di Francesco Greco
Premessa
Perché la geografia, che è una scienza del territorio, degli oggetti e dei processi che con esso hanno relazioni, dovrebbe occuparsi dell’educazione, che invece attiene ai processi che interessano la persona nelle sue dimensioni cognitive, comportamentali e valoriali?
La domanda può apparire retorica se si considera che dell’educazione, da qualche decennio, oltre che i tradizionali campi delle scienze pedagogiche, si interessano anche, e in modo sempre più ampio, le scienze economiche, quelle giuridiche e sociologiche e altri campi delle scienze umane. Ma per la geografia, almeno nell’esperienza italiana, la domanda è fondamentale, avendo questa disciplina dedicato la sua attenzione all’educazione solo per gli aspetti che più direttamente la riguardano sul versante didattico, ovvero come la geografia è insegnata nelle scuole. Un aspetto certo importante, ma comune a tutti i campi dei saperi codificati, che non amplia il campo di esplorazione della disciplina sul suo oggetto e, ancor di più, non guarda al ruolo che l’educazione ha nell’economia e nella società contemporanea e ai rapporti di causalità che intrattiene con il territorio.
L’educazione, nella sua accezione più ampia, riguarda quei processi fondamentali con i quali una società trasmette alle generazioni presenti, mentre accumula per quelle future, i saperi che sono alla base delle modellizzazioni interpretative della realtà, a cui danno significato attraverso oggetti culturali socialmente e storicamente mediati. Con l’educazione si acquisiscono schemi procedurali di appropriazione di categorie concettuali e modelli applicativi, che consentono di distillare nella memoria individuale e in quella collettiva strutture valoriali e comportamentali, di mediare tra diverse e antagoniste “visioni del mondo”. Il mondo inteso come “il complesso delle relazioni (sociali, economiche, politiche, culturali) al cui interno si svolge la vita umana[1]. Ma l’educazione ha anche una sua dimensione organizzativa e strutture burocratiche preposte alla sua gestione, con competenze e ambiti di azione territorialmente definiti e strutture locali specificamente volte alla sua trasmissione, da cui dipende il grado di diffusione dei saperi formali e i livelli di istruzione della popolazione.
Nelle società democratiche contemporanee, la rilevanza dell’educazione risente del ruolo chiave assunto dai saperi, dai quali dipendono sempre più il progresso e il rango delle nazioni, per questo si moltiplicano e si perfezionano studi e programmi di analisi e di valutazione dello stato dei sistemi educativi. Mentre altri studi, condotti anche a livello internazionale, stanno mettendo in luce i molti aspetti del contributo dell’educazione allo sviluppo economico, gli effetti dell’educazione sulla stratificazione sociale e sulla stessa distribuzione del reddito. Si tratta di aspetti che hanno un’indubbia rilevanza territoriale, che si manifestano a scale diverse e alla cui comprensione la geografia può dare il suo apporto specifico.
Il fine di questo contributo è quello di introdurre alcune tematiche collegate all’educazione verso le quali la geografia può volgere la sua attenzione, partendo dalla considerazione del rapporto tra educazione e strutture preposte alla sua gestione, quali sono i sistemi educativi, e tra educazione e ruolo della conoscenza nell’economia e nella società contemporanea.
1. Educazione e società
La costituzione dei sistemi educativi è contemporanea alla differenziazione dei sistemi sociali, dei sistemi della politica, del diritto e dell’economia. Ognuno di essi, differenziandosi, afferma la propria autonomia, la propria specificità, la propria attitudine ad essere destinatario di un’autonoma regolamentazione che implica selezione di interessi e perimetrazione degli ambiti dell’azione[2]. Un processo che favorisce nuove asimmetrie e atomizzazioni e l’educazione, che finora era intesa come un “rapporto interno, soggettivo, con il mondo”, inizia, nella società industriale, a predisporre le condizioni per un rapporto attivo di compensazione dei nuovi divari tecnologici, di supporto e di adeguamento ai processi che interessano le società e le nazioni. Nel consolidamento degli Stati-nazione, l’istruzione diventa una funzione statale volta a migliorare i livelli culturali generali della popolazione, si organizza sul territorio con la costituzione di una rete sempre più vasta e capillare di strutture locali (le scuole) e con la formazione di apparati professionali (gli insegnanti) e burocratici (personale amministrativo) preposti ad ogni singola struttura scolastica e alle strutture centrali di governo dell’istruzione; si istituzionalizza con l’adozione di impianti ordinamentali e curricolari sempre più articolati e differenziati (i programmi scolastici) e di metodiche e di teorizzazioni dell’educazione (le scienze pedagogiche). L’istruzione diviene sistema, e in quanto tale inserita nei quadri legislativi generali e destinataria di provvedimenti amministrativi, sempre più dettagliati, espressi dalle politiche scolastiche di governo dell’educazione.
