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di Giorgio Ragazzini*.
«Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscoloscheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica …»
Così inizia la relazione che nel giugno del 2021 sintetizzava i risultati dell’indagine “sull’impatto del digitale sugli studenti” della 7a Commissione del Senato. Un quadro di impressionante gravità su quella che si può definire una vera e propria pandemia. Iniziata nel 2007 con l’arrivo di internet sui cellulari, si è via via aggravata; solo che, a differenza del Covid, non ha ancora suscitato un livello di allarme tale da far prendere dei provvedimenti appropriati a tutela della salute mentale dei giovani. La cultura pseudoragionevole del “non demonizzare” ha certo contribuito a trascurare i risultati di questo importante dossier, che pure chiedeva a Governo e Parlamento di “individuare i possibili correttivi”, di cui faceva alcuni esempi. I divieti scolastici vanno benissimo, ma per il resto della giornata bambini e ragazzi restano dipendenti dalla droga Smartphone, in modo in tutto simile alle droghe chimiche. La stessa insufficiente attenzione hanno ricevuto gli innumerevoli articoli usciti in questi anni su quotidiani e riviste.
Eppure già diversi anni fa erano arrivate dalla Sylicon Valley notizie che dovevano metterci in guardia sui rischi della sbornia digitale: guarda caso, i top manager delle grandi compagnie del web sottopongono a forti limiti e divieti i loro figli, a cui non consegnano un cellulare prima dei quattordici anni e che iscrivono a scuole in cui sono banditi i computer. Nel 2017 il primo presidente e cofondatore di Facebook, Sean Parker affermò: “Solo Dio sa i danni che i social network hanno creato al cervello dei nostri figli”.
Persa questa occasione per affrontare il problema, di recente se n’è presentata un’altra: l’uscita in Italia del libro LA GENERAZIONE ANSIOSA. Come i social hanno rovinato i nostri figli, dello psicologo statunitense Jonathan Haidt. Libro che il “Guardian” a ragione ha definito «una lettura urgente, che dovrebbe diventare un testo fondativo», il “New Yorker” «indiscutibilmente necessario». Qui da noi Luca Ricolfi ha parlato del “possente studio di Jonathan Haidt” prima della sua traduzione italiana. Lanciata infine in prima pagina dal “Corriere della Sera”, una chiara recensione di Valter Veltroni ne ha sintetizzato le tesi, basate su numerose e serie ricerche. Un simile allarme pubblicato con evidenza sul maggior quotidiano italiano avrebbe dovuto far drizzare le orecchie a tutti quelli che hanno responsabilità politiche o educative. Purtroppo non è stato così.
Il più impressionante cambiamento che La generazione ansiosa mette in evidenza è quello che Haidt chiama “la Grande Riconfigurazione dell’Infanzia” (da intendere come comprensiva della prima adolescenza). Fino ai primi anni di questo secolo, la crescita intellettuale e morale, oltre che fisica, dei bambini era basata in buona parte su esperienze e interazioni nel mondo reale: corse, salti, arrampicate, litigi, baruffe, giochi con la palla, discussioni, risate, scherzi, canzonature, pianti. Tutte cose insostituibili come apprendistato sociale e affettivo. Oltre a questo, nell’ “infanzia basata sul gioco”, a differenza di quella “basata sul telefono”, i bambini imparano a non correre rischi eccessivi e a non farsi male proprio perché giocano in contesti in cui dei rischi ci sono. Rischi ragionevoli, che nella maggior parte dei casi si limitano a produrre lividi, graffi e sbucciature.
Prima ancora dell’avvento dei cellulari, cioè a partire dagli anni Novanta, a limitare fortemente la rischiosità “buona” durante l’infanzia ha provveduto l’ossessione per la sicurezza. Soprattutto negli Stati Uniti, dove è stata etichettata come “safetism”, sempre più “mamme elicottero” hanno cominciato a sorvolare instancabilmente la prole per proteggerla da ogni possibile rischio. In ogni parco giochi le amministrazioni locali hanno eliminato o modificato quelli ritenuti pericolosi. Leggi sempre più severe puniscono come “abbandono di minore” anche il permettere ai figli (o permettersi rispetto figli) dei modesti allontanamenti. Tutto questo ostacola l’allenamento della destrezza, della velocità, dell’equilibrio, della forza e ha finito per far nascere un “Movimento per una ragionevole indipendenza dell’infanzia”.
In sintesi, i danni fondamentali provocati dall’uso intensivo del cellulare (oltre sette ore al giorno da parte del teenager medio) sono quattro. Alla deprivazione sociale nell’infanzia e nell’adolescenza dobbiamo aggiungere la riduzione della quantità e della qualità del sonno, con effetti molti seri quali ansia, irritabilità, depressione, problemi di apprendimento, maggior numero di incidenti; la frammentazione dell’attenzione, nei cui confronti i cellulari sono come la kryptonite per Superman, dato che i ragazzi di rado hanno cinque-dieci minuti per pensare a causa dell’incessante grandinata di notifiche che ricevono; la dipendenza e il conseguente uso compulsivo.
Dopo aver messo a fuoco i caratteri e la gravità del fenomeno, La generazione ansiosa contiene ben ottantacinque pagine di indicazioni su come sviluppare “un’azione collettiva”: cosa possono fare i governi e le aziende tecnologiche; cosa possono fare le scuole; cosa possono fare i genitori. Personalmente aggiungerei cosa possono fare i mezzi di informazione, per non essere corresponsabili dei danni alle nuove generazioni
Devo per forza rinviare alla consigliabilissima lettura del libro di Jonathan Haidt, anche se una parte delle iniziative sono intuibili a partire dall’analisi delle cause. Per quanto riguarda le scuole, per cominciare sarebbe già molto importante informare i genitori e, nei modi adeguati alle diverse età, gli stessi allievi. Il Ministro Valditara, che ha già vietato l’uso anche didattico dei cellulari nel primo ciclo, dovrebbe estenderlo alle superiori e fornire ai dirigenti e ai docenti una documentazione adeguata sul problema, per esempio la relazione parlamentare di cui sopra, integrata da una sintesi sulla necessità di un recupero dell’infanzia basata su gioco. In questo modo, le scuole avrebbero una base per organizzare riunioni con i familiari, fornendo loro anche l’occasione di accordarsi per mettere divieti e limiti condivisi sull’uso dei cellulari nell’orario non scolastico.
In conclusione, non è il caso di parlare di “allarmismo”. Non abbiamo infatti a che fare con un pericolo da prevenire, ma con una situazione di fatto già di estrema gravità, documentatissima in tutti i suoi aspetti. Non era allarmismo far suonare le sirene quando i bombardieri erano a una manciata di secondi dal cielo di una città. Era proprio necessario “allarmare” la gente. Oggi lo è altrettanto.
*Pubblicato su “ilSussidiario.net”, 7 febbraio 2025