di sociologia chiedevano una diversa organizzazione degli studi. Tra i protagonisti di allora c’erano Renato Curcio, Margherita Cagol, Marco Boato e Mauro Rostagno. Tra i docenti, Francesco Alberoni, Mario Monti e Beniamino Andreatta. Quest’ultimo pochi anni dopo fu il primo Rettore dell’Università della Calabria, impostandola come un campus americano. A febbraio del 1966, sul giornale del Liceo Classico “Parini” di Milano “La Zanzara” apparve un’inchiesta su “Che cosa pensano le ragazze d’oggi” in cui si affrontava il tema della sessualità e si sosteneva che “La religione in campo sessuale è apportatrice di complessi di colpa”. L’articolo creò scandalo, determinando un processo per oscenità conclusosi con una piena assoluzione. Sempre a Milano, alla “Cattolica” nel novembre del 1967, ci fu un’occupazione degli studenti che consideravano l’università “inadeguata rispetto alle funzioni per cui era stata istituita” (M. Bocci, 2017, p. 8). Tra i protagonisti Nello Casalini, successivamente entrato a far parte dell’Ordine dei Frati Minori, e Mario Capanna, poi fondatore di Democrazia Proletaria, che ha molto approfondito quegli anni (M. Capanna, 1988, 1998, 2008 e 2018).

Nel 1968, esplose prima a Nanterre e poi alla Sorbona il “maggio francese”, provocato da una riforma che intendeva collegare l’università con il mondo del lavoro. Una rivolta segnata da frasi famose quali “siate realisti: chiedete l’impossibile”, “vietato vietare”, “tutto e subito” oppure “ce ne pas qu’un debut” o il celebre “l’immaginazione al potere”. Il Presidente della Repubblica Charles De Gaulle inviò i carri armati nelle università, sciolse l’assemblea nazionale e rivinse le elezioni. Ad agosto, intanto, l’Unione Sovietica aveva invaso la Cecoslovacchia, per bloccare le riforme del socialismo dal volto umano propugnato da Alexander Dubcek. Il Manifesto delle Duemila parole di Ludvík Vaculík, pubblicato nel giugno del 1968, aveva rappresentato un potente atto di accusa contro la società creata dal partito comunista. Jan Palach, studente di filosofia, nel gennaio del 1969 compì il gesto estremo di darsi fuoco, rappresentando il simbolo della prima primavera politica: quella di Praga. La rivoluzione culturale in Cina, avviata nel 1966 dagli studenti universitari che protestavano contro i privilegi, raggiunse il punto di scontro più alto proprio due anni dopo.

Tutti questi movimenti, nati in contesti differenti e con motivazioni eterogenee, rappresentavano la richiesta di un cambiamento sociale che scatenò un’ondata di rivolte senza precedenti. Partendo dalle rapide trasformazioni avvenute dopo la fine della seconda guerra mondiale, si mettevano in discussione il principio di autorità espresso dallo Stato, dalla famiglia, dalla scuola e dalle Chiese; il ruolo della donna; il servizio militare; la funzione rieducativa delle carceri; il rapporto della scuola e dell’università con il mondo del lavoro. Una delle rivendicazioni più accese del ’68 era la critica alla razionalità borghese e quindi alle sue istituzioni educative (C. Betti, F. Cambi, 2011) che, secondo i protagonisti, rivelavano l’insensatezza di fondo della società. Infatti, scriveva Herbert Marcuse, icona di quegli anni: “Uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale avanzata [è] il carattere razionale della sua irrazionalità”. (H. Marcuse, 1967, p.9). Questa critica, pur partendo da constatazioni a volte condivisibili, “per tanti versi metteva in discussione la razionalità tout court” (P. Pombeni, 2018, p. 125).

La contestazione, con accenti diversi, divampò principalmente nelle università: da Berlino a Roma, da Città del Messico a Tokio.

I primi anni Sessanta erano stati caratterizzati dalla crescita economica e da eventi quali la fine del colonialismo, la guerra in Vietnam, la rivoluzione cubana, il Concilio Ecumenico Vaticano II e dall’azione di personaggi come John F. Kennedy, Ernesto “Che” Guevara, Giovanni XXIII, Mao Tze Tung, Ho Chi Min, Martin Luther King, Yasser Arafat e poi da intellettuali quali Jean-Paul Sartre ed Herbert Marcuse.

Interessante è il punto di vista di Giovanni Arrighi il quale sostiene che quando in una società il numero dei giovani raggiunge elevate percentuali nella popolazione, si sviluppano le contestazioni sociali (G. Arrighi, 2014). Nel ’68 si era verificata questa circostanza, simile a quella delle primavere arabe del 2010 e 2011.

Pur partendo da motivi comuni ad altri Paesi, in Italia gli eventi identificati con il ‘68, si svilupparono con tratti originali, che hanno inciso sui processi educativi e sull’intera società. In pieno boom economico, la lira era la moneta più salda dell’Occidente (1960), l’Olivetti creava il primo personal computer al mondo (1965), il nostro Paese era il terzo produttore di energia nucleare del pianeta (1966). Il Concilio Ecumenico Vaticano II apriva la Chiesa alla modernità e a livello politico si avviava la stagione del centro sinistra, con l’istituzione della scuola media obbligatoria come uno dei punti determinanti. Fu un’importante conquista sociale che raggiunse tutte le aree del Paese, ma avviata con problemi di aule, di docenti, di programmi.

Le cause del ’68 nazionale furono complesse: la generazione dei baby boom che si affacciava all’orizzonte, le trasformazioni provocate dalla televisione, l’accresciuto benessere economico sostenuto dal sistema educativo gentiliano pensato per le élite, i fermenti religiosi e quelli culturali, le forti presenze politiche cattoliche e comuniste. Aspetti controversi, ma che costituirono il terreno di coltura delle rivendicazioni studentesche, che per molti rappresentarono un “rito di passaggio da un mondo a un altro” (P. Pombeni, 2018, p. 9). L’idea scatenante consisteva nell’ampliamento del diritto allo studio, partendo dalla premessa che il cambiamento sociale iniziasse dalla scuola e attraverso essa si provocasse. Considerazione, peraltro, abbastanza recente, emersa con l’avvento della rivoluzione industriale nell’Ottocento, poiché “l’istruzione popolare, spesso trascurata perché ritenuta poco influente sullo sviluppo della società, era invece la premessa indispensabile per partecipare alla vita di un mondo che diventava sempre più complesso” (C.M. Cipolla, 2002, p. 9).