Gli attuali sistemi educativi, quali strutture formali preposte all’educazione e alla formazione, sono, dunque, gli eredi diretti dei mutamenti avviati con la modernità, che hanno posto in rilievo il ruolo politico e sociale dell’educazione, le finalità generali della sua azione e la necessità di una sua propria organizzazione. In tempi e modi diversi, i sistemi educativi si sono sviluppati sulla razionalizzazione delle forme di apprendimento, intorno alle discipline, all’indirizzamento delle scelte e alla conformazione programmata delle “attitudini”, alle pratiche di “repressione” e di controllo di comportamenti socialmente rilevanti, verso un modello “di scuola che istruisce e che forma, che fa apprendere conoscenze ma anche comportamenti” [Cambi, 2003]. Il loro ruolo cresce con l’ampliarsi dell’azione umana di modificazione/trasformazione della natura e con il progredire delle acquisizioni tecnologiche che richiedono professionalità diverse e articolate, cui i sistemi educativi corrispondono, ponendo accanto ai curricula dell’istruzione, quelli della formazione tecnica e professionale, come parte cruciale del processo di educazione.
Per l’uomo moderno, l’istruzione diviene obbligatoria per certi gradi e ordini di scuola, si afferma come un diritto universale. Per gli Stati essa è un potente strumento di riarticolazione della vita collettiva, di promozione e di condivisione di valori. Per questo, i sistemi educativi sono sottoposti ad un doppio regime, come istituzioni sociali promuovono la crescita culturale ed educativa degli individui, secondo valori storicamente accreditati, come istituzioni formative professionalizzanti svolgono un ruolo di riproduzione della forza lavoro, favorendo l’acquisizioni di competenze attinenti a specifici profili professionali.
Anche per questa loro natura composita, la nascita e l’espansione dei sistemi educativi è stata interpretata da alcuni come una risposta funzionale ai mutamenti di ordine strutturale della società e dell’economia, donde esisterebbe una relazione di interdipendenza tra istruzione e sviluppo economico [Harbison e Meyers 1964; Treiman 1970; Parson 1970; Bell 1973]: le conoscenze generali e le competenze tecnico-professionali acquisite attraverso l’istruzione sarebbero funzionali ai processi produttivi. A tale ipotesi, nota come teoria della modernizzazione, altri [Meyer e Strang, 1993] oppongono un ruolo di legittimazione svolto dai sistemi educativi nel consolidamento dei moderni Stati nazionali e nella costruzione di quegli elementi necessari al loro funzionamento. La costruzione di una rete di scuole sull’intero territorio nazionale avrebbe permesso di formare cittadini leali alle istituzioni statali, che potessero, attraverso la scuola, riconoscersi come facenti parte di un’unica comunità nazionale, sviluppando il senso di appartenenza e il riconoscimento nelle radici culturali e storiche del proprio paese, anche attraverso l’uso di un comune idioma. La scuola, pertanto, avrebbe fornito le competenze alfabetiche di base per consentire una diligente condotta quale cittadino amministrato e per occupare ruoli burocratici nei diversi livelli della struttura statale. Molto più probabilmente, ambedue gli ordini di fattori hanno contribuito, seppur in maniera diversa, in contesti diversi, al formarsi dei sistemi educativi e alla loro evoluzione in apparati burocratici complessi preposti alla gestione dell’istruzione e della formazione.
