Negli ultimi quindici anni l’Italia, come il resto del mondo, è investita da cambiamenti epocali. Da una parte, le grandi trasformazioniindotte dalla rivoluzione tecnologica hanno reso vicino, prossimo ogni angolo del mondo, favorendo l’uniformazione di costumi e di abitudini, facendo vivere ogni giorno l’ebbrezza di sentirci cittadini del mondo. Dall’altra, avvertiamo come queste trasformazioni tendono a contrarre ogni aspetto della nostra individualità, sentiamo forte l’effetto di spinte che cercano di omologare ogni aspetto della nostra vita quotidiana, che cercano di sradicare tradizioni, peculiarità culturali e istituzionali che sono il portato della nostra storia millenaria, di conquiste ottenute con i sacrifici dei nostri padri e delle generazioni che li hanno preceduti.
Il motore che negli ultimi cinque anni ha accresciuto questo processo planetario e che svolge ormai una vera e propria funzione di “frullatore culturale”, poggia su due montanti giganteschi:
1. Il primo è rappresentato dai cambiamenti politici che hanno investito, in particolare, alcune macroregioni, sia del mondo occidentale che di quello orientale. Nel mondo occidentale ad essere maggiormente interessata è la regione europea, che poi rappresenta anche il cuore dell’Occidente sviluppato. Dalla caduta del muro di Berlino e dall’unificazione della Germania, si è ridisegnata la mappa dei rapporti di forza all’interno del vecchio continente: così, da una parte, la Germania si trova ad avere un ruolo politico che è di gran lunga superiore al suo peso economico; dall’altra, con l’istituzione dell’Unione Europea e il suo allargamento ai Paesi dell’Europa dell’Est, assistiamo ad una progressiva cessione di pezzi consistenti di sovranità degli Stati a vantaggio delle istituzioni europee, a favore di una tecnoburocrazia più attenta agli interessi di grandi gruppi oligopolistici di potere economico e finanziario che a quelli di intere nazioni. Nel mondo orientale, con l’ingresso della Cina nel grande commercio mondiale, si è ormai modificato profondamente anche il peso politico di questa amplissima area demografica dell’Asia orientale nelle grandi decisioni che interessano il futuro dell’umanità.
2. l’altro montante è rappresentato dai cambiamenti economici che trovano la loro radice nella globalizzazione, a sua volta favorita dalle politiche di liberalizzazione del commercio e condizionata dalla crisi economica. Ed è proprio la globalizzazione dell’economia, unita alla de-nazionalizzazione dei poteri di governo della stessa, che rendono gli Stati incapaci di gestire processi che vanno oltre la loro scala d’azione. Così, la crisi di alcuni, contamina anche altri e finisce per connotarsi come crisi strutturale planetaria, i cui effetti nefasti si riverberano in ogni angolo del mondo.
Lo smarrimento che ciascuno di noi avverte di fronte a tali cambiamenti è reso ancor più evidente dalla vastità e dalla pervasività di questi processi, segnati dall’incapacità delle istituzioni statuali di arginarne gli effetti perniciosi. Essi investono, destrutturandoli, i sistemi di welfare costruiti nel mondo occidentale negli ultimi 40 anni, mettendo in discussione diritti ritenuti assiomi delle moderne democrazie, tra questi il diritto alla salute, all’istruzione, alla mobilità, al lavoro. Diritti considerati inviolabili da documenti internazionali di grande valore etico, come la Dichiarazione universale dei diritti umani,firmata a Parigi nel lontano 10 dicembre 1948, la cui redazione fu promossa dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli Stati membri.
Per cultura la contrazione delle risorse fa emergere vecchie e nuove contraddizioni e i limiti di certe politiche miopi, senza respiro strategico e temporale adeguato. Così, la crisi diventa l’alibi per tagliare ulteriori risorse, non curanti che già l’Italia ha una spesa per l’istruzione che la colloca al penultimo posto in Europa (8,5%, contro una media europea del 10,9%), dopo di noi solo la Grecia.
Eppure, basta guardare le cifre dell’ultimo rapporto Ocse 2013 relative al nostro sistema educativo per rendersi conto che, invece, le risorse dovrebbero essere accresciute anziché tagliate! Mentre, infatti, nel mondo si registra un netto miglioramento del tasso di scolarizzazione (il 75% delle persone nate dopo gli anni 70 ha finito il liceo, mentre negli anni 40 la percentuale si fermava ad appena il 50%), con in testa Paesi come la Corea, ove il 97% dei giovani ha un diploma di scuola secondaria, la Norvegia con il 95%, il Giappone e la Slovacchia con il 94%, in Italia, un adolescente su 5 non va a scuola e non lavora e appena il 22,2% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni hanno una scolarizzazione secondaria.
Inoltre, mentre in Usa, Finlandia, Svezia e Svizzera più del 40% dei lavoratori ogni anno partecipa a programmi di aggiornamento, nel caso di Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Ungheria tale percentuale scende al 10%. In Italia, nel 2010 solo il 50% dei diplomati si è iscritto all’università.
Gli unici dati che in Italia aumentano, oltre all’inarrestabile debito pubblico, sono quelli della disoccupazione e dei cosiddetti NEET (giovani che non sono inseriti in percorsi di istruzione o formazione, non hanno un impiego e non stanno cercando un’occupazione), che raggiunge il 25%, rispetto ad una media europea del 15,8.
L’Italia, Paese che diede i natali a Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione Africano, madre di Tiberio e Caio Gracco, che dedicò la vita all’educazione dei suoi figli e che voleva essere riconosciuta come “Cornelia la madre dei Gracchi”, da tempo ha dimenticato di essere la “madre” di uomini che hanno segnato la storia del mondo in ogni campo della conoscenza.
Ma se a Cornelia, ancora in vita, i romani eressero una statua in bronzo con la dedica «Cornelia, figlia dell’Africano, madre dei Gracchi», oggi, all’Italia, gli stessi romani, molto probabilmente, avrebbero dedicato «Italia, Paese che non ha più memoria del suo passato e occhi per guardare al suo futuro».
Francesco Greco