Analisi & Commenti

Medicalizzazione o scolarizzazione? Riflessioni

04/09/2003

di Capuzzo Fiorella Maria Bernadette
Coordinatrice AND Regione Lombardia

In un recente Convegno intitolato “Gli Stati Sociali”, svoltosi a Milano il 2 marzo 2002 presso il Museo della Scienza e della Tecnologia, ho sentito più volte ripetere dai relatori il termine: “Medicalizzazione” della società, inteso a significare l’espandersi della medicina in tutti i campi del sapere.
Questa affermazione mi ha creato un certo turbamento; ho subito pensato ad un delirio di onnipotenza dei medici, un sospetto che, per la verità, ho sempre avuto!
Tutto è sanità, viene detto, i cittadini, il welfare, le istituzioni, la formazione universitaria e professionale, il destino e la dignità dell’uomo, per questo si rende necessario “medicalizzare” la società.
Questa estensione della giurisdizione della medicina ad una serie di ambiti, che in realtà non sono propri del mondo medico, mi pare del tutto ingiustificata; molti di essi appartengono, infatti, al mondo pedagogico che ci è proprio.
Più che di “medicalizzazione” mi pare, allora, più corretto parlare di “scolarizzazione” della società, dal momento che è il gergo pedagogico, non certo quello medico, ad entrare nelle aree più disparate, da quelle normative a quelle sociali, da quelle scientifiche a quelle imprenditoriali.
Basti pensare al ruolo giocato dall’istruzione, della formazione professionale, dalla formazione continua, dall’università. Tutto è scuola!
Sono i docenti che contribuiscono alla formazione umana e critica della personalità dei discenti, che formano culturalmente i futuri cittadini, che sostengono il welfare e le istituzioni, che producono e riproducono i saperi, e che, in un certo senso, aiutano la veicolazione del destino dell’uomo.
Siamo noi che, grazie ad un lavoro spesso sommerso, spesso basato sul puro volontariato, abbracciamo una missione non riconosciuta, né dal punto di vista economico né da quello sociale.
Siamo sempre noi che formiamo, tra gli altri, i futuri medici !
L’uomo è un’entità completa che ha bisogno di valori riconosciuti. Chi riconosce i nostri?
Secondo Smith (1948): “Un sistema sanitario con professionisti demotivati non potrà mai rispondere allo scopo per cui esiste”, mi chiedo, allora, se un sistema scolastico con professionisti demotivati possa rispondere allo scopo per cui esiste, quello, cioè, di formare le donne e gli uomini.
Gli aspetti che più influiscono sulla demotivazione professionale dei medici, continua il relatore, sembrano essere: aspettative, burocratizzazione del lavoro, ridotto investimento in termini di risorse; rapporto medici/pazienti profondamente modificato.
Credo che il postulato espresso dal relatore riguardi profondamente anche la nostra categoria, proprio per l’evoluzione del ruolo completamente modificato a fronte di una assoluta mancanza di aspettative economiche e sociali.
Mi soffermo poi su un pensiero e come S. Agostino, mi chiedo: io chi sono?
Noi chi siamo? Insegnanti! La definizione già mi lascia perplessa. Docenti, penso. Sì, quando mi chiedono la mia professione, mi sembra quasi svilente dire: insegnante. Rispondo allora: docente, quasi la parola riempisse di prestigio ciò che quotidianamente si basa su un’attività spesso svilente, non per i ragazzi, certo, non per i colleghi, si intende, ma per gli altri. E chi sono gli altri? La società, lo spazio sociale in cui viviamo.
Bisogna allora che il nostro mondo professionale si riappropri della dignità sociale.
Sanità ed istruzione sono da sempre state considerate i due moloch della welfare society; in questi ultimi anni; pare evidente, però, che solo la prima abbia ancora un consistente riconoscimento economico e sociale, mentre la seconda sembra avere perso i contorni del proprio profilo professionale.
A volte penso che molti docenti ricorrano alle associazioni motivati da un desiderio di ritrovarsi tra “simili”, per condividere le stesse paure, le stesse speranze, le stesse prospettive, di fronte ad una società che non comprende, e soprattutto che non ci considera.
Recentemente sento spesso parlare di “salute” e di “benessere degli insegnanti”. Non sono ancora riuscita, però, a trovare una corresponsione tra il paradigma salute-insegnante. Noi non siamo sani, siamo malati. Siamo malati di tristezza e di delusione. Siamo demotivati, stanchi ed arrabbiati.
Ritengo, inoltre, provocante venire classificati come categoria di professionisti, senza avere definito né un compenso adeguato alle nostre prestazioni intellettuali, al pari degli altri professionisti o almeno dei nostri colleghi europei, né tanto meno le nostre competenze.
Non abbiamo nemmeno un ordine professionale che, di concerto con i sindacati, possa dare dignità e rispettabilità alla nostra professione!
Il nostro lavoro è basato sull’amore, sulla dedizione e, purtroppo, spesso sul mero volontariato. Almeno i pochi medici che svolgono attività senza fini di lucro, vengono riconosciuti: “Medici senza frontiere” ed hanno il consenso pubblico e sociale.
A noi, “Docenti senza frontiere”, intendendo con ciò l’aspetto umano e sommesso del nostro lavoro, non viene riconosciuto nulla.
Cari colleghi, il dibattito pedagogico implica riflessioni profonde e credo sia giunto il momento di riappropriaci della nostra dignità e del riconoscimento economico e sociale che ci è dovuto!!!

 

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