Ciò che interessa far rilevare è che i sistemi educativi, seppur nati e sviluppatisi con lo scopo di affermare il principio dell’universalità dell’istruzione, si siano caratterizzati, già nel loro formarsi, come sistemi sostanzialmente chiusi, selettivi ed elitari, contribuendo ad aggiungere a sistemi sociali già ampiamente stratificati un nuovo elemento di differenziazione, rappresentato dal livello formale di istruzione posseduta[3]. Si tratta, in gran parte, di aspetti perniciosi dei sistemi educativi, che sebbene contrastati in molti paesi sviluppati con politiche di allargamento della partecipazione scolastica e con misure di sostegno per le fasce sociali più deboli, non sono stati del tutto eliminati. Cosi oggi, nonostante l’accresciuta partecipazione scolastica, non a tutti è garantita un’eguale frequenza della scuola e non a tutti sono garantite uguali opportunità di apprendimento. Certo il nostro contesto è ben diverso da quello che ha segnato la nascita dei sistemi educativi, per cui gli stessi problemi di accesso e di frequenza assumo caratteri assai diversi. Quanto meno, nelle società democratiche e pluraliste, essi non sono determinati da politiche scolastiche segregative o formalmente discriminanti e lo stesso contributo dell’istruzione non è riconducibile ad una mera alfabetizzazione di base, né alla costruzione di una identità nazionale o alla socializzazione di pratiche e di comportamenti ritenuti politicamente civilizzanti.
Nondimeno, oggi, comprendere chi ha accesso e chi no alle competenze richieste da un’economia fondata sulla conoscenza, e come queste siano necessarie anche per raggiungere determinati livelli di prosperità sociale, non può che implicare la preliminare considerazione delle dinamiche di ordine culturale, tecnologico ed economico che sono alla base dei processi che interessano la società contemporanea e che stanno dando luogo ad una planetarizzazione della conoscenza, delle sue forme di condivisione e di utilizzazione. Dinamiche che hanno determinato un’espansione esponenziale della conoscenza, come mai finora era avvenuto, con avanzamenti e modificazioni profonde nei modi di vivere, nelle modalità di organizzazione dell’economia, ma anche nelle modalità di produzione, di distribuzione e di acquisizione dei saperi, apportando, nell’interazione con aspetti culturali, cambiamenti finanche nelle identità individuali e collettive.
In questo scenario di profondi cambiamenti strutturali dell’economia e della società i sistemi educativi e formativi svolgono il proprio ruolo ed è evidente che in questo contesto vanno cercati i nessi che legano l’educazione alla struttura globale della società moderna ed analizzati i rapporti con i fenomeni economici e sociali e con il territorio.
2. Educazione e società della conoscenza
Un percorso che implica la parallela considerazione del ruolo assunto dal fattore-conoscenza, considerato che ad esso è direttamente collegata l’attività dei sistemi educativi. Il cambiamento espresso dalla conoscenza connota, infatti, la società contemporanea in modo non dissimile da quanto fatto dalle rivoluzioni tecnologiche nel passato. Ma la conoscenza, che nell’evoluzione dell’umanità ha sempre avuto il compito di generare i prodotti materiali della sua intelligenza e le forme organizzative delle società, rendendo riconducibili ad essa le espressioni più avanzate dell’economia, da produttrice di artefatti e di tecnologie a supporto dell’attività umana, si è fatta essa stessa artefatto dello sviluppo. “La società della conoscenza – chiamata nella letteratura internazionale Knowledge Society – diventa società dell’immateriale: d’ora in avanti, è obbligata a investire sulla risorsa umana per garantire il suo sviluppo” [4].
I fattori del cambiamento che possono essere considerati, al fine di analizzarne le dinamiche, non riguardano tanto le conoscenze tacite, implicite in ogni attività umana, non osservabili e non quantificabili, ma le conoscenze codificate che possono essere trasferite, manipolate, riprodotte, archiviate, per essere utilizzabili e ri-utilizzabili, in un processo continuo di cessione e di appropriazione. “La caratteristica più marcata della crescita economica moderna è stata il ricorso sempre più massiccio alla conoscenza codificata come base dell’organizzazione e dello svolgimento delle attività economiche”[5].
Il “bene conoscenza” possiede attributi molto particolari che lo differenziano da qualsiasi bene economico. Le conoscenze, anzitutto, sono il motore del progresso umano. Una nuova conoscenza può contribuire alla crescita della produttività e alla produzione di nuovi beni ed essere utilizzata fino a quando un’altra conoscenza non renda conveniente la sua sostituzione, con ciò non annullando il suo contributo, che dalle nuove idee può essere migliorato e continuare a fornire la base per sviluppi ulteriori, ampliando e moltiplicando il campo delle sue applicazioni, in un processo di arricchimento e di avanzamento che, creando valore aggiunto, incentiva e favorisce la produzione di nuova conoscenza. L’accesso alla conoscenza di alcuni non diminuisce la disponibilità ad altri, ciò ne fa un bene non rivale che può essere usato contemporaneamente da più individui senza che del più intenso utilizzo alcuni possano negativamente risentire.