Gli studenti contestavano il sistema scolastico e accademico, impostato per le classi agiate, tanto che le università nel 1966-67 avevano solo 425 mila iscritti. Inoltre, venivano messi in discussione i pregiudizi degli insegnanti e i loro pochi rapporti umani con gli studenti, la carenza di attrezzature ma soprattutto la discriminazione verso chi proveniva da famiglie economicamente modeste, in contrasto col principio costituzionale stabilito dall’articolo 34: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Emerse, poi, una circostanza insolita nelle tendenze rivoluzionarie del ’68: la critica a un sapere scientifico che aveva frammentato l’unicità del sapere, che invece consente la comprensione alla realtà (E. Morin, 1962). Questa impostazione era legata alla divisione del lavoro e prendeva come riferimento le considerazioni della scuola di Francoforte che aveva coniato il concetto di “specializzazione idiota”.

Nel 1967 l’allora Ministro dell’istruzione Luigi Gui aveva proposto una riforma delle Università, che erano già sovraffollate, prevedendo, tra l’altro, il raddoppio delle tasse universitarie. Questo provvedimento suscitò numerose mobilitazioni negli atenei, dove cominciarono a emergere leader studenteschi come Mario Capanna a Milano, Massimo Cacciari e Toni Negri a Padova, Franco Piperno e Oreste Scalzone a Roma, Adriano Sofri a Pisa. L’evento più clamoroso del ‘68 italiano fu rappresentato dagli scontri del primo marzo alla facoltà di architettura di Valle Giulia dell’Università “La Sapienza” di Roma, che vide coinvolti per l’unica volta insieme studenti di estrema destra e di estrema sinistra, unitamente a chi era senza colore politico. Tra gli altri, parteciparono Ernesto Galli della Loggia, Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Stefano Delle Chiaie e il milanese Aldo Brandirali. Ci furono 228 fermi e 10 arresti. Il quotidiano del Partito Comunista “L’Unità” titolava: “Polizia scatenata contro gli studenti romani”. Pier Paolo Pasolini, in una poesia scritta nell’immediatezza, evidenziò però una lotta di classe rovesciata. Rivolgendosi agli studenti scrisse: “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti,/io simpatizzavo coi poliziotti./Perché i poliziotti sono figli di poveri” (P.P. Pasolini, 1972).

Nel maggio ’68, in coincidenza con gli eventi francesi, tutte le università italiane erano occupate tranne la “Bocconi” di Milano. Questo vitalismo coinvolgeva gli atenei, ma non tutti nello stesso modo: quelli del Nord in misura maggiore (che erano più numerosi) e alcune facoltà rispetto ad altre, come Lettere alla “Cattolica” di Milano, Sociologia a Trento e Architettura, Lettere, Ingegneria e Fisica a “La Sapienza” di Roma. A marzo del 1969 gli studenti di destra occuparono il rettorato dell’università di Messina. La protesta si allargò e coinvolse tutti i settori della società. Nell’autunno del 1969, circostanza unica rispetto a quello che stava accadendo in Europa, le rivendicazioni degli studenti si saldarono con quelle degli operai con scioperi e manifestazioni che si svolsero in tutto il Paese. Emersero prepotenti richieste di forme di democrazia diretta, come ogni volta che, con tutti gli equivoci e le contraddizioni, ci sono delle ribellioni di massa, poiché si intendeva fare partecipare un numero maggiore di persone alle decisioni collettive. Questa saldatura tra studenti e operai, che durò circa quattro anni, uesta salfatura tra studenti e operai che durò circa 4 anni, Qprovocò l’emanazione dello Statuto dei lavoratori, che prevedeva interventi su salari, pensioni, orario lavorativo, diritto di assemblea, consigli di fabbrica (G. Giugni, 1979). Erano i tempi in cui si teorizzava che l’aumento dei salari fosse una variabile indipendente dalla crescita economica. Cesare Zavattini, nella sua qualità di Presidente dell’ANAC (allora acronimo dell’Associazione Nazionale dei Cineasti Democratici), contestò la Biennale del Cinema di Venezia, occupando la sala “Volpi”. Contemporaneamente esplose la rivolta nelle carceri (M. Graziosi, 1988). In un volantino del luglio 1969 dell’assemblea studenti e operai di Torino si leggeva: “Cosa vogliamo: tutto” (Quaderni Piacentini, 1969, p. 213; A. Ventrone, 2012). Le conseguenze politiche e sociali sono state enormi, dalla trasformazione della società con l’ampliamento dei diritti e del ruolo della donna ai germi del terrorismo politico di destra e di sinistra (G. Galli, 1985). Proviamo però a concentrarci specificatamente su quelle educative che probabilmente sono state le più profonde, benché ci sia un’ovvia interazione con tutti gli altri ambiti.

  1. Le conseguenze sull’educazione nella società italiana

In questi cinquant’anni le conseguenze sulla società italiana sono state imponenti dal punto di vista educativo, tanto che si sono susseguite innumerevoli riforme dell’istruzione e dell’università (F. Dal Passo, A. Laurenti, 2017; S. Paleari, 2014). Allora, la reazione del sistema politico di fronte alle rivendicazioni studentesche e sindacali fu di aprire le porte: istituzione degli asili nido statali, esame di maturità sperimentale e provvisorio (poi durato 30 anni), accesso a tutte le facoltà universitarie con qualsiasi tipo di diploma rimuovendo il vincolo della legge Gentile. Vennero richiesti, e i professori acconsentirono, esami di gruppo, con l’idea che questo favorisse la collaborazione e non la competizione tra le persone, abituasse al confronto e al linguaggio pubblico e che in un certo senso recuperasse lo spirito delle origini delle università medievali dove gli studenti avevano molta voce in capitolo, ma ciò avveniva in quanto con le loro rette contribuivano al mantenimento dello studium. In alcune scuole e facoltà limitate e ben definite, si verificarono promozioni con il 6 o il 18 o addirittura il 27 politico (tale era la valutazione di Paolo Portoghesi alla Facoltà di Architettura a Milano), contribuendo a un dannoso livellamento. L’idea era quella che il voto gerarchizzasse e contribuisse a mantenere inalterate le differenze di classe e la divisione del lavoro tra manuale e intellettuale. Quella che si chiedeva all’università era una formazione generale non finalizzata esclusivamente alla specializzazione. Ai nostri giorni, Roger Abravanel ha sostenuto che “le università italiane sono diventate il simbolo nazionale dell’assenza del merito” (R. Abravanel, 2008). Questo fenomeno, peraltro, va inquadrato in un contesto globale, dove, secondo un filosofo canadese “i mediocri hanno preso il potere” (A. Deneault, 2017, p. 35). Da evidenziare che in conseguenza delle contestazioni giovanili del ‘68, lo svolgimento degli esami di gruppo e le richieste del voto politico non facevano parte delle rivendicazioni studentesche di nessun altro Paese. Infatti gli studenti statunitensi, francesi o cinesi non richiedevano facilitazioni negli studi né le autorità politiche e accademiche le proponevano. Non va dimenticato che le prestazioni degli studenti, ora come allora, sono intimamente influenzate dalle condizioni di partenza delle famiglie e dalle capacità cognitive acquisite nei primissimi anni di vita (F. Cunha, J.J. Heckman, 2007 e V. Daniele, 2014). Il ‘68 ha determinato molte trasformazioni, a cominciare dai rapporti tra i sessi, ma anche molte sciagure, tra le quali la scomparsa del merito, dimensione educativa per eccellenza. Francesco Guccini ricorda: “il ’68 ha trasformato la società” [ma] se penso alla scuola e all’università vedo i disastri che la morte del merito ha provocato. Non ci siamo ancora ripresi” (A. Gnoli, 2017).

