di Daniele Terlizzese 14.01.2011, tratto dal sito www.lavoce.info
L’impianto della riforma dell’università è in linea di principio coerente e razionale. Tuttavia nel testo mancano spesso dettagli importanti per valutare l’efficacia concreta delle disposizioni. Così come molte volte non è indicata o sembra eccessivamente limitata l’entità delle risorse per realizzarle. I meccanismi per la valutazione o l’incentivazione della qualità sembrano eccessivamente dirigistici. Si tratta di limiti che in larga parte dipendono dalla scelta di fondo fatta dalla legge: regolamentare invece di responsabilizzare.
La riforma dell’università ha portato in piazza decine di migliaia di studenti, è stata salutata come epocale o liquidata come irrilevante. Le forti reazioni che ha suscitato sono giustificate: ha un’importanza cruciale per il futuro del paese e delle nuove generazioni. Ma il cittadino che volesse farsi autonomamente un’idea troverebbe la legge di ardua lettura: 37 pagine, 20mila parole, periodi infarciti di riferimenti incrociati e involuti. In alternativa, offro al lettore una versione liberamente interpolata della legge, che rende più semplice individuarne le idee-guida ed esaminare come queste prendono corpo nelle varie disposizioni. (1)
Mi concentro, tuttavia, sulla configurazione a regime dell’università che emerge dalla legge, tralasciando le disposizioni transitorie. Non si tratta di un’omissione irrilevante, poiché in linea di principio una disposizione transitoria (per esempio, una “sanatoria”) potrebbe pregiudicare la configurazione a regime.
IDEE-GUIDA DI UNA RIFORMA
La legge ha quattro idee-guida:
a) l’introduzione di meccanismi per “incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”;
b) l’introduzione di meccanismi standardizzati per il reclutamento, per la valutazione della ricerca e della didattica;
c) l’introduzione di una disciplina finanziaria analoga a quella di qualunque “impresa”, con obblighi di programmazione, rendiconto, trasparenza;
d) l’introduzione di un percorso di ingresso nell’università analogo al tenure-track anglosassone: un periodo pluriennale in cui dare prova delle proprie capacità di ricerca, prima di avere accesso a una posizione a tempo indeterminato (che non è scontata).
Prevede inoltre una riorganizzazione della struttura interna e di governo dell’università, strumentale al mettere in pratica le idee-guida. Di questa non mi occuperò; di nuovo, l’omissione non è innocua, poiché è possibile che la struttura di governo non sia coerente con i principi che si vogliono realizzare.
Le quattro idee-guida si sostengono reciprocamente: il tenure-track fornisce incentivi potenti all’intensità dell’impegno, e si legittima solo con la garanzia che i meccanismi di reclutamento e di valutazione siano basati sul merito; la presenza di incentivi a migliorare la qualità della ricerca e della didattica presuppone la disciplina finanziaria: se il vincolo di bilancio è aggirabile, nessun incentivo alla qualità può funzionare; l’incentivazione della qualità ha un senso solo se combinata con meccanismi che la identifichino efficacemente. Si tratta quindi di un impianto che, in linea di principio, è coerente e razionale.
Ma, come si dice, il diavolo è nei dettagli. Vediamo di affrontarli.
I MECCANISMI DI INCENTIVAZIONE
Ho individuato nove meccanismi di incentivazione alla qualità: uno è la concessione alle università migliori di margini di autonomia organizzava; due stabiliscono l’attribuzione di fondi in funzione della qualità della ricerca e della didattica e delle procedure di reclutamento; un altro stabilisce che la quota attribuita in funzione della qualità cresca anch’essa in funzione della qualità (media) del sistema; due introducono premi o punizioni (di carattere economico o extraeconomico) ai singoli professori, in funzione della qualità; uno stabilisce che gli studenti migliori ricevano incentivazioni di carattere monetario. Gli ultimi due sono più indiretti: uno stabilisce che alle università peggiori venga attribuita una quota ridotta di un fondo perequativo; l’altro stabilisce che gli atenei ricevano fondi in relazione al “costo standard” di ciascuno studente e quindi che le sedi più efficienti (con costi inferiori a quello standard) e che attraggono più studenti risultino dotate di maggiori fondi.
Già la numerosità e la frammentarietà dell’elenco fa sospettare che i vari meccanismi non compongano un quadro coerente e ben disegnato. Esaminandoli più in particolare si nota che, quasi sempre, ancora non se ne conosce il funzionamento specifico, essendo i dettagli rinviati a provvedimenti ministeriali, e non ne è ancora indicata la dimensione finanziaria: l’impressione che si vogliano fare “le nozze con i fichi secchi” è difficile da allontanare.