Le conoscenze sono anche un bene non escludibile a cui, potenzialmente, tutti possono accedere e riceverne benefici anche di natura non economica, senza sostenere dal suo uso alcun costo marginale e, tutti insieme, godere del suo rendimento sociale. Sono disponibili all’infinito, non si deteriorano con l’uso, né si estinguono nel tempo; hanno un costo di produzione non ripetibile, ma, al pari di un costo fisso, diminuisce con l’accrescere dell’utilizzazione. Le conoscenze producono esternalità positive, di cui possono beneficiare anche soggetti diversi da quelli che le hanno prodotte, a prescindere dalla loro localizzazione spaziale e temporale.
È necessario, comunque, che le conoscenze siano trattate come un bene libero, senza restrizioni che altrimenti ridurrebbero l’utilità individuale e il progresso sociale. L’evoluzione delle conoscenze poggia, infatti, su un processo incessante di sostanziale stabilità delle sue acquisizioni, alternato a periodi di crisi e di stabile accrescimento[6], tuttavia ostacoli, anche di natura economica e politica, possono interferire e modificare il corso della sua evoluzione.
Gli attributi economici della conoscenza, pur non modificando la sua natura, di attività espressa dalla capacità intellettiva dell’uomo, di conoscere e di creare nuova conoscenza, le conferiscono la qualificazione economica di capitale intangibile dell’economia, la cui misura dà l’evidenza del contributo alla crescita del capitale reale e ai cambiamenti nelle relazioni spaziali dell’economia. L’evidenza dimostra che la crescita relativa del capitale intangibile è proseguita per tutto il secolo scorso fino a superare, oggi, in valori assoluti, il cosiddetto capitale tangibile, rappresentato da strutture, macchinari, risorse naturali, etc..
Possiamo, infatti, osservare di trovarci di fronte ad una tendenza di lungo periodo, espressa dall’aumento progressivo degli investimenti nelle attività economiche legate alla conoscenza e alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Queste ultime hanno contribuito a modificare profondamente anche le modalità di riproduzione e di trasmissione dei saperi e delle informazioni, i cui effetti vanno studiati anche nelle loro dinamiche spaziali, giacché, le innovazioni introdotte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono di estendere le possibilità di avvantaggiarsi delle esternalità legate alla conoscenza su uno spazio indefinito, che si riflette anche sul ruolo delle strutture formali preposte alla gestione e alla distribuzione della conoscenza, quali sono i sistemi educativi e formativi. La loro azione, svolta attraverso procedure intenzionali, predefinite e strutturate, risente, in misura crescente, dell’azione concorrente dei network sociali e dei sistemi non formali di trasmissione delle conoscenze. In altro modo, se la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha accresciuto, da una parte, il ruolo delle conoscenze codificate, e ridotto il contributo delle conoscenze tacite e delle esperienze pratiche, dall’altra ha ridimensionato il ruolo delle strutture formali preposte alla gestione delle conoscenze.
Il ruolo dei sistemi educativi, tuttavia, rimane essenziale proprio per la diversa natura delle conoscenze da questi trattate, essendo la scuola “l’unica sede in cui si presentano in forma ordinata e relativamente completa le «istituzioni» dei vari saperi, diversamente da quanto accade per le informazioni più o meno occasionali e scoordinate che vengono fornite in altre sedi”[7]. Spetta, infatti, all’istruzione fornire i quadri interpretativi logici e gli strumenti linguistici e metodologici che favoriscono l’acquisizione e l’implementazione dei saperi e lo sviluppo delle competenze chiavi per affrontare in mutevoli contesti sociali, culturali e lavorativi, situazione inedite e problematiche. Proprio per questo, l’innalzamento dei livelli di istruzione viene considerato essenziale nel favorire i processi di sviluppo dell’economia. E proprio per questo le conoscenze sono considerate la principale risorsa economica di cui un paese possa disporre, per progredire verso una società migliore ed un’economia più efficiente e socialmente equa.