La risposta del sistema politico, scolastico e accademico italiano alle contestazioni del ’68, più che intervenire sui nodi di fondo, fu quella di facilitare i percorsi scolastici (M. Bontempelli, 2016). Si è così materializzato il facilismo, cioè la semplificazione degli studi nell’intenzione di ridurre le differenze sociali e includere fasce più larghe di popolazione. In questo modo, sono stati proprio i giovani ad avere le conseguenze più negative, poiché si è abbassato nel complesso il livello della qualità degli studi limitando successivamente l’espletamento di funzioni sociali ed economiche nell’interesse generale.

Altro tema è la partecipazione degli studenti. Dopo l’iniziale sbandamento, i partiti cercarono di prendere in mano la situazione politicizzando, per quanto possibile, la partecipazione nelle università attraverso le loro organizzazioni giovanili. Lo stesso schema si ripeté poi nelle scuole superiori, dove, con i decreti delegati del 1974, studenti e genitori ebbero modo di condividere la gestione della scuola. Dopo un convolgimento iniziale, attualmente la partecipazione effettiva degli studenti sia nelle università che nelle scuole va scemando e si è burocratizzata, senza incidere sui meccanismi di fondo.

Uno degli aspetti ripetutamente affrontati nel ’68 fu quello che attualmente definiremmo disinformazione. Eugenio Scalfari riferendosi al “Corriere della Sera” sosteneva che sugli accadimenti del ’68 il quotidiano milanese manipolasse l’opinione pubblica attraverso l’uso delle informazioni. Tendenza esplosa con l’avvento della società della disinformazione, che si realizza nel modo opposto rispetto a mezzo secolo fa: prima con la limitazione delle informazioni e adesso con il suo eccesso: in entrambi i casi intenzionale (M. Caligiuri, 2018). Poiché le università erano di élite, i contestatori provenivano prevalentemente da famiglie borghesi. Ora gli iscritti agli atenei sono molti di più ma il divario sociale sembra essersi ulteriormente allargato. Altro aspetto che emerse fu quello dei libri di testo delle scuole tanto che, con riferimento a quelli delle elementari, Umberto Eco sosteneva: “Questi libri sono manuali per piccoli consumatori acritici, per membri della maggioranza silenziosa, per qualunquisti in miniatura, deamicisiani in ritardo che fanno elemosina a un povero singolo e affamano masse di lavoratori col sorriso sulle labbra e l’obolo alla mano […]. La mistificazione della realtà non è condotta attraverso una lettura, sia pure ideologica e falsamente ottimistica, della società industriale avanzata, ma passando attraverso i rimasugli di un dannunzianesimo pre-industriale e agreste che, con la vita di oggi, non ha più nessuna connessione. Pampini, convolvoli, ranuncoli, refoli di vento, casette piccine piccine, anemoni, pimpinelle, colibrì, vomeri, miglio, madie, princisbecchi e cuccume – ecco l’universo linguistico e immaginativo che viene presentato ai ragazzi come «la Realtà contemporanea» […]. Il problema non è di fare dei libri di testo «migliori»: il problema è di fornire a bambini e insegnanti biblioteche scolastiche talmente ricche e una tale disponibilità alla realtà (quella dei giornali, della vita di tutti i giorni) che l’acquisizione di nozioni veramente utili avvenga attraverso una libera esplorazione del mondo, la lettura dei giornali, dei libri di avventure, degli stessi fumetti (e perché no, letti, criticati insieme, e non letti di nascosto e per disperazione, visto che i libri ufficiali di lettura sono quello che sono), dei manifesti pubblicitari, dei rendiconti di vita quotidiana forniti dagli stessi allievi […] (M. Bonazzi, U. Eco, 1972, pp. 7-12). Attualmente la questione dei libri di testo nelle scuole è investita da numerose polemiche, sia per quanto attiene alle prevalenti visioni ideologiche ritenute di sinistra e sia alle scelte territoriali degli autori da studiare che penalizzerebbero il Sud.

In linea generale, Adriano Sofri sostiene: “Vi dirò una cosa sul Sessantotto che nessuna denigrazione cancellerà. Prima del Sessantotto c’era scritto” Vietato l’ingresso” dappertutto. Le case chiuse, grazie a una brava signora, erano state abolite: ma le caserme, i manicomi, gli ospedali, le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro, gli uffici pubblici, le scuole, erano tutte case chiuse. Il Sessantotto le aprì. I non addetti ai lavori vi entrarono e guardarono. Quel po’ di trasparenza che l’Italia si è guadagnata viene di lì” (A. Sofri, 1999, p. 185). Oltre a elementi indubbiamente positivi, emergono aspetti di segno opposto con riflessioni educative che hanno oscillato tra l’irrealtà e l’irresponsabilità, l’ideologia e l’astrattezza.

Per esempio, l’assemblearismo che ha prodotto distorsioni notevoli. Nonostante sia sacrosanto il principio di dare voce a chiunque, all’atto pratico esso si è poi spesso trasformato in perdite di tempo e riunioni tanto sfibranti quanto inconcludenti. Di conseguenza, ora assistiamo alla funzione coreografica delle assemblee studentesche e alla burocratizzazione di ogni aspetto della vita scolastica e universitaria. Pensiamo, per esempio, ai docenti scolastici oberati da una serie di riunioni e adempimenti burocratici o alle riunioni dei consigli di classe e dei Dipartimenti universitari dove vengono affrontati gli aspetti organizzativi più minuti, perdendo di vista la visione generale. Eppure nella temperie del ’68 erano emersi messaggi ispirati come quelli di don Lorenzo Milani che invitava la scuola a tenere conto delle condizioni di partenza (“Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”) e di considerare l’importanza delle parole (“Una parola che non capite oggi è un calcio nel sedere che prenderete domani”). E per don Milani tutto partiva dalla responsabilità dell’educatore (Scuola di Barbiana, 1967).

