11/11/2003
Maurizio Tiriticco
Università di Roma Tre
Gli interventi che pubblichiamo in questa sezione della Rubrica rispecchiano le opinioni degli autori e non necessariamente coincidono con quelle dell’AND.
Capacità e meriti
Ho sempre guardato con sospetto – e l’ho detto e l’ho scritto – a quel comma 2 dell’articolo 34 della Costituzione in cui si afferma che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Il sospetto deriva dal fatto che non esistono capaci e meritevoli in assoluto, “per nascita”, potremmo dire! Ed è anche vero che la privazione di mezzi non favorisce certamente lo sviluppo di capacità e di meriti. Non possiamo, tuttavia, imputare ai nostri padri costituzionalisti conoscenze che allora – dopo il fascismo, la guerra, l’isolamento dalla comunità scientifica internazionale – non erano ancora maturate né nella nostra ricerca psicopedagogia né, tanto meno, nel senso comune.
Basti pensare che l’attualismo gentiliano e la conseguente sottovalutazione della pedagogia – considerata solo sotto il profilo strumentale per la formazione dei maestri, o meglio delle maestre! – avevano di fatto reso impossibile, ad esempio, che un Dewey fosse conosciuto nel nostro Paese! Democrazia e educazione, apparso negli Stati Uniti nel 1916, fu pubblicato in Italia solo nel 1946 per i tipi della Nuova Italia! Ed è noto che era stato Dewey agli inizi del Novecento a comprendere quanto sia essenziale, ai fini di una efficace politica per la scuola, cogliere tutti i nessi che corrono tra educazione e società. Indubbiamente non fu solo in questa intuizione, anche perché tutta una certa sociologia (Durkheim, ad esempio) si era mossa in Europa in una direzione di questo tipo.
Ora di certo sappiamo che individui capaci e meritevoli non nascono in quanto tali ma che lo diventano, in forza dei condizionamenti positivi ai quali hanno in sorta di essere esposti! E la sorte non è il caso, bensì il milieu socioeconomico e culturale da cui l’individuo proviene!
Capacità come potenzialità naturali?
E ciò è ormai cosa nota! Ma proprio a tutti? A me sembra che una sorta di naturalismo deterministico, o di innatismo, se si vuole, faccia sempre parte della cultura che ispira le iniziative del Miur! E ciò emerge dalla riscrittura che è stata recentemente fatta delle Raccomandazioni per la scuola primaria: una riscrittura che non ha affatto tenuto conto di tutte le critiche che sono state mosse fin dai tempi della sceneggiata degli Stati Generali!
Ma andiamo con ordine! A pag. 11 del “nuovo” documento del Miur leggiamo che “per capacità si intende una potenzialità e una propensione dell’essere umano, nel nostro caso dell’allievo, a fare, pensare, agire in un certo modo”, che “le competenze sono l’insieme delle buone capacità potenziali di ciascuno portate al miglior compimento nelle particolari situazioni date” e che “le capacità personali diventano competenze personali grazie all’insieme degli interventi educativi promossi da tutte le istituzioni educative formali, non formale e informali”. E poi figura un grafico illustrativo della “Educazione personale”, assai eloquente circa il pensiero degli estensori del Miur: le capacità figurano sotto il riquadro della natura, le conoscenze e le abilità sotto quello della cultura, ed infine, sotto il riquadro della vita, figurano le competenze. Non voglio leggere meccanicisticamente il grafico, e le freccette che legano i riquadri ne evidenziano i movimenti che li legano, però…
Il fatto è che le capacità intese come potenzialità naturali costituiscono una visione non corretta in ordine alla attuale ricerca psicopedagogica: l’entelechia aristotelica non ci aiuta più a comprendere i fenomeni della crescita/sviluppo e dell’apprendimento di un nuovo nato nonché del suo inserimento/integrazione in un dato assetto sociale! Non esistono capacità in astratto che attendano solo di essere illuminate da non si sa quali sollecitazioni! Semmai esiste un codice genetico che è tipico dell’uomo (altri viventi dispongono di altri Dna!) che, nel rapporto dialettico tra filogenesi ed ontogenesi, “individua” e “differenzia” un essere umano dall’altro! Ed è fin dal momento del concepimento che entrano in gioco miliardi di stimoli/risposte (senza nulla concedere al comportamentismo) in cui natura e cultura interagiscono così strettamente che è assai difficile individuarne ambiti, limiti e confini.