3. Istruzione e sviluppo economico
Il rapporto istruzione-economia è stato variamente analizzato da una vasta letteratura e da diverse prospettive. Sul piano teorico, si è registrata un’ampia concordanza sul ruolo decisivo dell’istruzione nel favorire processi di crescita dell’economia, sul piano empirico la diversità e, spesso la contraddittorietà dei risultati, attestano quanto complessa sia la relazione che intercorre tra gli avanzamenti sociali ed economici di un paese e il contributo dell’istruzione. Gli studi sulla crescita economica ipotizzano un rapporto causale positivo tra capitale umano, vale a dire tra conoscenze, capacità e competenze possedute dai lavoratori, espresse da un indice degli anni di istruzione mediamente acquisiti, e il livello di sviluppo economico, riferito al reddito pro capite. Le spese in istruzione e formazione, viene evidenziato in questi studi, assai limitate in quasi tutti i paesi fino all’inizio del Novecento, iniziano in questo secolo a crescere e l’istruzione, le abilità e le competenze possedute assurgono a determinanti cruciali della produttività degli individui e delle economie. Il capitale umano diviene un fattore primario della capacità di innovare e di progredire di un Paese, un fattore strategico del suo sviluppo e della sua capacità di competere nell’economia globale. Nei Paesi più avanzati la spesa riconducibile al capitale umano rappresenta la quota più rilevante della ricchezza e ad essa, in modo diretto o indiretto, si deve l’evoluzione della crescita economica [Gary S. Becher, 2005], ciò viene evidenziato con i risultati delle economie del Giappone, di Taiwan, di Hong Kong, della Corea del Sud e di altre economie asiatiche (India, Cina) che, benché prive di risorse naturali ed ostacolate dall’Occidente con barriere alle importazioni si sono sviluppate assai rapidamente. Un risultato che viene spiegato con il fatto che questi Paesi hanno potuto contare su una forza lavoro istruita e laboriosa e su un contesto istituzionale e familiare che ha sostenuto l’impegno nell’istruzione.
Gli studi sul capitale umano mettono in luce, dunque, come ad accrescere le capacità produttive di un paese concorrano oltre agli investimenti in capitale fisico anche le conoscenze incorporate nel capitale umano. L’human capital, al pari e più del capitale fisico, è considerato una risorsa fondamentale dell’economia di una società, il cui incremento produce effetti sia sui singoli individui, in termini di maggiori retribuzioni e di migliori posizioni lavorative oltre che di maggior benessere personale, sia per l’economia nel suo complesso in termini di maggiore crescita economica e di maggior sviluppo. D’altronde, lo stesso capitale fisico altro non è che l’evidenza materiale del capitale umano, l’esplicitazione delle sue capacità creative, la traduzione in artefatti della conoscenza umana.
I paesi con più alti livelli di istruzione registrano tassi di crescita altrettanto elevati, ciò appare evidente in alcuni studi [Dixon e Hamilton, 1996] che hanno considerato il contributo di diversi fattori, tra cui il capitale umano e la ricchezza pro capite di varie regioni del mondo. Altre ricerche [Mincer, 1974] hanno considerato le differenze di reddito fra gruppi di persone con differenti livelli di istruzione, riscontrando una relazione positiva tra il livello di istruzione di ciascuno e il livello di reddito della loro attività lavorativa, da cui si può attribuire all’istruzione un carattere predittivo delle future remunerazioni, o considerate in termini aggregati, quale potrà essere il maggior reddito per l’intera economia. Ma, altri studi [Benhabib e Spiegel, 1994] hanno mostrato che, in alcuni casi, la crescita dell’istruzione non influenza la crescita economica. La relazione tra capitale umano e crescita economica è assai bassa, spesso, negativa. Dalla ricerca empirica, dunque, non verrebbero riscontri univoci, in molti casi la correlazione appare evidente, ma anche quando questo avviene rimangono diversi aspetti oscuri. Gli stessi ricercatori riconoscono che esistono molte problematiche, anche di ordine concettuale e metodologico, e diverse anomalie che richiedono l’esplorazione di molti altri aspetti, anche al fine di comprendere quali fattori dell’istruzione siano veramente importanti e come essi agiscono. Se, in altre parole, i fattori presi in considerazione sostengono una direzionalità positiva dell’associazione istruzione-crescita o la contrastano, con ciò rendendo meno evidente lo stesso rapporto di causalità. Ci si chiede, innanzitutto: è l’istruzione che favorisce la crescita o è la crescita che favorisce una maggiore domanda di istruzione? La discordanza nei risultati pone poi il problema di quali componenti dell’istruzione siano veramente importanti, se cioè i dati quantitativi relativi agli anni medi di istruzione o i tassi di alfabetizzazione degli adulti o le percentuali di iscrizioni alla scuola secondaria o all’università. Ci si chiede se essi rappresentino adeguatamente la situazione dell’istruzione o se non sia necessario tener conto di altre componenti che meglio rappresentino gli aspetti qualitativi, come i livelli di profitto scolastico, le competenze acquisite in attività di addestramento sul lavoro o in altre esperienze extrascolastiche, con ciò rendendo evidente che la sola istruzione formale di per sé non è sufficiente a dar conto della variabilità dei risultati riferiti alla crescita economica.
