di Giuseppe Bagni
Non è facile intervenire dopo gli annunci della sperimentazione di un accorciamento del percorso di studi per tutti, e quello quasi contemporaneo di un obbligo d’istruzione fino a 18 anni per tutti. Come dice giustamente Mariapia Veladiano ci vuole una buona bussola per non perdersi. Ma Mariapia ha soprattutto ragione quando mette in evidenza che non sono queste le priorità della scuola.
Da anni l’Italia partecipa ai rilevamenti internazionali e l’Invalsi produce dati regolarmente diffusi sullo stato del nostro sistema d’istruzione. Da essi sappiamo con precisione quali sono le emergenze.
Sono la diseguaglianza del sistema a livello regionale; la dispersione tra le più alte d’Europa; il condizionamento del livello socioeconomico della scuola che si frequenta che condiziona gli esiti più di quello della famiglia di appartenenza, come dire che la nostra scuola non solo non riesce a rimuovere quei condizionamenti che sono alla base delle diseguaglianza sociali, ma ne introduce di propri; sappiamo che chi è bocciato una volta continua ad essere bocciato e che il 50% di loro viene espulso dal percorso di studi senza terminarlo.
Sappiamo anche di essere quartultimi al mondo per analfabetismo funzionale visto che il 28% della popolazione adulta non sa più leggere e capire un testo minimamente complesso: chi sapeva farlo a scuola poi l’ha dimenticato perché non era divenuta una vera competenza.
Queste sono le nostre emergenze che risultano da dati acquisiti e consolidati. Vengono pubblicati tutti gli anni, il giorno dopo strappano una pagina sui quotidiani e per i restanti giorni dell’anno vengono ignorati da tutti.
Fanno notizia i 150 mila migranti sbarcati per cercarsi un futuro, ma non il milione tondo di ragazze e ragazzi che negli ultimi 6 anni hanno abbandonato la scuola prima della fine, senza niente in mano e con pochi strumenti culturali. Nemmeno per loro il futuro sarà facile.
Un anno di istruzione in meno può risolvere questi problemi? E parlare di obbligo d’istruzione ai 18 anni ha senso se non siamo nemmeno capaci di far rispettare l’obbligo ai 16 anni che sarebbe legge dello Stato? Non scherziamo.
Certo la scuola italiana deve molto dal punto di vista della innovazione alla lunga stagione delle sperimentazioni assistite e l’elevamento dell’obbligo d’istruzione è sempre segno di progresso sociale, ma le sperimentazioni devono essere serie, e questa dei percorsi quadriennali non lo è. Il decreto permette alle scuole di recuperare le ore di lezione perse espandendo il calendario scolastico, in pratica si può non cambiare nulla limitandosi a comprimere in quattro anni le ore prima distese su cinque: una sorta di “liceo.zip”.
Ancora più grave non essersi preoccupati del rischio che le 100 classi non siano composte da alunni confrontabili con quelli delle altre classi dei percorsi tradizionali: ogni scuola resta libera di adottare i criteri che crede per la selezione tra le domande delle famiglie.
Può succedere quindi che l’istituto che già sta sperimentando il percorso quadriennale potrà proseguire la sperimentazione con gli stessi criteri già in vigore, nei quali si indicava alle famiglie che “l’offerta si rivolge a studenti motivati, caratterizzati da spiccata curiosità intellettuale, pronti a mettersi in gioco. Saranno criteri di selezione ulteriori le competenze linguistiche (inglese di livello BI), logico-matematiche, di scrittura e lettura in lingua italiana, le ICT per studiare, fare ricerca, comunicare.” E si concludeva ammettendo tranquillamente che “si presuppone pertanto di selezionare in ingresso studenti che siano in grado di sostenere un percorso quadriennale.”
Classi così gli insegnanti se le sognano la notte, ma vorrei sapere chi ne farebbe la base di una sperimentazione nazionale di carattere “ordinamentale”, cioè riguardante la scuola per tutti.
Passiamo di fatto dalla gloriosa stagione delle sperimentazioni assistite ad una in cui si “assiste” a una sperimentazione fai-da-te, capace di attrarre soprattutto scuole pubbliche e private in calo di iscrizioni e alla ricerca di un nuovo appeal.
Ma della scuola reale nessuno parla. Nessuno si interroga su cosa faccia oggi la qualità di una scuola, eppure la risposta ai problemi che abbiamo di fronte è solo nella qualità dell’istruzione.
Si continua a parlare dei contenuti, dei secoli di storia mancanti e delle letture non fatte; addirittura a distanza di 18 anni dalla legge sull’autonomia si torna a parlare dei programmi ministeriali, dimostrando senza volerlo che non è tanto la scuola che ha dimenticato un secolo, quanto gran parte del paese che è rimasto un secolo indietro sulla scuola.
Perché se è vero che nell’insegnamento il “cosa” resta fondamentale, non può più esserlo a prescindere dal “come” e dal “a chi” si insegna.
Passare dalla terminologia del “programma” a quella del “curricolo” non deve essere solo una sfumatura lessicale, ma avere la valenza di un salto quantico culturale.
Significa mettere al centro lo studente e il suo apprendimento, cioè chiedersi se il “cosa” e il “come” del nostro insegnamento dialogano, interagiscono e modificano il suo modo di essere, di pensare, di agire. Il suo presente di studente quanto il futuro che vorrà cercare per sé come adulto.
Questo passaggio è la necessaria risposta ad una società che è radicalmente cambiata e pone alla scuola richieste inedite.
Fino a qualche decennio fa ciò che si imparava nel tempo trascorso nei banchi copriva quasi interamente il bisogno di conoscenze necessarie per tutto il tempo di un lavoro che era caratterizzato da una fortissima stabilità; oggi le trasformazioni sono così rapide che aumenta a dismisura quello che si dovrà imparare dopo la scuola, direttamente nei luoghi di lavoro, sotto una guida esperta, in una condizione di apprendistato permanente. Ci vorranno giovani capaci di apprendere in tutto l’arco della vita e questo rende la scuola ancora più preziosa perché solo una testa ben fatta sviluppa questa capacità.
Di fronte a questa realtà possibile che si continui a parlare di ciò che non si fa, dei libri che non si leggono, dei pezzi di storia che restano fuori, invece di domandarci se riusciremo a rendere i nostri alunni dei “soggetti competenti”? Cioè adulti di domani capaci di apprendere per sempre e ovunque?
Non è solo indispensabile fornire loro il bagaglio di conoscenze fondamentali, ma anche chiederci se nel farlo siamo riusciti a stimolare la loro curiosità, il piacere della scoperta, il gusto per l’imparare. È solo nel tempo della scuola che si può accendere il loro motore interno, unica garanzia perché continuino ad imparare anche da soli.
Da anni alla scuola si chiede di trattare di tutto di più; ritagliare un’ora per questo o quello non è certo impossibile. È inutile e dannoso.
Far vivere la scuola non più come un ostacolo da superare ma come lo strumento per superare gli ostacoli è difficile. Ma è l’unica cosa che serve.
Roma 5 settembre 2017
di Giuseppe Bagni