Alla luce di queste constatazioni, le capacità non costituiscono un dato genetico, ma un complesso insieme di esiti sempre crescenti, ed in misura maggiore o minore, che si sviluppano lungo un percorso di continui adattamenti e assimilazioni che il nuovo nato realizza giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Le capacità quindi non sono, ma sono costruite e con fatica dal nuovo nato. Se il contesto socioambientale – e naturale anche (il cibo, l’alimentazione, il clima non sono affatto fattori da poco!) – gli è favorevole, le capacità si maturano, si esprimono, e nascono attitudini, atteggiamenti, disponibilità, curiosità, e tutti quei tratti che caratterizzano una personalità in fieri. Ma se il contesto è povero di stimoli, o ne fornisce solo di negativi, il nuovo nato è pressoché condannato ad una deprivazione che difficilmente potrà essere sanata.
Nelle Raccomandazioni leggiamo che “nella scuola le capacità personali degli allievi (capacità intellettuali, emotive, espressive, estetiche, operative, motorie, sociali, morali, spirituali, religiose), grazie alla mediazione intenzionalmente organizzata delle conoscenze e delle abilità (della “cultura”), diventano competenze personali attraverso l’adozione di tre principali strategie formative declinate in ambienti di apprendimento basati sui rapporti docente-allievo, docente-gruppo classe o docente-gruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi”(pag. 13).
Si tratta di una rappresentazione assolutamente ideale! Ci vengono proposti allievi già capaci ed insegnanti il cui solo compito sarebbe quello della maieutica socratica! Se così fosse, tutti i nuovi nati sarebbero capaci ed anche meritevoli! Solo per il fatto di essere… nati! Ma non è affatto così!
Se, allora, esistono degli incapaci e dei non meritevoli, è segno che capacità – e meriti – vanno sollecitate perché il nuovo nato le possa costruire: e sollecitate, per di più, dal momento stesso del concepimento. E il ruolo della madre e del nucleo primario di appartenenza è fondamentale perché i bambini, quando giungono alla scuola dell’infanzia, possano dimostrare di avere già costruito i primi paradigmi delle capacità!
Le capacità nella Legge 425/97
E’ doveroso ricordare che, sul terreno delle capacità, si era già compiuto un passo in avanti in occasione del varo della Legge 425/97, con cui si è riformato l’esame di maturità. Nella legge si prescrive che il rilascio e il contenuto delle certificazioni finali “sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni, al fine di dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite” dallo studente ed accertate dalla commissione d’esame. E nel Regolamento applicativo della legge, il DPR 323/98, tale prescrizione viene così descritta: “L’analisi e la verifica di ciascun candidato tendono ad accertare le conoscenze generali e specifiche, le competenze in quanto possesso di abilità, anche di carattere applicativo, e le capacità elaborative logiche e critiche acquisite.
Il discorso è chiaro. Al di là di ogni psicologismo di maniera, le capacità non sono date, ma vanno anch’esse acquisite, come le conoscenze e come le competenze. Il referente teorico che giustifica la scelta che si è fatta in occasione della Legge 425 è il seguente: le conoscenze indicano l’insieme dei contenuti afferenti ad una o più aree disciplinari (principi, teorie, concetti, dati, informazioni, regole, termini, procedure, …) che una persona ha acquisito e via via acquisisce; le competenze indicano l’insieme di alcuni comportamenti relativi al saper fare, professionale o meno, la corretta utilizzazione delle conoscenze acquisite; le capacità costituiscono quel valore aggiunto in forza del quale il soggetto elabora conoscenze e competenze acquisite, le mette in discussione, le arricchisce, alcune ne abbandona, altre ne crea. Inoltre, va considerato che il soggetto non è sempre solo, ma si trova anche ad operare con altri, per cui le capacità vanno anche lette in quanto costruzione di relazioni positive e produttive con altri. Anzi, è la stessa competenza, in quanto cum-petere, che richiama il concorso operativo con altri: il che, nei processi lavorativi complessi delle società ad alto sviluppo costituisce un fattore di grande rilievo.