Ci sono formulazioni ambigue: per esempio, non è chiaro se la quota del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) attribuita in funzione della qualità sia addizionale o sostitutiva di quella già prevista dalla legislazione vigente. Alcuni dei meccanismi potrebbero avere una “carica incentivante” debole o nulla: per esempio, è verosimile che la penalizzazione economica prevista per i professori valutati negativamente (per un ordinario la valuto in circa 6mila euro lordi in media per ciascuno scatto triennale) sarà limitata a pochi casi eclatanti, in conseguenza della natura non graduabile (binaria) della valutazione stessa e della penalizzazione, e quindi sarà uno strumento spuntato. (2) Oppure, l’aumento della qualità di una università determina un aumento meno che proporzionale della quota dell’Ffo attribuita a quella università. Alcuni meccanismi, per essere efficaci, ne presuppongono altri che invece mancano: per esempio, l’attribuzione di fondi legata al numero di studenti attratti, potenzialmente un incentivo per gli atenei a migliorare la qualità della propria offerta, presuppone una selettività da parte degli studenti che la legge non fa nulla per favorire: non c’è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, non ci sono interventi incisivi in merito alla pubblicità e la comprensibilità dell’informazione sulla qualità delle varie sedi. Più in generale, la legge risente di un approccio eccessivamente “dirigista”: invece di lasciare alle università la responsabilità di attrarre maggiori risorse (anche facendo pagare rette adeguate) e di distribuirle al loro interno, si fissano a priori criteri e meccanismi con il rischio di scoprire, alla prova dei fatti, che questi non funzionano o sono insufficienti.
VALUTAZIONE E DISCIPLINA FINANZIARIA
Gli organismi coinvolti a vario titolo nella valutazione sono l’Anvur, il nucleo (interno) di valutazione, la commissione paritetica docenti-studenti. In genere l’Anvur ha la funzione di definire i criteri, gli altri organismi li applicano. Questo implica che l’indipendenza, l’autorevolezza e la qualità dell’Anvur e dei suoi componenti sono cruciali nel determinare l’efficacia dei meccanismi di valutazione: si tratta di decisioni non ancora prese, che andranno monitorate con attenzione. Allo stesso tempo, la legge stabilisce numerosi (cinque) e articolati momenti di valutazione, che seguono le varie fasi e aspetti della produzione accademica.
La pluralità di momenti e di istanze valutative rischia di essere esposta a fenomeni di cattura, “dirottamento”, scambio di favori. Più in generale, il limite di questo approccio riflette la scelta di fondo che la legge ha fatto. La valutazione della qualità può essere lasciata a meccanismi decentrati e concorrenziali, al “mercato”, oppure può essere il risultato di processi istituzionali appositamente disegnati, di “certificazione”. La legge ha scelto, chiaramente, la seconda strada. Ora, mentre il mercato può essere flessibile, graduale, adattarsi rapidamente a circostanze che cambiano, la certificazione è per sua natura più rigida, è spesso binaria (si-no), tende a sopravvivere le condizioni nelle quali è stata disegnata. Inoltre, mentre il mercato è essenzialmente anonimo e quindi difficilmente coartabile, la certificazione è riconducibile a soggetti ben identificati e che possono essere oggetto di pressioni talvolta irresistibili, oltre a sollevare l’ovvio problema di “chi valuta i valutatori?”.
Quanto alla terza idea-guida, la disciplina finanziaria, la legge prevede tre tipi di interventi: l’introduzione di un sistema di contabilità economico-patrimoniale previsivo e consuntivo; il raggiungimento di livelli predefiniti per alcuni usi delle risorse; la possibilità di dichiarare lo stato di dissesto finanziario per una università e le conseguenti misure di correzione (penalizzanti per gli amministratori responsabili).
Come per molti altri aspetti della legge, la specificazione concreta di questi interventi è rinviata a un secondo momento e alla responsabilità del governo. Inoltre, l’idea di fissare target riguardanti la struttura del bilancio e l’organizzazione interna delle università mi sembra eccessivamente prescrittiva: perché dovrebbero essere stabiliti dal ministero aspetti che rientrano ampiamente nei margini di autonomia delle varie università? Nel complesso, comunque, le disposizioni contenute nella legge mi sembrano ragionevoli.
