Analisi & Commenti

Scuole aperte in estate? Una mano di vernice sopra la ruggine

di Paolo Luciani

Chi, avendo un briciolo di buon senso, passerebbe una mano di vernice su una superficie screpolata? Il risultato, dopo un breve ma apparente miglioramento, sarebbe quello di appesantire le screpolature e accelerare il processo di sbriciolamento della superficie stessa.

Solo chi ha interesse a nascondere il degrado, per esempio di un immobile, con l’intenzione di mistificarne il valore, si prodiga ad imbiancare le pareti imbruttite dall’umidità anziché preoccuparsi di risolvere il problema.

Nel 2014, quando si doveva “smerciare” il pacchetto della famigerata legge 107, la Buona scuola, nella legge di stabilità fu inserito il capitolo “Scuole Belle” che di fatto doveva palliare il degrado di moltissimi istituti del nostro paese, soprattutto al Sud. Come si poteva conciliare una riforma dal nome Buona Scuola con le “brutte scuole”?  Ecco allora la “strategia commerciale” Scuole Belle. Una sorta di imbiancata di facciata dove, in molti casi, sarebbe stato invece necessario, se non indispensabile e urgente, un intervento di tipo strutturale.

A distanza di qualche anno il ministero ripropone lo stesso “trucchetto”, ma in modo metaforico. Come risolvere tutti i problemi dovuti ai mancati interventi necessari che non sono stati realizzati per fronteggiare l’emergenza sanitaria da COVID 19?

Semplice, con una buona “imbiancata”, assolvendo una doppia funzione: mimetizzare le “screpolature” e erogare un po’ di soldi da spendere diversamente da come dovevano essere spesi, recuperando i “consacrati” PON, scemati per numero, in questo anno, a causa dell’emergenza in corso.

Occorre qui aprire una parentesi per chiederci come mai gli Istituti scolastici sono così fortemente condizionati dall’apparato centrale del ministero nonostante la riforma dell’autonomia?

Nel 1997 la Legge Bassanini (legge 59/1997, art.21) prevedeva infatti il trasferimento di molte competenze da Roma agli Uffici Scolastici regionali e ai singoli Istituti del territorio investendoli di autonomia propria.

A distanza di quasi 25 anni qualcosa sembra non aver funzionato, poiché, per molti aspetti, c’è la percezione di un ulteriore accentramento degli apparati del ministero, come struttura burocratica, intoccabile.  Gli Uffici Scolastici Regionali, che avrebbero dovuto lavorare in sintonia con gli enti locali si sono trovati invece pienamente subordinati al dictat romano, spesso quali semplici diramazioni di questa struttura di potere autoreferenziale.

Il numero di dirigenti “ben pagati” che affollano gli uffici di Viale Trastevere ci suggerisce chi davvero comanda nella scuola. Ma esattamente, la domanda sorge spontanea, di cosa si occupano gli uffici del Ministero? Di didattica e di insegnamento sicuramente molto poco, probabilmente sotto questo aspetto le scuole potrebbero reggersi da sole, e non é da escludere che forse funzionerebbero anche meglio, qualora il Ministero non esistesse proprio.

Gli uffici di viale Trastevere, questa mastodontica struttura, sembra che ciclicamente voglia giustificare la sua stessa esistenza, trovando sempre qualcosa di nuovo, possibilmente spacchettato in fondi da spendere, senza criteri oggettivi, da elargire a studenti, famiglie e docenti (ormai sempre più demotivati).

L’ultima novità di questi giorni é una sorta di “grest” estivo che dovrebbe andare a colmare la scarsità di progetti (PON) realizzati durante questo ultimo anno scolastico.

Infatti, probabilmente non sarà un caso, la maggior parte dei fondi stanziati per questa “imbiancata” saranno destinati a progetti PON.

Il pacchetto di risorse disponibili per le scuole ammonta complessivamente a 510 milioni: 150 milioni provengono dal decreto sostegni, altri 320 milioni dal PON per la scuola (risorse europee), 40 milioni dai finanziamenti per il contrasto delle povertà educative.

Ma cosa sono i PON, quando sono stati ideati, da chi è per far cosa?

L’Unione Europea all’inizio del nuovo millennio si rese conto che il Mezzogiorno d’Italia rappresentava un blocco “sottosviluppato”, che necessitava urgentemente di sovvenzioni per “allineare” la Campania, la Basilicata, la Puglia, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna alle caratteristiche socio-economiche del resto d’Europa. Furono stanziati, quindi, dei sussidi, i cosiddetti “Fondi Strutturali”.

Ai “Fondi Strutturali” stanziati dall’UE, doveva collegarsi il raggiungimento di determinati obiettivi. Tra questi, uno dei principali era lo sviluppo del sistema dell’istruzione e della formazione nelle regioni del mezzogiorno.

La realizzazione è stata affidata ai PON scuola, che si avvalgono dei FERS e dei FSE. Grazie al Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, le scuole possono incrementare le loro dotazioni scientifico-tecnologiche; attraverso il Fondo Sociale Europeo, invece, è possibile promuovere il successo scolastico e l’inclusione sociale, migliorando le conoscenze e le competenze di studenti e insegnanti.

L’allora MIUR affidò a questi finanziamenti la risoluzione di alcuni dei principali problemi che affliggevano il mondo della scuola, ma che di fatto ci sono ancora tutti.