Di grande influenza anche in Italia fu il pensiero dell’intellettuale brasiliano Paulo Freire sulla “pedagogia degli oppressi”, evidenziando che nelle scuole veniva imposta la cultura dei colonizzatori (P. Freire, 1971), che probabilmente ai nostri giorni potremmo identificare in una certa misura con quella che emerge dai social media (M. Caligiuri, 2018). In definitiva, non possiamo non mettere in risalto la strategia della tensione che si sviluppò in Italia dal ’68 in poi, con la bomba di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969. In quel clima culturale erano presenti le complesse e articolate ragioni della contestazione politica e della lotta armata di destra e di sinistra. Tra i protagonisti, troviamo con posizioni molto diverse, animatori delle rivolte studentesche da Toni Negri ad Adriano Sofri, da Margherita Cagol a Renato Curcio, da Adriano Tilgher a Stefano Delle Chiaie, da Oreste Scalzone a Franco Piperno. Nella tragedia degli anni di piombo, che investirono scuole e università, alcune analisi delle Brigate Rosse anticipavano le degenerazioni della globalizzazione. Non a caso, nella risoluzione della Direzione Strategica delle BR del febbraio 1978, si parla di “imperialismo delle multinazionali”, spiegando che “per imperialismo delle multinazionali intendiamo la fase dell’imperialismo in cui domina il capitale monopolistico multinazionale […]. I grandi gruppi monopolistici possono ora superare definitivamente i loro confini nazionali per spaziare liberamente su tutta l’area e la struttura multinazionale diviene fattore necessario ed indispensabile per ogni ulteriore sviluppo […] vanno consolidandosi anche i suoi strumenti istituzionali di mediazione e di dominio (Trilateral, Stato Imperialista delle Multinazionali, FMI, CEE,…)” (Progetto memoria, 1996). Pure gli studenti di destra, che erano ancora più esclusi di quelli di sinistra, tentarono un rinnovamento antisistema cercando di coniugare tendenze culturali divergenti (A. Villano, 2017), definire utopie contemporanee (A. Baldoni, 2006) o ripristinare azioni conservatrici (A. Gasparetti, 2006). Da rilevare che il contrasto al terrorismo costò al nostro Paese almeno 200 mila miliardi di lire, contribuendo al deficit pubblico e sottraendo risorse a investimenti sull’istruzione e sul sociale (S. Zavoli, 1998).  

Visto quello che è successo negli anni successivi, il ’68 fu l’inizio di una rivoluzione incompiuta o la premessa della lotta armata? La rivendicazione di diritti negati o la spiegazione di tutti i mali della società italiana? Cerchiamo allora di circoscrivere gli effetti sul campo educativo, tentando di precisare le conseguenze su scuola e università. 

  1. La responsabilità educativa: il facilismo amorale?

Alla fine degli anni Cinquanta il sociologo Edward C. Banfield coniò il concetto di familismo amorale individuando nelle ragioni culturali l’arretratezza di alcune comunità. Questo fenomeno si verificava dove prevalevano i legami familiari a scapito dell’interesse collettivo. La premessa di questi atteggiamenti era quella di “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”. (E.C. Banfield, 1958, p. 83).

Utilizzando questa impostazione, definita però da alcuni uno stereotipo (L. Sciolla, 1997), potremmo argomentare che la risposta del sistema politico italiano alle rivendicazioni del ’68 fu di natura assistenziale, comportando un indebolimento strutturale dei processi educativi. Si potrebbe quindi parlare di facilismo amorale? Oggi possiamo constatare che il settore scolastico e quello universitario rappresentino indiscutibilmente l’area delle politiche pubbliche più consistente per la quantità delle persone coinvolte direttamente e indirettamente. In entrambi i livelli di studi, è decisivo il numero dei promossi e il tempo di conseguimento del titolo poiché determina la costituzione delle classi, la quantità dei docenti e i finanziamenti. Generalizzare innanzitutto non corrisponde a verità, ma in molti casi scuole e università rappresentano agenzie di socializzazione e non di apprendimento; ancor di più si sono trasformate in ammortizzatori sociali e aree di parcheggio per studenti e docenti.

Il ruolo della donna, quella che si era trasformata da angelo del focolare ad altra metà del cielo, dopo il ’68 ha assunto posizioni rilevanti nella scuola, tanto che in Italia c’è il primato di 83 docenti di sesso femminile su 100 (OECD, 2017). Va riflettuta con attenzione l’analisi dell’antropologa Ida Magli: “la prima causa di cambiamento del ruolo della scuola è stata ovviamente la concomitante trasformazione del ruolo delle donne: da casalinghe a lavoratrici […]. Una trasformazione, che per quanto riguarda l’Italia è avvenuta in modo esplicito e definitivo soltanto dagli anni Ottanta in poi, ossia dopo la rivoluzione del ’68 […]. (pp. 178-179). La scuola è il luogo dove si trascorre la parte più importante della giornata. Gli adulti che assistono, curano, aiutano, sgridano, insegnano sono quasi tutti di sesso femminile. Questo dato, di fondamentale importanza, non viene però messo in rilievo da nessuno” (p. 181) […]. Sono ormai molti anni che i maschi sono allevati, inculcati, educati e sottoposti all’autorità e al potere esclusivo delle donne […] con il risultato che il tempo che i ragazzi trascorrono con una figura maschile, ivi compresa quella del padre, è brevissimo (pp. 193-4) […]. Si afferma di solito che (e le statistiche sui risultati agli esami lo provano) che le studentesse sono più brave degli studenti. Non ci potrebbe essere una dimostrazione migliore del fatto che viene fornito un insegnamento più adatto alle menti femminili che a quelle maschili in quanto è diverso il modo con il quale i maschi guardano ai problemi […]. Gli italiani risultano in genere nelle statistiche europee e mondiali fra gli studenti meno bravi in matematica. Sorge spontaneo il dubbio (per non dire la certezza) che possa dipendere anche dal fatto che sono di sesso femminile coloro che la insegnano (p. 195) (I. Magli, 2013).

Dopo mezzo secolo qual è l’effettiva situazione dell’istruzione nel nostro Paese? I dati e le interpretazioni si rincorrono, i punti di vista sono innumerevoli, ma proveremo a individuare alcuni elementi significativi che possano aiutarci a delineare il quadro d’insieme.

Il numero delle scuole e delle università è aumentato, così come i laureati e i diplomati, seppur in modo difforme tra Nord e Sud. Per la prima volta nella storia d’Italia, è stato possibile per milioni di famiglie di condizioni economiche modeste far conseguire ai loro figli titoli di studio elevati. L’accresciuto livello di istruzione formale ha realmente inciso nel ridurre le diseguaglianze della società italiana?  

Il primo dato da evidenziare è che il 76% dei nostri connazionali ha difficoltà a interpretare una semplice frase di senso compiuto nella nostra lingua (T. De Mauro, 2010).

Nel 1968 “ancora non c’era disoccupazione intellettuale e anzi di discuteva della prevedibile deficienza dei laureati nel prossimo avvenire” (R. Romeo, 1990, p. 188). Da allora sono aumentati enormemente i giovani diplomati e laureati (Istat, 1968 e 2017) ma pure i giovani diplomati e laureati disoccupati. Nel 2016 i disoccupati con la laurea erano circa 223 mila e i diplomati circa 760 mila (Censis, 2017, p. 194).

