04/10/2003
di Francesco Greco
Presidente Nazionale dell’AND
I vari tasselli del processo riformatore degli anni ‘90, letti oggi in retrospettiva, permettono di cogliere le linee di un disegno politico generale di riforma, che ha interessato l’azione amministrativa, i rapporti tra i diversi organi istituzionali e le funzioni centrali dello Stato, che sono state ridisegnate in termini di politiche generali e di indirizzo.
Alcuni di questi tasselli, per la loro natura innovativa, sono destinati a perdurare nel tempo e a resistere alle turbolenze di politiche effimere o pseudo riformatrici. Altri, legati ad aspetti più contingenti e, spesso, di opportunità politica, sono destinati a venir meno con la memoria dei loro autori.
L’attuale legislatura, che avrebbe dovuto essere segnata, tra l’altro, dalla riforma federale, sembra, ormai, aver abbandonato l’idea di riforme organiche, di ampio respiro. Lo stesso progetto sulla devolution, voluto da Bossi e approvato dal Governo, a ben vedere, oltre a problematiche non direttamente collegate alla “questione federale”, quali la proposta di introdurre un regime di insindacabilità dei parlamentari e dei consiglieri regionali e la non impugnabilità per conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale delle delibere delle Camere e dei Consigli regionali, si inserisce nel quadro della precedente riforma del Titolo V della Costituzione, proponendo, tuttavia, una sorta di “regionalismo differenziato”, asimmetrico, a geometria variabile delle competenze. Vale a dire, accanto alla competenza concorrente, ciascuna regione potrà, ma solamente se lo riterrà politicamente opportuno e anche finanziariamente e amministrativamente sostenibile, esercitare una competenza legislativa esclusiva in materia di assistenza ed organizzazione sanitaria, pubblica sicurezza di interesse locale e, come prevedibile, in materia di organizzazione scolastica e di definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione.
Benché regionalismo e sussidarietà implichino l’accettazione e la valorizzazione del principio di differenza, è di evidenza il problema di come evitare che la differenza si trasformi in gravi divari socio-economici, tra Regioni ricche, in grado di esercitare le nuove competenze e Regioni povere, impossibilitate a sfruttare le nuove opportunità; il problema di come, in buona sostanza, garantire a tutti pari diritti di “cittadinanza”, a prescindere dalla Regione di residenza, assicurando pari opportunità e il godimento di uno standard minimo garantito di tutela dei diritti sociali.
A ben vedere, una prospettiva di regionalismo differenziato è già presente nell’attuale Costituzione riformata, ove nel nuovo art. 116 è esplicitamente prevista la possibilità di conferire, con legge dello Stato, alle Regioni che ne facciano richiesta, nuove e più ampie competenze sia nelle materie di potestà legislativa concorrente che in importanti materie rientranti nella potestà legislativa statale, come l’istruzione, la giustizia di pace e l’ambiente.
Tuttavia, la situazione di indeterminatezza nella partizione tra materie di competenza esclusiva (dello Stato o delle Regioni) e concorrente, rischia oggi di aprire la strada ad un contenzioso defatigante tra Stato e Regioni, acuendo un contrasto da sempre latente, evidenziato dalla discussione sulla legge finanziaria, che prevede riduzioni di risorse e, anzi, ulteriori aggravi di spese a carico delle Regioni.
L’asprezza e il modo, anche eclatante, di alcune prese di posizione rendono evidente come la possibilità di sintesi delle diverse istanze regionalistiche non può che venire dal coinvolgimento diretto delle Regioni alla elaborazione della legislazione di principio, attraverso la trasformazione del Senato in camera delle Regioni e affrontando in modo organico e chiaro il problema cruciale della finanza regionale e del “federalismo fiscale”.
In questo contesto, la scuola italiana, riformata e da riformare, continua a rimanere nell’agone politico di competenze attribuite o rivendicate, di riforme proposte o desiderate, una “materia” da espugnare da quelle a competenza esclusiva dello Stato.
E così la legge 30, approvata da poco più di due anni e messa in naftalina dal ministro dell’Istruzione, con l’approvazione della “Riforma Moratti” sarà, per esplicita previsione, definitivamente abrogata. Ma la stessa futura legge Moratti, qualora passerà la riforma costituzionale voluta da Bossi, sarà rovesciata come un guanto da quelle Regioni che, non condividendone l’impostazione e i contenuti, decidano di esercitare una competenza esclusiva in materia di istruzione.
Tutto questo avviene, ma nessuno si preoccupa della tenuta del sistema, della sua capacità di metabolizzare l’ingente mole di novità che gli si rovina addosso, della reale utilità di quanto proposto e, cosa ancor più sconfortante, dell’irreale dialogo tra sordi che ormai si è instaurato tra le forze politiche che siedono in Parlamento. Troppo spesso si dimentica che le vere riforme sono fatte per il futuro e che il futuro non può poggiare su piedi di argilla; che le riforme hanno i loro costi e che, se non si è disposti a sostenerli, è molto meglio non proporle al Paese.