“L’insegnamento non è un’arte persa,
ma il rispetto per essa è una tradizione persa!”.
Questa asserzione di Jaques Barzun sintetizza la situazione in cui, oggi, purtroppo, versa la scuola italiana. Se essa non si riforma in modo attento e innovativo, l’etimologia della parola “insegnamento” probabilmente perderà il suo significato originale, ma quel che è peggio, la scuola italiana rischia di perdere per sempre il suo tratto distintivo di culla della democrazia.
Il Congresso dell’Associazione Nazionale Docenti, a vent’anni dalla sua costituzione, è un’occasione per contestualizzare e riflettere non solo sullo stato dell’istruzione nel nostro Paese, ma anche su come regge il disegno costituzionale dell’istruzione, a fronte delle dinamiche politiche, sociali e tecnologiche che stanno modificando profondamente ogni aspetto dell’organizzazione e delle relazioni sociali. È anche l’occasione per riaffermare e sostenere lo spirito e i contenuti di un modello di scuola democratica, da noi fortemente sostenuto, volta a superare il modello dirigistico-burocratico introdotto negli anni ‘90 e, recentemente, rafforzato con un’accentuazione autoritaria.
Discutere di questo comporta non solo ragionare intorno agli aspetti normativi che hanno modificato l’assetto organizzativo e gestionale delle nostre scuole, ma anche sul ruolo svolto dai contesti culturali in cui sono maturate le idee la cui attuazione politica ha portato all’autonomia scolastica e all’attribuzione della funzione dirigenziale ai capi di istituto. Idee forti, non tanto per la bontà dei loro contenuti, ma perché cariche del potere degli attori che le sostengono, capaci di condizionare scelte politiche, spesso anche in modo assai poco trasparente.
Al riguardo, è significativo considerare, come, a partire dagli anni ‘90, oltre ai tradizionali attori istituzionali (partiti politici, organizzazioni sindacali, Confindustria, Chiesa Cattolica, etc.), altre agenzie, per lo più espressione di potenti gruppi industriali e finanziari abbiano affermato la loro presenza e un forte interesse sul fronte dell’Istruzione.
Agenzie private che promuovono incontri, anche internazionali, pubblicano dossier, studi, report e attraverso queste attività cercano di influenzare, spesso con successo, le politiche dell’istruzione. L’opacità che ammanta queste influenze rinvia, tuttavia, ad altre questioni che dovrebbero essere fondanti in un dibattito democratico attorno ai dispositivi di cura della conoscenza come bene pubblico della persona. Di queste influenze si possono cogliere segni, indizi, ma mai cosa effettivamente avviene dietro le quinte, anche perché mai vengono esternate le ragioni effettive di certe scelte legislative e governative, chi vi ha concorso e quali siano le reali motivazioni. La lettura di un testo normativo in materia scolastica, diventa più spesso un’opera di disvelamento, piuttosto che un’interpretazione operata secondo i canoni dell’ermeneutica giuridica, ma rimane comunque un’opera necessaria per capire il brodo in cui certe riforme sono cotte, per poterne fare un uso consapevole, tanto più per chi si occupa di conoscenza, di saperi, se non si vuole rimanere dei stakeholders ignavi, prima ancora che inconsapevoli.
Bisogna, inoltre, considerare che oltre agli attori che operano su scala nazionale, un ruolo importante è svolto da alcune istituzioni internazionali, tra cui l’UE, l’OCSE, il FMI, la Banca Mondiale e altre organizzazioni internazionali che, pur non intervenendo direttamente sulle politiche dell’educazione dei singoli paesi, esercitano una potente influenza. Le pressioni operate da queste organizzazioni si manifestano già sul finire degli anni ‘80, con le prime comparazioni internazionali sulle prestazioni educative dei diversi sistemi nazionali che aprono la strada ad una competitività globale tra i sistemi di istruzione[1]. Iniziano a prendere terreno, in quegli anni, le teorie del capitale umano e le sue logiche competitive, che implicano flessibilità, competenze, accountability. Anche nella scuola incominciano a fare capolino pratiche attinte da contesti privati, si sperimentano progetti finalizzati a conseguire risultati con “qualità certificata”, la cosiddetta qualità ISO, attraverso convenzioni che il Ministero stipula con la maggiore organizzazione imprenditoriale privata, la Confindustria.
