Analisi & Commenti

Il significato educativo della «disciplina»

04/10/2003

di Antonia Belletti

I testi, gli articoli, le riflessioni presentate dall’AND toccano i vari aspetti della professione: culturale, relazionale, amministrativo, didattico. Si tratta, in ogni caso, di elaborazioni che partono dall’esperienza concreta, quotidiana, a volte faticosa ma sempre esaltante, del rapporto con gli allievi. Di questa relazione è parte la dimensione che va sotto il nome di «disciplina», la cui centralità è data da due fattori: un comportamento corretto degli studenti a scuola è condizione indispensabile per il nostro lavoro ma è soprattutto parte fondamentale del rapporto educativo, del tentativo di formare delle persone in grado di convivere con le altre nel rispetto reciproco e nella condivisione di regole comuni. L’articolo di Antonia Belletti sviluppa tale argomento a partire dalla passione educativa e dall’esperienza vissuta ogni giorno in classe.
Negli ultimi anni questo tema è stato oggetto di libri molto interessanti, fra i quali consigliamo: G.Ukmar, «Se mi vuoi bene, dimmi di no», Franco Angeli, Milano 1997; A.Phillips, «I no che aiutano a crescere», Feltrinelli, Milano 1999; J.U.Rogge, «Quando dire no. Per il bene dei nostri figli», Pratiche editrice, Parma 1999.

La Prof. Belletti insegna Scienze presso il Liceo Classico – Psico Pedagogico «G.Cesare – M.Valgimigli» di Rimini.
(27 gennaio 2003)

Quello della disciplina a scuola mi sembra un tema su cui si dovrebbe riflettere a lungo.
Educare non significa reprimere, questo è vero, educare però significa insegnare che una comunità, per esistere, deve avere delle regole che permettono la convivenza dei suoi membri e l’esistenza della comunità stessa.
Rispetto delle regole significa rispetto verso gli altri; per sua natura l’Uomo non è capace di seguire delle regole se la loro trasgressione non comportasse una sanzione. Perde di credibilità chi fissa delle regole e non si dà poi gli strumenti per farle rispettare; a mio parere (sia di insegnante che di genitore) tale atteggiamento è profondamente diseducativo.
Ebbene, la scuola è una comunità in cui alla trasgressione delle regole non corrisponde quasi mai l’adozione di alcuna sanzione e ciò perché la comunità educatrice del nostro Paese considera la sanzione una forma di repressione. Qual è il senso di avere stabilito l’obbligatorietà della frequenza se poi non esiste alcun limite alle assenze (e i ragazzi di assenze ne fanno tantissime)?
Qual è il senso dell’avere stabilito un orario di ingresso e di uscita da scuola se poi i ragazzi entrano ed escono quando vogliono?
E qual è il rispetto che si porta agli alunni che vengono a scuola per imparare quando alcuni disturbano fino a impedire lo svolgimento delle lezioni?
I nostri ragazzi vivono in un’epoca in cui tutto sembra permesso: nella famiglia, come nella società, mancano punti di riferimento precisi, paletti che delimitino il lecito dall’illecito; la scuola dovrebbe fornire questi punti di riferimento: regole chiare e sanzioni altrettanto chiare per chi trasgredisce, sanzioni che non sono punizioni ma sono parte di un sistema rigoroso e ordinato di vivere; i ragazzi non sanno distinguere ciò che è regola indispensabile per vivere in una comunità da ciò che è violazione della libertà individuale.
Una mia alunna, da me ripresa perché quando sono entrata in classe era semisdraiata (scarpe comprese) sulla cattedra, mi ha fatto notare che ero io in torto poiché il mio richiamo ledeva la sua libertà individuale; non ho certo preso provvedimenti disciplinari, ho invece discusso con lei sui diversi comportamenti che possono essere o meno leciti nei diversi ambiti (scuola, bar, discoteca, ecc.); tuttavia, dopo ripetuti episodi del genere sono stata rimproverata da alcune sue compagne di classe che mi hanno così apostrofato “e se tutti facessimo come lei che ne sarebbe di questa classe?” Ebbene questi ragazzi hanno ragione, arriva il momento in cui la sanzione diventa strumento educativo e non solo per chi la subisce.
Devo dire che negli anni sono diventata più severa nell’esigere il rispetto delle regole, sollecitata dai ragazzi stessi. E’ vero che questi ragazzi presi singolarmente sono carini, sono educati e molto fragili ed è proprio per tentare di superare questa fragilità che trasgrediscono; e spesso sono fragili perché nessuno ha fornito loro punti di riferimento da seguire; la sanzione non è né repressione né punizione, è invece un segnale d’errore ma è anche un segnale d’interesse nei loro confronti, indica che non sono soli, che il loro “agire” è seguito e, se è necessario, corretto.
Spesso la parola “educare” è unita ai termini “democrazia” e “libertà”; mi chiedo: “dov’è il confine tra libertà dei ragazzi nell’agire e nostro disinteresse nei loro confronti?” Quante volte li lasciamo fare perché intervenire costa fatica? Quanta demagogia c’è nell’accoppiamento dei termini “educazione – democrazia”?

 

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