LA CARRIERA DEI RICERCATORI
Infine, consideriamo la quarta idea-guida, l’introduzione del tenure-track. La legge stabilisce che l’accesso al gradino iniziale della carriera accademica (ricercatore) non sia più a tempo indeterminato, ma preveda un periodo di minimo sei, massimo otto anni con un contratto a tempo determinato. (3)
L’idea che l’accesso alla carriera accademica richieda un periodo (lungo) durante il quale la persona dimostra di essere portata per la ricerca e l’insegnamento è scontata nei sistemi universitari di molti paesi. È un periodo in cui è massimo l’incentivo all’impegno, durante il quale si gettano i semi della produzione scientifica degli anni successivi e che funziona molto bene come meccanismo di selezione e allocazione efficiente del talento. Negli altri sistemi universitari si presenta con una importante caratteristica, la gradualità: un ricercatore nel tenure-track di una delle università più prestigiose, se non ottiene da questa l’offerta di un contratto a tempo indeterminato (la tenure), probabilmente trova una collocazione in una università leggermente meno blasonata, e così via via scendendo nella graduatoria della qualità. In definitiva, il sistema garantisce un accoppiamento efficiente tra la qualità dei ricercatori e quella delle università e solo la coda inferiore della distribuzione dei talenti viene in genere espulsa dal mondo accademico.
Il sistema italiano non ha questa caratteristica. L’abilitazione nazionale è un criterio più rigido, non graduabile: se è molto esigente, finisce per espellere dal mondo accademico risorse che avrebbero potuto dare un contributo scientifico e didattico positivo, pur se non di frontiera; se è poco esigente, mina alla radice l’idea stessa di premiare la qualità; qualunque sia il livello prescelto, questo vale per tutti, non consente adattamenti e gradualità di utilizzo. Di nuovo, i limiti della legge derivano dalla scelta di un approccio “certificatorio” alla valutazione della qualità, che per sua natura è meno flessibile, graduabile e adattabile di un approccio “di mercato”.
In sintesi: le quattro idee guida della legge sono condivisibili, più problematico è il giudizio sulla loro concreta realizzazione. Spesso mancano dettagli importanti per valutare l’efficacia concreta di una determinata disposizione; l’entità delle risorse per realizzare alcune delle sue disposizioni spesso non è indicata o sembra eccessivamente limitata; molti dei meccanismi introdotti dalla legge per la valutazione o l’incentivazione della qualità sembrano eccessivamente dirigistici. Si tratta di limiti che in larga parte dipendono dalla scelta di fondo fatta dalla legge: regolamentare invece di responsabilizzare (e liberalizzare).
Poiché una regola vale per tutti, tale scelta è in linea di principio incompatibile con una marcata differenziazione tra università: l’auspicio (implicito) del legislatore è che tutte raggiungano uno standard qualitativo comune. Ci si può chiedere se questo sia realistico e opportuno, se non sia più efficiente concentrare le risorse per creare alcuni (pochi) centri di eccellenza a fianco di (più numerose) università specializzate nell’insegnamento. La questione è complessa e coinvolge la natura stessa dell’università in una società democratica, la tensione tra la formazione di un’elite e la diffusione di massa della cultura, temi che non voglio né posso affrontare qui. Ètuttavia possibile, e auspicabile, che negli interstizi della concreta applicazione della legge alcune università (o aggregazioni di università/dipartimenti), animate da un più marcato intento riformatore e un genuino interesse per la qualità, riescano a differenziarsi.
(1) Il lettore che lo desidera può leggere anche una versione più ampia della mia valutazione analitica della legge.
(2) La penalizzazione non economica (l’esclusione dalle commissioni di abilitazione, selezione e progressione di carriera) potrebbe peraltro avere effetti più rilevanti: impedendo l’esercizio di un potere di pressione sulle commissioni da parte di professori che non rispettino gli standard richiesti (i “baroni” che avrebbero fatto assumere i loro “protetti” più fedeli, piuttosto che i più bravi).
(3) C’è un primo periodo di prova (e una prima tipologia di contratto), che può durare tre o cinque anni, dopo il quale c’è un secondo periodo di tre anni (e una seconda tipologia di contratto, con uno stipendio superiore), alla fine del quale c’è la possibilità dell’assunzione in ruolo, che comunque richiede l’abilitazione. Non è chiaro in quali circostanze il primo tipo di contratto potrà durare tre anni, in quali potrà essere esteso di altri due.