Si deve, poi, considerare che i sistemi educativi differiscono per tanti altri aspetti di ordine istituzionale, organizzativo, ordinamentale, che nel loro insieme connotano in modo diverso la stessa qualità dell’istruzione. I sistemi educativi possono essere più o meno stratificati, differenziarsi in cicli e gradi scolastici, e ogni articolazione far registrare un diverso contributo, in termini di qualità dell’istruzione e di risultati scolastici. Allora, in che modo incide un certo tipo di stratificazione del sistema scolastico sui risultati generali dell’istruzione? O in che modo un livello di istruzione è influenzato dal precedente? E, ancora, in che modo misurare le ricadute economiche dei benefici indiretti legati all’istruzione e in che modo questi ritornano all’istruzione? Tanti interrogativi che confluiscono in una domanda che tutte sovrasta: misurando i livelli di istruzione, stiamo veramente misurando ciò che vogliamo misurare, vale a dire, stiamo misurando il capitale umano o solo una sua dimensione? La risposta, per quanto scontata, ci aiuta a precisare la natura composita del capitale umano e quanto molteplici e diversi siano gli aspetti che possono influenzarlo. Da qui, i limiti che l’adozione di un indicatore quale l’istruzione può presentare e la necessità di considerare anche il ruolo svolto da altri fattori specifici e di contesto. Il capitale umano è un costrutto muldimensionale, non osservabile, generato, in gran parte, dal livello di istruzione e formazione ricevuta, ma esso si sviluppa in contesti territoriali locali determinati, nel rapporto dinamico con altri soggetti e di specifici rapporti che il soggetto intrattiene con il territorio, con il capitale cognitivo e con le utilità delle infrastrutture e delle esternalità prodotte sia dal capitale fisso che dai beni relazionali. Il capitale umano risente del contesto territoriale locale, dal territorio riceve conoscenze, valori, motivazione e senso delle azioni, esso diviene, in qualche modo, espressione e “portatore” di conoscenze e di pratiche territoriali. Specificità e differenze locali svolgono, pertanto, un ruolo attivo sul capitale umano, mentre il locale può essere considerato il quadro di riferimento per l’analisi del rapporto problematico e complesso che interessa la formazione del capitale umano e il contributo di questo allo sviluppo economico. Lo stesso sviluppo di un paese altro non è che la somma di tante attività economiche e sociali territorialmente situate, che interagiscono con fattori posti a scale territoriali diverse, in cui la dimensione locale è un elemento primario dei processi socio-economici e culturali, il livello ove sedimentano le risorse relazionali, cognitive e organizzative proprie di quella società. A quel livello vanno individuati gli elementi che descrivono il comportamento dei fattori che influenzano le dinamiche dell’istruzione. Da quel livello deve partire lo studio della relazione che intercorre tra istruzione ed economia.
4. Equità e inclusione sociale
Se le conoscenze sono la principale risorsa di cui una società può disporre, l’accesso e la possibilità di conseguire i livelli più elevati di istruzione assumono una indubbia rilevanza per la società, ma anche per gli individui, se questo corrisponde ad un modo di essere cui danno valore. Ne consegue che se in un paese “c’è disuguaglianza di istruzione non giustificabile in base alle capacità e all’impegno degli individui, questa si trasforma in disuguaglianza sociale non giustificabile in base ai criteri di merito o di pari opportunità, che caratterizzano la legittimità sulle società democratiche e liberali contemporanee.” (Checchi, 2006). Da qui, offrire a tutti uguali opportunità di apprendimento e favorire un’eguale frequenza della scuola significa intervenire su un fattore primario di ineguaglianza sociale: l’ineguaglianza educativa. Un sistema educativo equo distribuirà in modo equo il “bene istruzione” e contribuirà a rendere più equa la società.
