Analisi & Commenti

L’italiano comunque si apprende nella scuola

L’italia è decisivo per comopetere nell’ economia globale

 

Quanto è emerso dall’indagine condotta dall’Accademia della Crusca e dall’Invalsi su 6.000 prove scritte di italiano della maturità 2007, ma anche quanto è emerso in alcune prove d’esame per l’accesso a pubblici uffici ove è richiesta la laurea o ad albi professionali, ha suscitato, nei giorni scorsi, un certo scalpore sulla stampa nazionale. Si tratta di episodi che non fanno altro che confermare quanto già evidenziato dalle diverse indagini comparative internazionali che attestano una grave debolezza della nostra popolazione, e non solo di quella scolastica, nella padronanza della propria lingua, intesa come possesso ben strutturato della lingua italiana assieme alla capacità di servirsene per i vari scopi comunicativi. Non c’è dubbio che il luogo ove questo possesso si acquisisce, formalmente e sostanzialmente, sia la scuola. Né si può dimenticare che la lingua, per ragioni storiche e politiche legate all’unificazione del nostro Paese, sin da 1861 abbia avuto un ruolo centrale negli insegnamenti impartiti in ogni ordine e grado della nostra scuola. Certo, sarebbe assai riduttivo ricercare solo nella scuola le ragioni del declino di questa competenza chiave, ma per i casi citati non si può non evidenziare come essi attengano agli aspetti più elementari della padronanza linguistica, quella delle conoscenze lessicali e grammaticali che, normalmente, si acquisiscono nella scuola di base. Per cui, è proprio da questo segmento del nostro sistema di istruzione che si deve partire per ricercare i modi e gli strumenti per ridare centralità all’insegnamento della lingua italiana.

L’Italia, accogliendo le Raccomandazioni del Parlamento Europeo e del Consiglio, che invitano a sviluppare le competenze chiave per l’apprendimento permanente, ha definito i saperi e le competenze necessarie per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione. Il primo dei quattro assi culturali, a cui sono riferiti saperi e competenze, è proprio l’asse dei linguaggi che ha l’obiettivo di fare acquisire allo studente la padronanza della lingua italiana come ricezione e come produzione, scritta e orale, ma anche la conoscenza e la fruizione consapevole di molteplici forme espressive non verbali, oltreché un adeguato utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nondimeno, è ovvio che ciò, senza interventi di tipo strutturale, organizzativo e finanziario, rischia di avere una scarsa incidenza. La Finlandia, al vertice dei Paesi più virtuosi nelle classifiche mondiali, lo ha ben compreso e, grazie ai consistenti investimenti nell’istruzione, ha potuto modificare una situazione che quindici anni addietro era peggiore di quella italiana.

In Italia gli insegnanti, sempre additati come capro espiatorio di ogni problema, di fronte alla seria difficoltà del nostro sistema educativo, sono costretti a condurre una battaglia solitaria, potendo fare affidamento solo sui propri saperi e sulle proprie competenze didattiche. Tuttavia, la realtà che un bravo insegnante ha di fronte è ben diversa da quella che poteva presentarsi dieci o venti anni addietro. Da una parte, egli, come ogni insegnante italiano, si trova a dover far fronte ad una seria crisi di ruolo che riguarda tutta la categoria dei docenti, ormai ridotti al rango di semplici impiegati pubblici, senza i vantaggi che, invece, questi hanno, come la stabilità del posto di lavoro e la possibilità di uno sviluppo di carriera. A ciò si aggiunga che la stessa funzione dell’insegnamento, su cui si fonda la legittimazione delle istituzioni scolastiche, è considerata, all’interno della scuola, quasi residuale, essendo sproporzionatamente prevalenti quella burocratica e gestionale.

Le varie riforme varate in questi anni, tra cui l’autonomia scolastica, hanno fortemente compresso l’autonomia progettuale e didattica degli insegnanti e svuotata di ogni significato la libertà di insegnamento, pur garantita dalla nostra Costituzione. Lo stato di disagio che interessa molti insegnanti -dovuto alla scarsa considerazione sociale del proprio ruolo, cui fanno riscontro retribuzioni assai lontane dalla media retributiva europea e l’assenza di una progressione di carriera, che li condanna ad una condizione professionale immutabile- rende evidente la necessità di ridare centralità alla professione docente, come condizione per migliorare anche gli esiti scolastici dei nostri studenti. 

Dall’altra, non può non tenersi conto che la scuola, oggi, si trovi ad agire in un contesto caratterizzato da un incremento esponenziale dell’informazione e degli strumenti attraverso i quali si distribuisce. Essa, comunque, rimane sempre il luogo formale in cui la persona costruisce il suo sapere strutturato. Pertanto, l’educazione linguista ha la funzione di favorire competenze consapevoli e critiche per analizzare e valutare ogni forma di comunicazione. Non è la quantità delle informazioni che conta, ma la qualità, che si esprime nel modo di formarsi, che a sua volta si riverbera nel saper-fare e nel saper-essere della persona.

Bisogna considerare, inoltre, che la crisi che interessa la scuola italiana non è molto diversa da quella che interessa altri ambiti, per cui non è facile individuarne le cause. Se alcune vanno ricercate al suo interno, altre sono espresse dal cambiamento profondo che interessa i modi stessi di trasmissione/acquisizione dei saperi, che mettono in discussione anche i modelli tradizionali dell’insegnamento/apprendimento.

Nella scuola questo si avverte maggiormente, perché la scuola deve educare al linguaggio formale, al controllo linguistico, all’argomentazione analitica e critica, che implicano la conoscenza delle principali strutture della nostra lingua, degli elementi di base e del lessico fondamentale, per padroneggiare e gestire la comunicazione verbale e scritta. Certo, non si può pensare che altri fattori, esterni alla scuola, non esercitino una loro influenza. Al riguardo basta citare il libro di Raffaele Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, in cui l’autore evidenzia, tra l’altro, come molte delle cose che sappiamo, dalle più elementari alle più complesse, le abbiamo apprese nei contesti più vari. Tali conoscenze, a loro volta, vengono traslate nel linguaggio scritto ed orale, contaminando, non sempre positivamente, altri saperi, fino a generare forme ed espressioni, a volte, anche bizzarre.

Sono evidenti, inoltre, i cambiamenti indotti dalla rivoluzione tecnologica e la loro influenza sui modelli di apprendimento. Assai interessante è la tesi sostenuta da Francesco Antinucci, nel suo libro “La scuola si è rotta”, che ci spiega come i cambiamenti tecnologici spingano verso un modello di apprendimento di tipo percettivo-motorio, assai diverso da quello simbolico-ricostruttivo, basato sulla decodificazione di simboli (i testi per intenderci) e sulla ricostruzione mentale di ciò a cui si riferiscono. In questo modello è richiesto un grande sforzo di comprensione e di concettualizzazione, che normalmente viene fatto nei contesti formali di apprendimento, tra cui la scuola. Nell’apprendimento percettivo-motorio è centrale il ruolo dei sensi: l’individuo percepisce attraverso i sensi ed interagisce con l’oggetto della conoscenza in modo immediato.

Tutto ciò lascia intravedere la complessità che oggi riveste il momento educativo e la necessità di trattare i problemi della nostra scuola come questioni centrali per il Paese, essendo l’educazione legata ad una condizione permanente della persona, per l’acquisizione degli skills necessari per competere nell’economia globale.

Francesco Greco                           

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