Altre teorie si affermano a livello internazionale che pongono una fiducia incondizionata sull’individuazione quantitativa degli obiettivi e del relativo accertamento dei risultati, che consentirebbe di verificare l’efficienza di un sistema a prescindere dal settore al quale appartiene[2]. Obiettivi quantitativi fissati dall’alto e verificabili dall’esterno che consentirebbero di discriminare le unità efficienti da quelle che necessitano di adeguamenti. Anche la pubblica amministrazione, secondo tali teorie, andrebbe suddivisa in unità gestibili secondo parametri che consentissero la misurazione dei risultati delle singole unità amministrative e la misurazione delle prestazioni dei suoi “addetti”, passando da un’azione amministrativa conforme alle regole, ad una conforme ai risultati. Da qui, la proliferazione di autorità apposite indipendenti, semi-indipendenti, autonome e l’incremento di figure preposte al controllo. La misurazione quantitativa dei risultati, spinge alla uniformazione del lavoro e alla sua curvatura sulla valutazione dei risultati, con una percentuale crescente dell’impegno lavorativo sulla rendicontazione procedurale e quantitativa, piuttosto che sulla cura del lavoro specifico che, al contrario, diviene marginale[3].
Sono teorie di chiara ispirazione taylorista, presenti in molti progetti di riforma della pubblica amministrazione, espressione di politiche neo liberiste, che hanno come obiettivo uno Stato che “funzioni meglio e costi meno”, ma che in realtà, alla luce dei fatti, le riforme che si sono basate su queste teorie hanno confermato gli stessi costi e gli stessi risultati, eccetto i costi del management che sono cresciuti in maniera esponenziale e quelli dei salari e degli stipendi che, invece, si sono mantenuti bassi e stabili. E, tuttavia, per quello che qui ci interessa, all’interno di queste teorie che prende piede e si afferma il paradigma managerialista, da qui la definizione New Public Management (NPM).
In questo contesto, in Italia, all’interno di un più vasto intervento di riforma della pubblica amministrazione, attuato con la cosiddetta Riforma Bassanini, si colloca l’attribuzione alle scuole dell’autonomia scolastica (art. 21, legge 59/1997) e la successiva attribuzione ai capi di istituto della qualifica dirigenziale (D.lgs. 59/1998). È una ri-articolazione dell’organizzazione scolastica che attribuisce alle scuole autonomia amministrativa, didattica e organizzativa e una coerente regolamentazione (DPR 275/99) che ne definisce le diverse modalità di attuazione.
A ben vedere, in Europa, il trasferimento di competenze dal centro verso le scuole rappresenta un processo relativamente recente, che prende l’avvio, con l’eccezione dei Paesi Bassi e del Lussemburgo, solo negli anni Ottanta, prima in Spagna, poi in Francia e successivamente in Gran Bretagna. Ma è negli anni Novanta che si rafforza e si estende ad altri Paesi europei. La crisi economica spinge molti Paesi ad adottare riforme generali di sistema, tra cui anche interventi di decentramento politico-amministrativo, finalizzati al recupero di efficienza delle politiche pubbliche e ad un uso più efficace delle risorse.
In questa prima fase, l’autonomia scolastica è inserita nel quadro generale delle riforme e procede di pari passo con il decentramento politico delle competenze verso le collettività locali. Le politiche di decentramento sono guidate dall’idea che il carattere di prossimità delle decisioni ai destinatari sia una garanzia di miglior utilizzo delle risorse pubbliche.
Questa è la filosofia, che anche nel campo dell’istruzione, guida le riforme e che vede nel decentramento la possibilità di migliorare l’efficacia e l’efficienza dell’organizzazione scolastica, tanto da far assurgere l’autonomia scolastica a paradigma di ogni successivo intervento riformatore.
Negli anni successivi, in molti Paesi, oltre al consolidamento del processo avviato negli anni Novanta, vengono emanate nuove norme che rafforzano i poteri già conferiti agli istituti scolastici. È quanto avviene in Spagna, in Germania, in Lituania, in Lussemburgo, in Romania, in Bulgaria, etc. In questo decennio, tuttavia, il trasferimento di nuove competenze alle scuole non è più connesso al processo globale di riforma delle strutture politiche ed amministrative, ma tende ad assumere una specifica rilevanza.
Questa seconda fase dell’autonomia scolastica, per il nostro Paese, inizia nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione, la quale, nell’attribuire alle regioni la potestà di legislazione concorrente in materia di istruzione, fa “salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Si tratta di un punto di snodo assai importante. Il riconoscimento di una rilevanza costituzionale all’autonomia scolastica non solo amplia il quadro legislativo tracciato dalla Legge 15 marzo 1997, n. 59, ma apre la prospettiva per attribuire alla scuola un ulteriore e indispensabile grado di libertà, l’autonomia statutaria.