L’ineguaglianza educativa si inscrive, dunque, all’interno del più ampio concetto di ineguaglianza sociale e questa rinvia ai criteri di equità posti a fondamento di una data società, espressi da diversi e mutevoli concezioni dell’idea di giustizia. Le varie teorie filosofiche hanno contribuito a migliorare la nostra comprensione del concetto di equità e a precisare i vari aspetti della sua complessa natura. Ma l’equità rimane un concetto polisemico che ispira diverse, e spesso antitetiche, concezioni di giustizia. Nell’istruzione, i diversi approcci teorici e metodologici di analisi danno luogo a diversi percorsi di ricerca sulle cause della disuguaglianza, sulla misura degli effetti delle disuguaglianze sul reddito e sulla relazione tra mobilità sociale e variazioni dei livelli istruzione.
La ricerca empirica, considerando il rapporto tra classe sociale di origine e il conseguimento dei vari titoli di studio, in vari paesi, ha riscontrato una sostanziale stabilità nelle disuguaglianze relative di istruzione per tutto il secolo scorso. Pur essendo cresciuti i tassi globali di scolarità, ossia i livelli di partecipazione al sistema scolastico, la disparità di istruzione tra le varie classi sociali è rimasta, pur con alcune differenze tra i diversi titoli di studio, sostanzialmente immutata.
Le indagini empiriche hanno reso evidente anche una progressiva riduzione del peso delle origini sociali sulle opportunità di conseguire i vari titoli di studio nei livelli successivi della stratificazione scolastica. In altri termini nei livelli più alti, diminuisce il peso di fattori di tipo ascrittivo, qual è la classe sociale di provenienza, e aumenta la rilevanza dei fattori di tipo acquisitivo, collegati al merito e alle abilità personali. Questo significa che nei livelli alti dell’istruzione terziaria l’effetto della posizione sociale della famiglia d’origine è limitato, mentre assume rilevanza la qualità del percorso scolastico.
Il fenomeno è spiegato con il diverso apporto di due ordine di fattori. Al primo, si ricollegano le abilità cognitive e l’impegno personale verso lo studio. Al secondo, le disponibilità materiali e le risorse economiche della famiglia d’origine. Il primo ordine di fattori condiziona il successo scolastico, il secondo condiziona le possibilità di sostegno delle opportunità educative. Salendo di livello nei gradi dell’istruzione, mentre diminuisce il peso delle componenti ascrittive, cresce la rilevanza delle variabili acquisitive. Gli appartenenti a classi sociali più deboli, che raggiungono i livelli superiori dell’istruzione, sembrano possedere abilità cognitive e spinte motivazionali tali da conseguire con successo titoli di studio elevati, pur in presenza di situazioni economiche familiari meno favorevoli.
Gli studi che riguardano la disuguaglianza di istruzione, in Italia, sono stati condotti da economisti e sociologi. L’analisi temporale della disuguaglianza educativa collegata alle origini sociali ha evidenziato come le disuguaglianze assolute di istruzione si siano ridotte, quasi a scomparire già verso la fine degli anni ’70, per quanto riguarda il conseguimento della licenza di scuola media, mentre sono rimaste pressoché immutate per quanto riguarda il conseguimento di un diploma di scuola secondaria di secondo grado. Sono, invece, cresciute le disuguaglianze per quanto riguarda il conseguimento di un diploma di laurea. Nel complesso, in Italia, in linea con quanto è avvenuto in altri paesi sviluppati, l’innalzamento della partecipazione scolastica ha accresciuto il numero medio di anni di istruzione nella popolazione, quasi triplicato dall’inizio del secolo ad oggi.
Lo sviluppo economico della seconda metà del secolo scorso è stato accompagnato da un’accresciuta offerta di istruzione, ma anche da una maggiore domanda di istruzione, quale conseguenza del miglioramento generale delle condizioni economiche. Due processi convergenti che hanno permesso alle regioni meridionali di recuperare il differenziale di quasi due anni in meno di scolarità rispetto alle regioni del nord Italia.
Altre ricerche hanno evidenziato come pur in presenza di un’accresciuta omogeneità nei livelli di scolarità, le disuguaglianze nei redditi nelle regioni meridionali siano sostanzialmente aumentate.
