
L’EDITORIALE.
Lo stato di profonda crisi in cui si trova la scuola pubblica italiana in questo particolare momento storico, rende necessaria un’attenta e seria riflessione e non sembra che la strada imboccata negli ultimi decenni sia quella giusta. Del resto l’AND ha sempre parlato molto chiaramente, evidenziando con puntualità e senza tatticismi i termini delle questioni, sforzandosi anche di definire possibili percorsi operativi per invertire la china. E oggi ci rendiamo conto che, fra tanta confusione e in una sorta di caos, condito a volte di inaccettabili insulti gratuiti che toccano livelli di livore di inaudita gravità, non solo verbale, dobbiamo insistere per contribuire a ripristinare un clima di confronto civile e pacato, cercando di essere ancora più concreti e incisivi nell’individuare azioni più efficaci a favore di una scuola veramente “bene comune”.
Non crediamo che la strada sia quella rappresentata da annunci e proclami contenuti in alcune scomposte reazioni ai casi di “scena muta” ai colloqui orali degli esami di Stato, posti in essere da studenti che, a conti fatti, avevano già superato il livello minimo aritmetico di voto, stabilito per ottenere il titolo di studio previsto. Del resto l’art. 28 comma 2 dell’Ordinanza ministeriale non ammette dubbi:
“Il punteggio finale è il risultato della somma dei punti attribuiti dalla commissione/classe d’esame alle prove scritte e al colloquio e dei punti acquisiti per il credito scolastico da ciascun candidato, per un massimo di quaranta punti“.
Il massimo che può fare la commissione è quello di valutare il colloquio con il classico “zero” punti. Ma non certamente negare il superamento dell’esame, per il semplice fatto che la normativa non lo prevede, e la legge va sempre rispettata. Diverso sarebbe stato, invece, se questi studenti non si fossero presentati davanti alla commissione durante la prova orale. Per cui sembrano del tutto inutili, patetiche e fuori luogo le tante dichiarazioni che richiedevano di “bocciare”, negando cioè il diploma.
A nostro avviso è invece necessario “ascoltare” questi silenzi, capirne il senso inespresso, chiedersi il motivo per cui uno studente, o meglio, una persona “matura”, assuma un atteggiamento simile. Ne abbiamo sentite tante: dal tentativo di “ottenere una notorietà mediatica” alla “goliardata provocatoria”, dal desiderio di fare a gara nella corsa alla “emulazione” al voler essere “controcorrente e alternativi” a tutti i costi, e tanto altro ancora che preferiamo non citare per carità di patria.
Gli accadimenti, di qualsiasi natura essi siano, dopo la fase comprensibile della reazione “a pelle”, vanno esaminati, approfonditi e capiti. E’ un nostro compito specifico e un “imperativo categorico”, perché siamo docenti e siamo scuola e non possiamo sottrarci, proprio perché investe in toto la nostra “professione docente”. E lo diciamo sapendo che si tratta di un’impresa difficile e complicata. Ma non c’è un’altra via.
Sicuramente fallimentare sarebbe il tentativo di limitarsi al richiamo stricto sensu al rispetto del “principio di autorità”, inteso unicamente come “potere di comando”. Chi lo fa probabilmente ha in mente un altro tipo di scuola e di organizzazione sociale, non certamente la “scuola comunità educante e democratica” sancita dal contratto vigente e, prima ancora, dalla Costituzione, nella quale noi crediamo fermamente.
In ogni caso la discussione, a cominciare dal necessario e auspicabile ripensamento complessivo del sistema degli esami di Stato, resta aperta ed è tanto più necessaria e ineludibile, quanto più è grave la situazione che ci troviamo di fronte. Quindi, l’invito a tutti i colleghi e non solo, è di assumere un atteggiamento di disponibilità ad andare in profondità alle questioni, sapendo che è un percorso lungo e faticoso, che potrebbe rischiare di mettere in discussione anche tante nostre certezze.
Sarebbe davvero una iattura se si procedesse con vuote “semplificazioni”, utili forse per raccogliere qualche “mi piace”, ma del tutto inaccettabili se davvero si vuole affrontare le sfide che abbiamo di fronte, partendo dal presupposto che i processi vanno “governati” con attenzione, competenza e responsabilità, per evitare che qualsiasi problema si trasformi in una “emergenza” da fronteggiare con l’adozione di misure “eccezionali”, che altro non sono se non la certificazione di un fallimento, una sconfitta per tutti.