É cresciuto il numero dei docenti, la cui funzione, il livello di reddito di quelli di ruolo e la loro percezione sociale sono fortemente diminuiti (A. Cavalli, G. Argertin, 2010; E. Gremigni, 2012).

La dispersione scolastica, cioè la quantità di studenti che iniziano il percorso scolastico e universitario e non lo concludono, è tra le più elevate a livello comunitario (Miur, novembre 2017).

Il numero di laureati e diplomati è ancora al di sotto delle medie europee e poco ha contribuito l’istituzione della laurea breve, sdoppiando il percorso accademico in primo e secondo livello. Com’era stato, peraltro, previsto (G.L. Beccaria, 2004).

In base alle indagini internazionali dell’OCSE, le competenze dei nostri studenti in lettura, matematica e scienze si collocano negli ultimi posti delle classifiche (Invalsi, 2015).

C’è stato un impoverimento semantico. Una ricerca di Tullio De Mauro del 1976 aveva evidenziato che un ginnasiale conoscesse circa 1.500 parole. Vent’anni dopo ripeté la ricerca e le competenze linguistiche erano scese a circa 640 parole (T. De Mauro, in R. Tornesello, A. Corrado, 2016) che da allora si sono probabilmente dimezzate.

Dal Sud si continua a emigrare ma stavolta sono i laureati e i diplomati a farlo (Svimez, 2017).

Anche il numero dei laureati in Parlamento è diminuito, nonostante il livello di istruzione nel Paese sia enormemente aumentato (T. Boeri, A. Merli, A. Prat 2014).

Il costo per la comunità nazionale provocato dalla generazione NEET, cioè i giovani che non studiano e non lavorano, ammonta a 32.6 miliardi di euro annui (Rapporto Giovani, 2016).

Si stima che nel decennio 2010-2020 saranno circa 30 mila i ricercatori italiani che, dopo essere costati 5 miliardi di euro per la loro formazione, si saranno trasferiti all’estero (M. Bergami, 2017).

Il divario territoriale a livello scolastico e universitario non si è colmato, anzi studiare al Nord, a parità di caratteristiche, significa aver ricevuto un anno e mezzo in più di istruzione rispetto al Sud (Fondazione Agnelli, 2010).  

Se riassumiamo i dati strutturali, si evidenzia che i temi di allora sono in gran parte ancora irrisolti: il numero dei laureati e diplomati in relazione alle medie europee, le differenze territoriali tra Nord e Sud, i divari sociali, il ruolo della donna nella società e soprattutto il peso politico dei giovani. Molti passi avanti, alcuni davvero sostanziali, sono stati compiuti in termini di quantità, ma le contraddizioni ancora sono stridenti.

Sarebbe peraltro interessante comparare i dati italiani con quelli di altri Paesi per verificare che tipo di tendenze si siano sviluppate nell’ultimo mezzo secolo.

         Dopo quella straordinaria utopia di cambiamento, nella società per i giovani “si profila un deserto di senso” (U. Galimberti, 2018, p. 11), tanto che la cultura degli algoritmi (che selezionano e gerarchizzano le informazioni) è pensata per produrre utili e non per ampliare le conoscenze e i diritti reali.

Tanto per cominciare si deve registrare il suicidio demografico poiché dal 1968 al 2017 le nascite sono diminuite in modo drammatico, passando da circa 976 mila del 1969 a 460 mila al 2016 (Istat, 1968, 2016). Questa circostanza, nonostante gli immigrati, comporta la riduzione di iscritti nelle scuole e in particolar modo nelle università (Miur, luglio 2017).

Il potere nella società è ancora di più in mano agli anziani, a causa dell’allungamento della vita e dell’età pensionabile.

Ma l’effetto più sconvolgente è la possibilità di accedere a quantità praticamente illimitate e gratuite di conoscenza attraverso la Rete.   Attualmente i social media rappresentano l’ambiente educativo più significativo, perché è quello dove le giovani generazioni trascorrono più tempo e con maggiore attenzione. E proprio nella Rete si manifestano le ondate di indignazione sociale: nel ‘68 avvenivano nelle strade delle città e nelle università, mentre ora si materializzano nelle piazze virtuali del cyberspazio.

L’esito di queste proteste viene considerato assai debole, con una sconfinata possibilità comunicativa ma che diventa effimera e apparente. Il filosofo coreano Byung-Chul Han spiega: “Le ondate di indignazione sono molto efficaci nel mobilitare e mantenere desta l’attenzione […] tuttavia non sono in grado di strutturare il discorso […] montano all’improvviso e si disfano altrettanto velocemente”. (B.C. Han, 2015).  

Per Paola Mastrocola “non potrà durare a lungo questo leggersi gli uni con gli altri tutti insieme appassionatamente su Facebook o Twitter. È vero che tutti grazie ai social network, possono scrivere. Ma questi benedetti “tutti” scrivono cose così noiose, scontate e banali che gli altri “tutti”, a lungo andare, non avranno più voglia di leggerli” (P. Mastrocola, 2011, p. 243 e ss.). 

Per Domenico Talia “siamo nella democrazia del like la cui efficacia temporale è quasi prossima al nulla” (D. Talia, 2018, p. 102). Zygmunt Bauman tra i primi aveva inquadrato il fenomeno: ”La politica emergente, l’alternativa sperata ai meccanismi politici noti e screditati, tende a essere orizzontale e laterale invece che verticale e gerarchica. L’ho definita “a forma di sciame”: come gli sciami, i gruppi e le alleanze politiche sono creazioni effimere, convocate con facilità ma difficili da tenere insieme per il tempo necessario a […] costruire strutture durevoli. Gli sciami […] vengono riuniti e dispersi quasi spontaneamente con la stessa facilità […]. Il mio sospetto (e prego di sbagliarmi!) è che qualunque azione mediata da internet possa al più sostituire l’impolitica con l’illusione della politica […]. Nessuna delle grandi e spettacolari esplosioni di proteste in erba alimentate elettronicamente da internet è ancora riuscita a estirpare le ragioni della rabbia e della disperazione popolare” (Z. Bauman, 2012, p. 88). Si sta realizzando, a livello globale, la società della disinformazione, combinando l’eccesso e l’accesso incontrollato delle informazioni e il basso livello di alfabetizzazione sostanziale dei cittadini (M. Caligiuri, 2018). Inoltre, in presenza di forti probabilità di rivoluzioni e di accese contestazioni sociali come quelle del ’68, per limitare i cambiamenti, una politica conservatrice si può realizzare aumentando il benessere economico e diminuendo contestualmente il livello reale di istruzione (U. Gori, 2007).  

Nell’esame delle politiche educative, particolarmente a livello istituzionale e nel dibattito culturale, raramente si pone l’attenzione sugli studenti che sono i diretti interessati del processo formativo. L’interesse è invece spesso rivolto verso l’uso acritico delle tecnologie, l’organizzazione burocratica, i concorsi e le sperimentazioni didattiche di incerta utilità.