Alla luce di questo discorso, emerge che conoscenze, competenze e capacità sono in una relazione dialettica, interagiscono tra loro e si implementano l’un l’altra.
Capacità e personalizzazione
La definizione che nelle Raccomandazioni si dà delle capacità è strettamente legata alla definizione che si dà, anche implicitamente, della personalizzazione. E’ logico che, se le capacità sono comuni a tutti i soggetti, in quanto potenzialità innate, e se il compito dell’insegnante è la pura azione maieutica, ne consegue che su quel ventaglio di capacità e attitudini si innesta un percorso formativo personalizzato. In altri termini, una volta accertate e consolidate con l’attività di insegnamento “quelle” capacità e attitudini, risulta possibile e ampiamente giustificato che la persona proceda nell’apprendimento nel “suo” personale percorso.
Sempreché tutti posseggano questa ricchezza di potenziale. Ma così non è. E’ vero, invece, che le potenzialità sono via via acquisite nel sociale solo da coloro che hanno la fortuna di nascere e crescere, per i primissimi anni se non mesi o giorni, in un contesto ricco di stimoli! Se questi stimoli non ci sono, l’individuo ha enormi difficoltà in ordine a quello sviluppo/crescita che consideriamo ottimale. In tal caso il sociale deprime e depriva, per cui, quando il bambino giunge a scuola e viene inserito in un apprendimento formale, non è affatto “persona” – ovviamente sotto il profilo biologico, che nulla a ha a che vedere con l’ottica dei diritti umani di cui è portatore – ma un soggetto in cui la persona deve ancora manifestarsi. E la maieutica in casi simili non è la strategia vincente.
Mi sembra che la teoria della personalizzazione discenda da una visione ottimistica, naturalspiritualistica – se si può dir così – dell’essere umano. Emilio non esiste se non nella mente di Rousseau! Non è vero che tutti i bambini del mondo sono tanti piccoli Emili, per natura buoni e capaci e che solo precettori sagaci possono aiutare ad esprimersi e a scoprire le doti innate! La vera educazione – pensava Rousseau – è quella capace di accendere e valorizzare quelle naturali capacità potenziali che il piccolo dell’uomo ha con sé e che la società, invece, ha sempre distorto e corrotto!
Ma si tratta di tesi che oggi non condividiamo più! Siamo alla ricerca – e con tanta fatica, indubbiamente – di un rapporto nuovo tra scuola e società, tra formazione e lavoro – ed è la lezione di Dewey – in un mondo complesso che ha anche maturato visioni dell’uomo totalmente diverse da quelle che emergono dalla prosa delle Raccomandazioni!
Oggi, alla luce di tanti nuovi orizzonti in materia di psicologia dell’età evolutiva, delle intelligenze, delle conoscenze, dell’apprendimento, vediamo molto diversamente i compiti della scuola! La teoria delle capacità e della personalizzazione ci appare come una teoria rinunciataria a fronte, invece, della ricerca di una strategia scientificamente impegnata sul terreno dell’educazione, dell’istruzione e della formazione, e che possa comportare per tutti quel successo formativo che costituisce la sfida della scuola dell’autonomia.
Personalizzazione e obiettivi
In effetti, se la personalizzazione comporta un adeguamento dell’insegnare a quelle che sono le potenzialità e le capacità di ciascuno, cosa accade se queste non sono ancora presenti nel bambino inserito in processi di apprendimento formali? Accade semplicemente che l’istituzione scuola costruisce per lui un piano di studio personalizzato in cui figureranno obiettivi formativi assai lontani da quelli generali e specifici che le Indicazioni nazionali propongono. Né la scuola è tenuta ad impegnarsi più di tanto in ordine a quel precetto dell’unicuique suum che la personalizzazione, di fatto, propone e sostiene.