Giova ricordare che la Carta Costituzionale riconosce autonomia statutaria non solo agli enti territoriali, “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”, art. 114, c. 2, ma anche alle istituzioni di alta cultura, alle università e alle accademie, art. 33, c. 6. Il processo di esercizio effettivo di tali potestà, tuttavia, come ben sappiamo, ha avuto una lunga gestazione. Se, infatti, si prescinde dalle regioni, la cui storia è ben nota, e da quella dei comuni che solo nel 1990 con la legge 142 si sono potuti dotare uno statuto, le università hanno dovuto aspettare la legge 168 del 1989; le istituzioni artistiche e musicali prima la legge 508 del 1999 e poi il regolamento di attuazione emanato nel febbraio del 2003.
Ma mentre l’autonomia che la Costituzione riconosce agli enti territoriali si fonda sulla natura elettiva dei loro organi di governo, quale proiezione della sovranità delle comunità che amministrano, quella delle università e degli istituti di alta formazione artistica e musicale, si fonda anche sulle garanzie che la Costituzione riconosce all’insegnamento (art. 33, C.). Parimenti vale per l’attribuzione dell’autonomia statutaria alle scuole che, nel rispetto delle norme generali fissate dallo Stato, diverrebbero titolari di un potere normativo coerente con la loro missione, imperniato sulla funzione che legittima la loro stessa esistenza, l’insegnamento-apprendimento. In altro modo, con l’autonomia statutaria le scuole sarebbero legittimate a darsi finalmente un modello di organizzazione il cui cuore batterebbe in modo sincronico con il processo che gestiscono.
Porre l’insegnamento-apprendimento al centro dell’organizzazione, quale elemento fondante dell’istituzione scolastica, rende necessario ridisegnare il ruolo e le funzioni dei suoi organi di governo all’interno di una visione condivisa dell’agire organizzativo. Ciò comporta adottare una metodologia di costruzione delle decisioni che presuppone un modus operandi basato sulla partecipazione e sulla responsabilità in ogni fase del processo decisionale, dall’elaborazione del progetto educativo, all’attuazione, alla valutazione dei risultati. Partecipazione, responsabilizzazione e condivisione, a loro volta, implicano un modello di leadership distribuita, caratterizzato da competenze professionali elevate e da qualità personali che consentono di svolgere ruoli chiave in modo autorevole e di accettare la valutazione come momento irrinunciabile del proprio operato.
In breve, partendo dall’autonomia statutaria e da una diversa articolazione delle competenze, della formazione e della composizione degli organi delle istituzioni scolastiche, si possono delineare alcuni degli aspetti chiave di una governance democratica della scuola, assai diversa da quella autocratica e dirigistica mutuata da altri contesti e, oggi, imposta alla scuola.
L’attuale modello dirigistico, figlio dell’autonomia scolastica funzionale, di derivazione aziendalista, a ben vedere, è ormai superato anche nell’esperienza di numerose imprese economiche di successo, che vanno dalla Toyota, alla Volvo, alla General Eletric, all’Apple di Steve Jobs, a Google e, prima ancora, dalla W.L. Gore che ha brevettato la nota fibra speciale Gore-Tex, solo per citarne alcune. Molte di queste aziende, pur appartenendo “all’industria in senso proprio e tradizionale”, come ha efficacemente illustrato Federico Rampini[4], da qualche decennio hanno incominciato “a sperimentare la rivoluzione anti-autoritaria” di modelli “senza capi”. Un fenomeno ormai così diffuso da essere studiato nelle più prestigiose università e analizzato da autorevoli studiosi di management[5]. “Che non si tratti di esperienze eccentriche motivate nella fede di una dottrina antica, -scrive Rampini- lo dimostra il rispetto che questo fenomeno riceve dal giornale più letto tra i manager americani, il Wall Street Journal. «Welcome to the Bossless Company», recita il titolo di una recente inchiesta dedicata a questo fenomeno. Bossless: senza capo”. Si tratta di modelli organizzativi con una struttura reticolare o circolare, basati sulla collaborazione e sulla flessibilità dei ruoli. “Il lavoro è organizzato per squadre che si formano su singoli progetti. Invece della tradizionale “catena di comando” -che storicamente s’ispira agli eserciti, poi riadattata dal taylorismo- ci sono “ruoli di leader” che vengono riconosciuti di volta in volta «a chi si guadagna la stima dei colleghi e viene riconosciuto come aggregatore»”.