Franco Cambi ha rilevato che la rivoluzione culturale e giovanile degli anni Sessanta ha dato vita a una critica ideologica dell’educazione e a pedagogie radicali, come quelle di Georges Papassade, Ivan Illich, René Scherer e Giovanni Maria Bertin, evidenziando che “l’organizzazione scolastica […] non ha oltrepassato ancora le contraddizioni che il ’68 ha fatto esplodere” (F. Cambi, 2005, pp. 142-152)

Nel frattempo, le relazioni tra scuola e famiglia sono diventate sempre più complesse. A proposito, un utile punto di vista è quello esposto da Frank Furedi, il quale sostiene che prima di tutto occorre essere consapevoli della “erosione dell’autorità adulta” (p. 229), sia per i comportamenti dei genitori “accusati di non curarsi dell’educazione dei figli e di non collaborare con le istituzioni scolastiche” (p. 13); oppure considerati non edificanti modelli di condotta: “Non serve a niente incolpare la scuola del deterioramento della condotta dei ragazzi quando fin troppo spesso sono proprio i genitori a essere un pessimo esempio” ( p. 14). I genitori vengono chiamati in causa perché “troppo spesso difendono i figli per partito preso o interpretano i rimproveri ai loro pargoli come ingiurie nei propri confronti” (p. 15). Per il sociologo inglese, “l’esercizio dell’autorità adulta è indispensabile per gestire un efficace sistema di istruzione” (p. 84). Secondo Furedi, è poi necessario chiarire “gli scopi dell’istruzione” (p. 229), evitando che si trasformi in “uno strumento di politica sociale […] perdendo di vista ciò che la riguarda davvero” (F. Furedi, 2012, p. 242). Sembra delinearsi chiaramente una versione aggiornata di familismo amorale che si somma al facilismo amorale, determinando una miscela davvero complicata.

  1. “L’anno che ritorna”

Dieci anni fa, in un libro dal titolo “’68. L’anno che ritorna”, Franco Piperno descriveva la potenza sovversiva della condizione dello studente, considerandolo “l’unico soggetto potenzialmente in grado di dare quel colpo di maglio che polverizzi le attuali rovine e permetta di costruivi sopra”, (Piperno, 2008, p. 170). Esistono ora queste condizioni? In gran parte dell’Occidente, i giovani non sono né soggetto politico, né la politica se ne interessa (poiché la maggior parte degli elettori sono anziani), né i movimenti giovanili hanno realmente qualche funzione o incidenza. La circostanza che le giovani generazioni siano scarsamente politicizzate contribuisce a una sempre più scadente selezione del ceto politico a tutti i livelli. Lo dimostrano le partecipazioni alle consultazioni politiche così come, e in misura maggiore, nelle elezioni studentesche e universitarie.  Le condizioni degli studenti sono ancora più elitarie di allora: il costo della vita con l’euro ha ridotto il potere di acquisto delle fasce deboli ma principalmente si è bloccatol’ascensore sociale, che nel ’68 era invece in piena attività, determinando migliori condizioni economiche per i figli rispetto ai padri. Di fatto, nonostante l’accresciuto benessere generale, le disuguaglianze sociali si sono allargate (E. Ferragina, 2013). Il ’68 allora potrebbe essere inteso come rivoluzione necessaria che però non ha mantenuto le sue promesse. Alcuni, hanno poi definito i profeti di allora “cattivi maestri” (L. Pellicani, 2013) mentre quelli che negli anni Ottanta e Novanta hanno influenzato il dibattito culturale sono stati appellati, con velata ironia, “venerati maestri” (P. Berselli, 2008).

Altro aspetto decisivo, come già evidenziato, è rappresentato dal suicidio demografico occidentale, per cui il fenomeno determina profondi squilibri mondiali (P. Collier, 2015). Ai giovani è stato inculcato dal secondo dopoguerra il mito del consumo. Spiega Jon Savage: “La diffusione postbellica dei valori americani avrebbe avuto come testa di ponte l’idea dei teenagers. Questo nuovo tipo era veramente all’altezza psichica dei tempi: viveva nel presente, cercava il piacere, era affamato di prodotti, incarnava la nuova società globale in cui l’inserimento sociale sarebbe stato garantito dal potere di acquisto” (J. Savage, 2012, p. 486). Il consumo è diventato ragione di vita (Z. Bauman, 2012), si protrae in qualunque ora del giorno e della notte (J. Crary, 2015) e inizia fin dalla più tenera età (J. Bakan, 2012). In tale quadro, oltre al consumismo, l’uso intensivo dei social media, che rappresentano armi di distrazione di massa, narcotizzano le giovani generazioni, rendendole indifferenti ai destini generali. Ma secondo alcuni questo rappresenta invece il trionfo delle democrazie liberali, che promettono “di creare attorno a ogni individuo una piccola sfera di autonomia e di benessere. Autonomia significa il diritto a perseguire liberamente i propri interessi e dedicarsi ai propri affetti, l’indipendenza momentanea dai doveri collettivi […]; benessere significa una disponibilità di merci che permettano di vivere bene, sognare, divertirsi, trasgredire, adorare i feticci, superare i limiti fisici della condizione umana, guadagnare l’ammirazione degli altri […]. Sono queste isole giornaliere […] che rendono desiderabile la ‘democrazia’ e tollerabile l’enorme quantità di tempo che ogni giorno trascorriamo in reti di rapporti sociali del tutto estranei alla democrazia” (G. Mazzoni, 2015, p. 81). Questa impostazione rappresenta il ribaltamento delle idee del ’68. Ai nostri giorni la nuova classe operaia è rappresentata dai giovani precari, dagli impiegati che vivono di reddito fisso e dai pensionati, categorie motivate dall’indignazione temporanea ma non certo in condizione di incidere a fondo.

I giovani italiani sono sempre di meno e gli immigrati, gran parte dei quali giovani, vanno a ingrossare le fila degli emarginati, con il rischio di determinare rivolte su vasta scala. In analogia al pensiero di Arrighi, quando si arriverà a determinate percentuali, i giovani immigrati, con i loro codici e la loro cultura, potranno dare vita a un nuovo ‘68? Da rilevare che l’area del disagio sociale è destinata ad allargarsi e rappresenta un problema centrale per la sicurezza delle società occidentali. Pertanto, le tecnologie, ma ancor di più l’intelligenza artificiale, potranno drasticamente ridurre l’occupazione. Non ci sono più le condizioni della distruzione creatrice (J.A. Schumpeter, 2010), poiché stavolta l’innovazione toglierà più posti di lavoro di quanti ne riesca a creare ex novo. Inoltre, “nell’epoca del pc e del web non siamo più separati dai mezzi di produzione [e] siamo sempre più immersi in una scena produttiva fortemente socializzata […]” ( F. Raparelli, p. 19). Quella che sembra emergere è l’economia comportamentale, che evidenzia l’irrazionalità umana (R.H. Thaler, 2018). La mano invisibile del mercato dimostra invece il suo vero volto, poiché è la più percepibile di tutte essendo rappresentata dalle scelte dei dirigenti delle multinazionali finanziarie che imprimono l’andamento dell’economia reale (G. Galli, M. Caligiuri, 2017).