Il che costituirebbe un abbassamento “per legge” degli obiettivi che una scuola per tutti dovrebbe, invece, garantire al massimo livello. E ciò in forza anche del fatto che lo Stato ha legislazione esclusiva nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (come recita l’articolo 117 della Costituzione).
Alla pagina 17 delle Raccomandazioni l’estensore afferma che occorre evitare di “progettare percorsi didattici anche differenziati per far sì che ogni studente, in modi e tempi diversi, apprenda in ogni caso le conoscenze e le abilità elencate nelle Indicazioni nazionali nelle forme e nel grado standard prestabilito dal docente: le conoscenze e le abilità, quindi, poste a fine della attività formativa della scuola”. Ed aggiunge che “la personalizzazione inverte, invece, questa gerarchia: usa le conoscenze e le abilità elencate nelle Indicazioni nazionali come mezzo per progettare professionalmente percorsi formativi che, a partire da esse, rispondano, però, alle capacità uniche e irrepetibili di ciascuno, avvalorandole al massimo”. I corsivi sono miei!
Del resto, anche il ministro recentemente ha avuto occasione di dire che con la riforma si attua questo rovesciamento: prima era l’alunno a doversi adeguare alla scuola; ora è la scuola a doversi adeguare all’alunno! Ma non è affatto vero che la scuola – almeno quella della Repubblica e delle riforme avviate dal ‘62 con la scuola media unica – ha perseguito l’obiettivo della selezione e della esclusione! Come vanno considerati allora i decreti delegati del ’74, con cui si è avviata la democratizzazione della scuola? E come vanno considerate tutte le iniziative contro la dispersione? E qual è allora il ruolo della scuola della autonomia?
La linea sostenuta dal Miur è chiarissima. Si tratta di avviare un vero e proprio rovesciamento di quanto, invece, da anni le scuole si impegnano a fare: e cioè ad adoperarsi perché ciascuno raggiunga al massimo livello gli obiettivi che gli sono nazionalmente proposti.
Le affermazioni di pagina 17 mi sembrano assai gravi. Sotto un profilo socioantropologico, la scuola si troverebbe ad avallare e a legittimare sul piano educativo e culturale le differenze che la società impone sul terreno socioeconomico.
La “prevalenza” delle famiglie
Ma la visione che ho definito naturalspiritualistica contiene ed esprime anche una implicazione di politica scolastica assai grave. La Legge 53/03 e le Indicazioni nazionali teorizzano una partecipazione delle famiglie alla vita della scuola che va molto al di là dei limiti proposti dai decreti delegati del ’74. La collaborazione tra scuola e famiglia è assolutamente necessaria purché non siano confusi ruoli e compiti. E’ la scuola che determina ciò di cui un alunno necessita sotto il profilo degli apprendimenti di cui essa è responsabile: e questi non possono essere messi in discussione. Il passaggio dalla scuola dei programmi a quella della programmazione, poi della progettazione, poi della autonomia non conduce affatto ad un esito di questo tipo! Come non può essere discusso il tempo scuola necessario perché questi apprendimenti vengano acquisiti.
E’ la personalizzazione che comporta, quindi, anche questa scelta di politica scolastica che indubbiamente non è accettabile!
C’è il rischio che siano le famiglie a scegliere – a volte anche in perfetta buona fede, ma senza alcuna competenza pedagogico-didattica – ciò che sembra loro opportuno sotto il profilo degli apprendimenti. C’è il rischio che invadano campi non di loro competenza, e ciò sarebbe grave non solo per il ruolo della scuola e per la professionalità dei suoi operatori, ma soprattutto per gli alunni a cui la scuola non potrebbe più garantire la pienezza e l’efficacia del suo servizio.
Roma, 11 novembre 2003
Maurizio Tiriticco