Con l’aiuto dei PON, infatti, secondo il Ministero, si doveva ridurre il fenomeno della dispersione scolastica, sviluppando una società della conoscenza e dell’informazione. Si sarebbero dovute ampliare le competenze di base, sostenendo non solo la mobilità dei giovani, ma anche lo sviluppo degli strumenti idonei a garantirla, attraverso una concreta integrazione con il mondo del lavoro (con stage, accreditamento delle competenze e certificazioni). Inoltre, sempre per il MIUR, il PON avrebbe garantito lo sviluppo di un’istruzione permanente, non solo formando docenti e personale scolastico, ma anche rafforzando le pari opportunità di genere e lo sviluppo di una cultura ambientale.

Oggi, dopo un quarto di secolo, tanti progetti sono stati finanziati e realizzati, tanti progetti PON, ma la sensazione comune é che gli obiettivi non siano stati pienamente raggiunti.

I PON, sembrano sempre di più una sorta di sterili corsi extracurriculari, con i quali ci si aspetta che gli alunni, e i docenti, dovrebbero colmare il divario di apprendimento che li separa dalle altre realtà dell’Europa unita. Qui proporrei subito un sondaggio chiedendo a docenti, dirigenti, genitori, istituzioni, e soprattutto a chi i PON li progetta e li realizza, se conoscono quali siano esattamente gli apprendimenti europei di cui si parla, e in cosa la scuola italiana deve colmare un divario. Per carità, se l’Europa ha detto che il divario c’è, sicuramente ci sarà, su questo non ho dubbi. Ma sono certo che la maggior parte, io il primo, non saprebbe dare una risposta chiara e ben definita. Eppure ogni studente nel suo percorso scolastico ha partecipato a decine di iniziative.

Tutto questo potrebbe apparire strano, ma purtroppo è la normalità.

 I PON hanno generato una sorta di dipendenza: nessun istituto scolastico riesce più a farne a meno. Mediante questi ingenti fondi messi a disposizione dall’Unione Europea, ogni scuola può finalmente avere a sua disposizione una concreta opportunità.

Ma la programmazione di un progetto PON non è così semplice: analisi preventiva (particolarmente complicata), costi, obiettivi da raggiungere, attività di monitoraggio, rendicontazione all’UE e al MIUR. A ciò corrisponde un’ingente mole di lavoro che, troppo spesso, sottrae un tempo prezioso alla scuola e alla didattica vera e propria.

E, soprattutto nei piccoli istituti, quando la maggior parte degli insegnanti sono coinvolti nella progettazione e nella realizzazione di progetti PON, certamente, senza alcun dubbio (non possiamo prenderci in giro), quello che verrà offerto in più dall’attività extracurricolare sarà sottratto per forza di cose dall’attività didattica. É un fatto matematico, il giorno é fatto di 24 ore e non ci si può sdoppiare. Cosa diversa è quando dei progetti PON si occupa prevalentemente del personale esperto esterno alla scuola, in quel caso l’attività extracurricolare si sommerebbe a quella curricolare, ma non succede spesso.

Sostanzialmente le risorse non sempre possono essere spese per le effettive necessità, che possono essere molto diverse in ogni territorio o istituto di primo o di secondo grado, ma vengono spese giusto per essere spese, naturalmente sempre seguendo le precise disposizioni e indicazioni che impone il ministero.

Quest’anno, sicuramente particolarmente difficile (non come quello precedente che ci ha colti tutti alla sprovvista) l’emergenza non ci doveva cogliere impreparati. A settembre sapevamo tutti cosa ci aspettava e cosa era necessario fare per la comunità scolastica; lo sapevano i docenti come i dirigenti ma soprattutto lo sapeva la politica e i burocrati di viale Trastevere.

Quali erano le criticità che potevano essere risolte con i 500 milioni stanziati, evitando magari sterili strumentalizzazioni di mera propaganda politica? Tra le azioni necessarie sicuramente si ponevano quelle di:

  • Eliminare le classi pollaio che non solo rappresentano attualmente un concreto rischio sanitario, ma sono uno scandalo di inciviltà;
  • Potenziare e realizzare laboratori informatici; quelli esistenti sono molto spesso inutilizzabili se non “spenti”;
  • Acquistare i purificatori d’aria da subito, limitando sul serio i possibili contagi, anzichéé assistere alle farneticazioni dell’ex ministro Azzolina che millantava aule sicure.
  • Ridurre il gap sociale e sostenere gli alunni meno abbienti, spesso tagliati fuori dalla DAD per mancanza di dispositivi adeguati;
  • Potenziare i Trasporti Pubblici, su cui tutti si sono espressi parlando di priorità da risolvere ma per cui nessuno ha fatto nulla;
  • Adeguare gli organici, aumentandoli anziché tagliarli per poi integrarli ad anno inoltrato con “pseudo organici di fatto”, assumendo supplenti sempre diversi. In tal modo si sarebbe potuto offrire un miglior apprendimento garantendo la continuità didattica.

Tanto altro ancora si poteva fare. Ma purtroppo nessuna delle cose che si potevano e si dovevano fare é stata fatta, non c’è stata la volontà di intervenire sulla struttura “screpolata” della scuola e adesso per non fare apparire questa “bruttura” il ministro ha pensato di “imbiancarla”.

Il problema non è quello di aprire le scuole in estate. Il problema é quello di far funzionare la scuola in inverno, alleggerirla di tutte le inutilità e i fardelli che la rendono farraginosa e inadeguata; allora sì che si potrebbe pensare ad arricchire l’offerta formativa, che sia attraverso i progetti PON, che sia in estate, inverno o primavera, tutto diventerebbe possibile, auspicabile e integrativo anziché sostitutivo. Prima delle attività extra-scolastiche chi deve e può, si preoccupi delle attività scolastiche quotidiane.

 

 

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