5. I geografi e l’educazione
Molti dei temi trattati nella conferenza mondiale sulla Scienza (WCS), organizzata a Budapest nel 1999, dall’Unesco e dall’International Council for Science (ICSU), sono stati ritenuti da Alberto Vallega -che ad essa partecipò quale vice presidente dell’UGI (Unione geografica Internazionale)- di rilevante interesse per la geografia. Un interesse che si snoderebbe attorno all’intensa cooperazione che caratterizza i rapporti tra ricerca sociale e ricerca naturale e al “grado potenziale di interazione tra ricerca e istruzione”.
La WCS, nel ripensare il ruolo delle scienze nel contesto della società post-moderna, ha focalizzato la discussione su alcuni temi che hanno evidenti implicazioni per l’azione politica, ma i principi-chiave che essa ha prodotto aprono importanti prospettive per la geografia. Tra essi di sicuro interesse geografico, Vallega individua l’educazione. “Un’educazione scientifica -in senso ampio- senza discriminazioni e che abbracci tutti i livelli e le modalità è un prerequisito fondamentale per la democrazia e per assicurare uno sviluppo sostenibile (DS, 34)”. Mentre tra gli interventi che dovrebbero essere assunti dai governi, dai privati e dalle organizzazioni non governative, ritenuti di “particolare interesse per la comunità internazionale dei geografi”, Vallega cita l’istruzione “In particolare, programmi e progetti di istruzione dovrebbero contribuire ad eliminare gli effetti della discriminazioni in base al sesso e della discriminazione nei confronti di gruppi svantaggiati (A, 41); indicare nuovi curricula adatti alle necessità sociali ed educative in via di modificazioni (FA, 43); connettere le istituzioni educative di formazione superiore e università”.
Lo stesso Council for Science (ICSU) tra i suoi programmi mette l’Education, con l’obiettivo-chiave di “Migliorare i sistemi educativi e la relativa collaborazione internazionale”. La crescente interazione tra scienze naturali e scienze sociali e la complessità dei fenomeni che interessano queste ultime richiedono approcci euristici interdisciplinari finalizzati all’”identificazione alla comprensione e alla soluzione dei problemi umani e sociali urgenti, secondo le priorità di ciascun paese (FA, 67)”. “la geografia -nella sua posizione di scienza che si occupa delle manifestazioni spaziali dell’interazione tra società umana ed ecosistema- è implicitamente invitata a dare consistenti contributi ad ogni livello dei curricula educativi, nonché a contribuire all’educazione sociale”.
È evidente come per la geografia la WCS di Budapest rappresenti un momento importate di riflessione che investe, in particolare, il suo ruolo nel campo delle scienze sociali, che stimola a ripensare obiettivi, ambiti di studio e metodologie. Per essa si aprono prospettive nuove che investono sia gli aspetti epistemologici della disciplina sia gli ambiti della sua esplorazione scientifica, che spingono a “riconsiderare la sua posizione nel campo scientifico e in quello sociale” [8].
Francesco Greco
Note
[1] F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino, 2006
[2] “Noi partiamo dalla considerazione che le società possano essere comprese come sistemi sociali e che siano caratterizzate, in primo luogo, dalla forma della loro differenziazione in sistemi parziali. …. ciò che si differenzia diventa indipendente da qualsivoglia processo e perciò dipendente dai processi determinati dal suo ambiente. Attraverso le differenziazioni si incrementano, quindi, contemporaneamente dipendenze e indipendenze (le une, comunque, non a spese delle altre)”. N. Luhmann, K. E. Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Armando Editore, Roma, 1999.
[3] “ogni singolo individuo viene educato per conto suo in un sistema educativo differenziato, e ogni singolo individuo può presumere, quando prende contatti con qualsiasi altra persona, che anche quella sia stata educata. Così ognuno è in grado di scegliere contatti sociali in base alle premesse con cui è stato educato e che può presupporre in se stesso e/o negli altri”, N. Luhmann, op. cit.
[4] P. Orefice, I Domini coscoscitivi, Carocci, Roma, 2001
[5] D. Foray, L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna, 2006
[6] S. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1978
[7] R. Maragliano, Annali della Pubblica Istruzione, Studi e documenti, n.78, Le Monnier, Firenze, 1997
[8] A. Vallega, La geografia dopo la conferenza mondiale sulla scienza”, Bollettino della Società Geografia Italiana, Vol. XI, Roma, 2000
Bibliografia
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