Analisi & Commenti

Il voto come misura del successo

04/10/2003

di Luigi Ferrari

Nelle scuole italiane va concludendosi il primo quadrimestre e ci si prepara al momento molto delicato della valutazione. Un momento che dovrebbe avere sempre una valenza educativa e che invece troppo spesso diventa l’occasione in cui malinconicamente si manifesta la rinuncia in atto nella scuola -e nella nostra società- a far crescere i giovani anche attraverso l’attrito delle difficoltà, il «travaglio del negativo», l’accettazione del principio di giustizia che dà «a ciascuno il suo». Infatti, come ci ricorda Luigi Ferrari in questo articolo scritto per l’AND, «crescere è accettare la realtà» e invece «se c’è il bel voto tutto tace e c’è soddisfazione, ma se il figlio ha un voto insufficiente si scatena il lamento, la protesta». Al di là della grottesca demagogia di parole d’ordine quali “il successo formativo garantito a tutti”, è questo uno dei più gravi effetti del processo di aziendalizzazione in atto nella scuola, con gli allievi diventati prima utenti e adesso clienti e il cliente -come si sa- “ha sempre ragione”.

Il Prof. Ferrari insegna italiano e latino presso il Liceo Classico Beccaria di Milano.
(13 gennaio 2003)

Mai come in questi tempi nella scuola (che è innanzitutto l’istituzione cui la società ha affidato la trasmissione della cultura e della scienza, e l’educazione di nuove generazioni di cittadini) per i genitori degli studenti solo il voto è importante.
L’esperienza di imparare cose nuove, lo scoprire i propri interessi e le proprie attitudini, formarsi degli ideali individuali e sociali, elementi questi che costituiscono la base della progettazione del proprio futuro e che la scuola permette e favorisce in un’atmosfera che filtra e attutisce le pressioni del mondo esterno, questi elementi, ripeto, che dovrebbero essere cari a quei genitori che hanno a cuore la crescita completa e armonica dei propri figli, non contano più.
Se c’è il bel voto tutto tace e c’è soddisfazione, ma se il figlio ha un voto insufficiente si scatena il lamento, la protesta, la richiesta all’insegnante non di motivare ma di giustificare la sua valutazione, come se il professore dovesse difendersi dall’accusa di aver leso l‘amor proprio del ragazzo e di aver messo in pericolo l’equilibrio psicologico familiare.
È vero, mai come in questi tempi basta un piccolo insuccesso per mandare in crisi questi nostri fragilissimi figli e le aspettative dei loro genitori, due aspetti strettamente interdipendenti del precario equilibrio affettivo della famiglia tipo italiana. Ed è facile attribuirne le cause alle pressioni di una società come la nostra che è diventata in fretta competitiva (senza aver avuto tempo di maturare, diranno i sociologi, un’etica del successo legato al merito e al lavoro, come hanno potuto fare le società anglosassoni nel loro più lungo periodo di sviluppo di liberismo economico e di liberalismo politico).
Tutto questo è vero ma non basta neanche a spiegare il fenomeno, tanto meno a togliere le responsabilità. Che sono sia da parte della famiglia che da parte della scuola.
La famiglia non vuole conoscere il proprio figlio perché questo vuol dire accettarlo così com’è, anche con i suoi difetti, le sue incapacità (nel mondo reale i geni sono pochi) e, a volte, assumersi la propria responsabilità educativa di fronte a comportamenti del figlio moralmente discutibili. E allora di fronte ad un insuccesso scolastico si esternalizza la responsabilità. Di conseguenza il ragazzo assume lo stesso atteggiamento (“ce l’ha con me!”), si abitua a non assumersi le sue responsabilità rispetto ai suoi insuccessi, non impara a conoscere le proprie attitudini e le proprie capacità, il valore dell’impegno e la soddisfazione di affrontare e superare le difficoltà (queste sono le fonti reali dell’autostima), in breve, non cresce. Crescere è accettare la realtà.
La scuola da quando ha enfatizzato il protagonismo dello studente non ha fatto altro che rinforzare (invece di contrastare) l’errore delle famiglie che, riponendo nei figli la soluzione di tutte le loro frustrazioni e la meta delle loro speranze, hanno fabbricato il “figlio ideale” che non corrisponde per nulla a quello reale.
La scuola, timorosa di infrangere questo sogno, è tutta preoccupata di non ledere i “diritti dello studente”, di non procurargli stress e quindi tende ad appianare le difficoltà (la paura del “bambino imbronciato” è entrata nelle severe aule scolastiche assieme ai rappresentanti dei genitori).
Inoltre la scuola, da quando ha inteso darsi un’aria di efficienza aziendale e ha adottato un linguaggio privatistico, parla degli studenti come “utenti” (anzi studenti e famiglie vengono unificati nel termine “utenza”). Ma se si entra in questa logica aziendale viene spontaneo (come fanno le aziende) tendere ad acconsentire alle richieste dell’utenza senza metterle in discussione. In fondo non si dice che “il cliente” ha sempre ragione? E la richiesta più diffusa, oggi, delle famiglie è che non venga frantumato il loro sogno di successo per il figlio ideale che si sono costruito.
Un esempio di questa negazione della realtà da parte delle famiglie con la connivenza della scuola ci è fornito dal modo con cui vengono presentati e recepiti i corsi di recupero. Nel mondo reale capita che qualche studente concluda l’anno scolastico con una o più insufficienze. Niente paura, per chi non vuol guardare in faccia la realtà c’è il Corso di Recupero. Questo (non so se per come vengono presentati dalla scuola o per come vengono compresi dalle famiglie) è recepito come i corsi di fitness o i trattamenti di bellezza, come un prodotto: il risultato deve essere garantito. “Se mio figlio ha frequentato il Recupero allora io mi aspetto che abbia colmato il debito formativo”, altrimenti la colpa è della scuola. Come dire: soddisfatti o rimborsati. Che passare da una situazione di difficoltà in una materia alla capacità di comprendere e applicare con profitto nozioni conoscenze tecniche linguaggio che la costituiscono come ambito del sapere sia un percorso complesso e tutt’altro che facile (perché coinvolge tutti gli aspetti della personalità del ragazzo) il cui esito non può essere garantito a priori, non viene accettato, perché non viene accettata la possibilità che il figlio non sia all’altezza delle aspettative dei genitori.

 

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