di Pio G. Sangiovanni.
Un testimone militante del nostro tempo, ma anche un acuto e profondo osservatore che ha continuato ad interrogarsi ed interrogarci anche nel ventunesimo secolo, sulla complessità del mondo post-industriale e post-moderno, diventato “villaggio globale” e “Terra patria”, sulla società liquida che subisce una ulteriore trasformazione ed evapora.
“È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”. È sicuramente questo pensiero di Michel de Montaigne, ripreso circa 500 anni dopo, che viene subito alla mente pensando ad Edgar Morin, il grande intellettuale, filosofo, sociologo e tanto altro ancora, che lo scorso 8 luglio ha compiuto 103 anni. Personalità emblematica e vero testimone di una moderna “lunga durata”, che ha saputo confrontarsi con le grandi tragedie, conflitti e laceranti contraddizioni del ventesimo secolo, a cominciare dalla netta scelta di campo nei confronti del nazismo e dei fascismi, a proprio rischio e pericolo, lui che era di origini ebree, Edgar Nahoum il suo vero nome che decise di cambiare in Morin durante la Resistenza e la lotta di liberazione francese dal nazismo, che decise di adottare definitivamente anche in seguito.
Un testimone militante del nostro tempo, dunque, ma anche un acuto e profondo osservatore che ha continuato ad interrogarsi ed interrogarci anche nel ventunesimo secolo, sulla complessità del mondo post-industriale e post-moderno, diventato “villaggio globale” e “Terra patria”, sulla società liquida che subisce una ulteriore trasformazione ed evapora. In questo vortice inarrestabile di cambiamenti è proprio alla scuola e all’educazione/conoscenza che Morin affida il compito di farsi carico di una vera e propria missione epocale: quella di salvare il pianeta dall’uomo e l’umanità da se stessa. Ed è a tutti nota l’importanza che l’impianto teorico e la visione di Edgar Morin ha avuto nell’elaborazione delle Indicazioni nazionali della scuola italiana.
«La planetizzazione – afferma il grande filosofo – significa ormai comunità di destino per tutta l’umanità. Le nazioni consolidavano la coscienza delle loro comunità di destino con la minaccia incessante del nemico esterno. Ora, il nemico dell’umanità non è esterno. È nascosto in essa. La coscienza della comunità di destino ha bisogno non solo di pericoli comuni, ma anche di un’identità comune che non può essere la sola identità umana astratta, già riconosciuta da tutti, poco efficace a unirci; è l’identità che viene da un’entità paterna e materna, concretizzata dal termine patria, e che porta alla fraternità milioni di cittadini che non sono affatto consanguinei. Ecco che cosa manca, in qualche modo, perché si compia una comunità umana: la coscienza che siamo figli e cittadini della Terra-Patria. Non riusciamo ancora a riconoscerla come casa comune dell’umanità».
Proprio in virtù di questo assunto, per Edgar Morin l’etica non può essere separata dalla conoscenza, poiché comprendere la complessità del mondo richiede un’etica che riconosca l’interdipendenza tra gli esseri umani e l’ambiente. Un’etica della complessità, dove le decisioni etiche devono considerare le molteplici interazioni e conseguenze delle azioni.
Un concetto chiave che chiama in causa la responsabilità planetaria, promuovendo una coscienza planetaria che vede l’umanità come una comunità di destino comune, sottolineando la cura della Terra come casa comune. L’etica, quindi, come un mezzo per promuovere solidarietà e comprensione reciproca, contro ogni moralismo e nichilismo. Un’etica fondata sulla vita, la società e l’individuo, che si rivolge direttamente alla politica, sostenendo che una buona società deve accettare e comprendere la diversità, abbattere i pregiudizi e promuovere la solidarietà e la responsabilità individuale e collettiva, con l’unico grande obiettivo di creare una coscienza planetaria, promuovendo una responsabilità condivisa verso l’umanità e il pianeta.
In questa formidabile sfida titanica, tuttavia, ad essere posta al centro è proprio la relazione, il rapporto tra il sapere, la conoscenza e la vita, in un mondo in cui, come afferma Massimo Recalcati, prevale un modello ipercognitivista che vorrebbe liberarsi completamente da ogni vincolo etico per rafforzare le competenze a risolvere i problemi piuttosto che a saperli porre; in cui le teste (sicuramente “ben piene” ma non “ben fatte”) funzionano come computer, come mappe cognitive in continuo aggiornamento.
Così, sull’altare del principio della prestazione che riduce tutto ad una gara, ad una corsa ad ostacoli, ad essere sacrificato è proprio il tempo necessario per la riflessione critica e per la possibilità di imparare ad imparare.