Il ’68 venne anche contraddistinto dalle ribellioni nelle carceri, mentre adesso è un argomento residuale, sottolineato costantemente dal Partito radicale ma praticamente scomparso dall’agenda politica, mantenendo in ombra il fattore rieducativo che investe direttamente l’area pedagogica.

In definitiva, una possibilità di cambiamento potrebbe essere rappresentata dalla consapevolezza dei meccanismi della globalizzazione dove l’ordine mondiale è basato su “regole arbitrarie e impossibili da cambiare” (P. Mishra, 2018, p. 316), in un contesto sospeso sempre di più tra “empasse politiche e shock economici” (P. Mishra, 2018, p. 317).

Gli sviluppi del ’68 si manifestarono con il terrore ma pure con l’ironia, rappresentata nel ’77 dagli indiani metropolitani, con Bologna come epicentro. In base alle coincidenze significative, uno dei protagonisti di allora, Francesco Berardi detto “Bifo”, è uno degli studiosi più attenti dell’intelligenza artificiale in relazione al tema centrale della trasformazione del lavoro (F. Berardi Bifo, 2016). Quest’ultimo aspetto richiede un profondo ripensamento delle offerte educative scolastiche e universitarie. Una prospettiva potrebbe essere quella di delineare un modello educativo che, prendendo atto dell’incidenza delle tecnologie sulle generazioni dei nativi digitali, si basi sulla pedagogia della comunicazione (M. Caligiuri, 2018). Per trasmettere conoscenze utili e valori alle giovani generazioni, si potrebbero utilizzare la televisione (G. Tremonti, 1993, pp. 196-200) ma specialmente i social media e la progettazione degli algoritmi (D. Talia, 2018). Altro metodo per sopravvivere nella società della disinformazione è difendersi dall’informazione eccessiva attraverso il metodo dell’intelligence (M. Caligiuri, 2015), lo studio delle neuroscienze, lo sviluppo del pensiero critico, esaltando la strategia contrarian, integrando competenze scientifiche e saperi umanisti. Non è un caso che una delle professioni più promettenti sia quella del data scientist (A. Teti, 2017). Concludiamo questo capitolo con il ritorno alle sue premesse. Franco Piperno auspicava il ruolo dirompente degli studenti per creare una discontinuità nella società, come avvenne nel ’68. Il nostro punto di vista è che non ci siano oggi le condizioni perché questo possa avvenire: i giovani vengono avvolti sempre di più dalla solitudine della cybersfera (Z. Bauman, 1999), sono sempre di meno rispetto a una popolazione che in Occidente invecchia e diventa sempre più multiculturale. Quello che noi argomentiamo per il nostro Paese è una saldatura, come avvenne con l’autunno caldo, tra categorie diverse che abbiano un ragionevole interesse a modificare l’ordine sociale. Come abbiamo già proposto dieci anni fa, dovrebbe crearsi un blocco storico sul modello ipotizzato da Antonio Gramsci (A. Gramsci, 1930), mettendo insieme giovani laureandi e laureati da un lato e piccoli e medi imprenditori dall’altro, saldati dagli intellettuali che sanno comprendere e guidare lo sciame digitale (M. Caligiuri, 2008). Probabilmente potrebbe provenire solo da questi ambienti un nuovo ’68, inteso come necessità di diminuire le diseguaglianze sociali e contrastare quelle ristrette minoranze che decidono i destini dell’umanità.

Conclusioni

Le riflessioni che precedono intendono offrire un contributo al dibattito scientifico e culturale da un punto di vista esclusivamente pedagogico. Alla diffusa percezione che il ’68 rappresenti la sentina di tutti i mali del nostro sistema formativo, occorre aggiungere quello che è successo dopo. Emergono così altri fattori, sia posteriori che di contesto, che hanno inciso. Va considerata, per esempio, la massiccia cooptazione di docenti, con la conseguente precarizzazione, soprattutto al Sud, frutto di uno scambio meramente politico durante gli anni ’70 e ’80, un patto perverso che ha interessato l’intero settore pubblico con conseguenze indelebili nel disavanzo dello Stato. Così come va considerato il fatto che in Italia c’è un sistema produttivo che cerca di fare a meno di ruoli elevati. In Italia l’assenza del merito come meccanismo di selezione è anche dovuto a una domanda debole di figure professionali qualificate. Non a caso le piccole  e medie imprese, che rappresentano il nerbo dell’economia nazionale, sono prevalentemente a conduzione familiare, centrate sul singolo fondatore. Molto spesso è la domanda che crea l’offerta e questo spiega la diversa posizione del Nord rispetto al Sud anche in termini di richieste di figure specializzate.

In ogni caso, però, non possiamo non fare i conti con il ’68, che ha ampliato orizzonti educativi (R. Iosa, 2017) e altri ne ha chiusi (P. Mastrocola, 2011). Allora venne intercettato il cambiamento: oggi intorno a noi vediamo benessere e rovine, segnali deboli e forti che infiammano e si spengono in breve tempo, con evanescenti capacità di intercettare e di realizzare mutamenti sociali.

Adesso più che mai scuole e università sarebbero in condizione di trasformarsi in luoghi di sperimentazione, ma è difficile che possano diventarlo visti i metodi con i quali sono stati selezionati i docenti negli ultimi decenni. Eppure mai come ora, proprio nelle istituzioni educative si potrebbero creare nuovi meccanismi per fronteggiare consapevolmente le astuzie del potere (L. Wacquant, 2005). Questo consentirebbe di non essere succubi di una democrazia basata sull’aria che tira, ridotta ai minimi termini da procedure elettorali prive di ogni autentico significato e rese credibili solo dalla rappresentazione mediatica.

Nel ’68 vi fu un’ondata di rivendicazioni sociali. Lo stesso fenomeno della lotta armata coglieva tendenze rilevanti dando però risposte talmente sbagliate da far compattare un sistema sociale già allora in grande difficoltà. Alle rivendicazioni del ’68, il sistema politico rispose con il facilismo a livello educativo e sindacale.