Dare alle scuole un nuovo modello di governo democratico presuppone, innanzitutto, una chiara differenza tra funzioni di indirizzo e di gestione; anche queste ultime andrebbero demandate, come avviene in molti Paesi europei, ad un organo collegiale (Giunta Esecutiva). Va da sé che l’abbandono del modello burocratico e dirigistico di derivazione aziendalistica renda, poi, necessari la temporaneità del mandato del rappresentante dell’istituzione scolastica e il suo conferimento attraverso l’elezione (Preside elettivo) da parte della comunità scolastica rappresentata nel Consiglio di Istituto. Si tratterebbe per il nostro sistema scolastico, com’è facile immaginare, di una importantissima innovazione. Per il preside eletto, cosi come avviene in altri Paesi europei, la temporaneità dell’incarico e il suo conferimento attraverso l’elezione non potrebbero che accentuare il carattere di missione della sua azione che diverrebbe imprescindibile dalla qualità e dai risultati del processo di insegnamento-apprendimento e dal rapporto con l’insegnamento, che sarebbe solo sospeso per la durata del mandato.
Il re-indirizzamento dell’organizzazione sugli apprendimenti porta con sé, inoltre, la necessità di una ri-articolazione funzionale del ruolo di coloro che sono preposti alla loro acquisizione, i docenti, con chiari riflessi sullo sviluppo della loro professione. Ruoli diversi richiederanno, infatti, competenze e responsabilità diversificate, oltreché la disponibilità a svolgerli in contesti differenti e, dunque, uno sviluppo della professione degli insegnanti in fasce funzionali non gerarchiche, che consenta ai docenti, che per merito raggiungono la fascia superiore, di ricoprire ruoli rilevanti, compreso quello di preside dell’istituzione scolastica.
Si deve, inoltre, considerare, infine, che le garanzie poste dalla Costituzione possono trovare attuazione solo se sono salvaguardate l’autonomia professionale degli insegnanti e la loro piena partecipazione al governo democratico dell’istituzione scolastica. Da qui, si rileva che lo stato giuridico dei docenti non può più essere assimilato, come ora anche sul piano disciplinare, a quello di altri dipendenti della pubblica amministrazione, ma richiede una propria disciplina e uno specifico sistema di tutele affidato ad organismi tecnico-rappresentativi della professione (Consiglio superiore della docenza). È lapalissiano che la libertà di insegnamento è intimamente legata alle condizioni del suo effettivo esercizio e che ogni limitazione, se volta a perseguire altri fini, non può che assumere i tratti di un’indebita ingerenza.
In conclusione, è tempo di prendere atto del fallimento del paradigma dirigistico e sostenere il modello alternativo che noi proponiamo, fondato su un’organizzazione democratica della scuola e sul paradigma dell’elezione degli organi di governo.
Francesco Greco, Presidente Associazione Nazionale Docenti
*Relazione Congresso Nazionale, Cosenza, 22 giugno 2018
Note
[1] “…altre pressioni apparivano sulla scena del contesto internazionale. Istituzioni come l’OCSE e l’UE, infatti, iniziano ad utilizzare come minaccia le comparazioni internazionali sulle prestazioni educative dei diversi sistemi nazionali …, Senza leadership: la costruzione del dirigente scolastico, R. Serpieri, F. Angeli, Milano, 2012
[2] “Nel 1992 la Banca Mondiale ha introdotto il concetto di buona governance tra i criteri adottati per accordare prestiti ai paesi in via di sviluppo (World Bank 1992). In questo caso, governance si riferiva alle riforme neoliberali del settore pubblico -il New Public Management e l’introduzione di meccanismi di mercato (marketization) – che la Banca Mondiale riteneva portassero ad una maggiore efficienza”. M. Bever, Una teoria decentrata della “governance”, Rivista Stato e Mercato, n. 66, Il Mulino, Bologna, dicembre 2002
[3] “Sull’impatto generale di questi mutamenti si potrebbe dire molto, qui ci limiteremo ad accennare alla trasformazione delle burocrazie causata dal metodo strettamente quantitativo di valutazione dei risultati: in molti casi gli addetti denunciano come percentuali sempre più ingenti del loro lavoro si incentrano sulla rendicontazione delle quantità. Per allargare solo per un attimo il discorso, nell’acceso dibattito danese i lavoratori del settore pubblico lamentano percentuali fino all’80% del tempo di lavoro assorbito dalla rendicontazione procedurale e quantitativa. Per il servizio specifico restano tempi quasi residuali.” P. Borioni, Il New Public Management: attese e realtà, eticaeconomia.it, 27 febbraio 2017
[4] F. Rampini, Senza Capo. Agli ordini del manager collettivo, La Repubblica, Roma, 2 settembre, 2012
[5] Gladwell “The Tipping Point: How Little Things Make a Big Difference”, Hachette Book Group, U.S.A., 2000.