Tra le voci contrarie a queste tendenze c’è quella di Rosario Romeo, il quale affermava che l’università “atta a trasmettere un sapere effettivo contribuisce […] con efficacia senza pari al superamento degli svantaggi che derivano da una provenienza sociale non favorita; è il compito di una seria riforma era e rimane quello di mettere uno strumento a disposizione dei “capaci e meritevoli” di ogni provenienza sociale, non di annacquarlo sino a renderlo inservibile e inoperante. Regalare invece un diploma privo di valore a folle di diseredati significa, al contrario, mantenerli nel medesimo stato di inferiorità in cui essi già si trovano rispetto ai favoriti dall’ambiente familiare” (R. Romeo, 1990, pp. 14-15). Infatti, l’arrivo di diplomati indefiniti avrebbe inevitabilmente abbassato il livello degli studi accademici, poiché invece di allargare gli accessi si sarebbe dovuto intervenire per migliorare la qualità della scuola superiore.

In questo testo, ci siamo interrogati sulle conseguenze educative che il ’68 ha avuto nella scuola e nell’università. Il mondo è enormemente cambiato ma il ruolo dell’intellettuale è di limitare la complessità. Sotto questo profilo, il pedagogista deve assumere sempre di più le vesti di intellettuale (M. Gennari, 2006, p. 408), evidenziando la capacità di “scrutare i segni dei tempi” (L. Milani, 2017) perché l’educazione può ancora cambiare il destino delle persone.

Il compito della pedagogia è principalmente quello di formare buoni insegnanti. Non a caso, nel nostro Paese, per affrontare con cognizione la questione meridionale Gaetano Salvemini auspicava un “esercito di maestri”, così come per contrastare la mafia Gesualdo Bufalino proponeva il medesimo auspicio.  

C’è bisogno dunque di nuove generazioni di pedagogisti che siano preparati e consapevoli della loro funzione, in grado di consentire agli studenti di affrontare un futuro aperto, non più garantito dalle rendite del passato. Va rilevato che le attuali giovani generazioni hanno di fronte a loro il massimo delle penalizzazioni e le più grandi opportunità: nel primo caso se assumono come riferimento le logore vie del passato, nel secondo se intendono percorrere le inesplorate strade del futuro. 

Dopo mezzo secolo, potremmo chiederci: Cosa è rimasto della ”Lettera a una professoressa”? Di quelle tensioni ideali che, in maniera tragica, facevano morire e uccidere i giovani per un’idea? Della voglia di cambiamento di allora? Di “quell’assalto al cielo”? (N. Balestrini, P. Moroni, 1988).

In definitiva, cosa può insegnare il ’68? La prima circostanza è che idee nobili ma astratte creano danni notevoli alle generazioni successive, ottenendo gli effetti opposti a quelli che si desidera raggiungere. In secondo luogo che quelle contestazioni giovanili non si possono trasformare in un alibi degli insuccessi delle classi dirigenti a promuovere la qualità educativa. In terzo luogo che alla crisi politica della rappresentanza, ora molto più grave di allora, far subentrare la richiesta di una democrazia diretta finisce con l’accentuare i problemi. Infine, emerge che dai giovani può partire un autentico cambiamento culturale, senza il quale le società sono destinate a implodere e a decadere.

I giovani per affrontare il domani dovranno agire insieme alle forze produttive perché la società post industriale ha come perno centrale la costruzione di futuro. C’è bisogno di scelte politiche alte, visionarie, creatrici, che pongano al centro la questione educativa. Non dimentichiamo che gli Stati hanno un ciclo di vita e sono destinati a esaurirsi, mentre le università storicamente sopravvivono, perché i sistemi politici passano, il sapere resta. Negli ultimi decenni, che hanno visto allargare ulteriormente le distanze tra Nord e Sud del Paese (V. Daniele, P. Malanima, 2011), si sono invocate: l’istituzione di più università e non invece di atenei basati sulla qualità; un maggior numero di docenti nelle scuole e negli atenei senza tenere conto della loro effettiva preparazione; l’attivazione di università telematiche che abbattono le distanze ma che presentano contemporaneamente notevoli criticità (A.L. Trombetti, A. Stanchi, 2017).

Il facilismo scolastico e accademico, combinandosi con altri fattori, ha abbassato, nella media, le capacità alfabetiche, il livello culturale, il senso civico, la partecipazione elettorale, la capacità di controllo dei cittadini sulla vita pubblica e la competenza delle classi dirigenti. Non è l’unica causa, ma ha certamente contribuito agli esiti attuali.

Tutto questo incide sull’efficienza della democrazia, ritenuta non in grado di selezionare élite responsabili (D.A. Bell, 2015), dando vita a un sistema chiaramente disfunzionale (P. Mishra, 2018, p. 318). I giovani, pertanto, sono investiti di una grave responsabilità ma non vengono affatto preparati ad assumerla. Come primo aspetto, sarebbe compito degli intellettuali e dei docenti più responsabili delle scuole e delle università far loro prendere coscienza, coltivando lo stato nascente di un necessario cambiamento (F. Alberoni, 1968 e 1977). Ma è tutta la società a essere coinvolta in questo processo (T. De Mauro in G. D’Ottavi, C. Raimo, 2011), avendo chiara l’idea che attraverso le istituzioni formative, in un processo lento e complesso, risiedono gli unici germi del cambiamento se non si vuole affidare questo ruolo alle dinamiche effimere della Rete.

Tra queste ultime va, in ogni caso, rilevata la circostanza che i giovani nelle recenti consultazione referendarie del 2016 (A. Pritoni, M. Abruzzi, R. Vignati, 2017, pp. 109-111) e politiche del 2018, si sono massicciamente espressi a favore del cambiamento delle proposte che provenivano da chi deteneva il potere, e questo soprattutto nelle regioni meridionali. Evidenza che, secondo noi, non va semplicisticamente inquadrata in una consueta richiesta assistenzialistica ma in una necessità di sostituzione di un ceto politico chiaramente inadeguato.

Se il ’68 non era che l’inizio di una profonda trasformazione sociale, occorre che oggi i giovani riescano a imprimere “uno sbocco costruttivo alla grande transizione in cui ci troviamo coinvolti” (P. Pombeni, 2018, pp. 127-128). Appunto per questo, è necessario che i giovani ritornino a essere in rivolta, ma stavolta per chiedere scuole e università che valorizzino i talenti individuali e il merito sviluppato nell’interesse di tutti, offrendo le competenze che realmente servono per comprendere il furioso cambiamento dei tempi e fronteggiare la società della disinformazione.

Occorre in definitiva mettere fine al facilismo amorale, del quale proprio gli studenti sono le prime vittime.

A cinquant’anni dal ’68, nell’inattualità di questa nostra proposta, si evidenzia la necessità di questa azione.

Confrontarci con quanto accadde in quegli anni significa illuminare le contraddizioni del presente, tanto più che in quegli eventi si ipotizzava l’immaginazione al potere, oggi quanto mai necessaria per tentare di comprendere una realtà perennemente ai bordi del caos.

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Fonte: Formazione & Insegnamento XVI – 1 – 2018
ISSN 1973-4778 print – 2279-7505 on line
doi: 107346/-fei-XVI-01-18_02 © Pensa MultiMedia

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