01/07/2004
Gregoria Cannarozzo
Università di Bergamo
Un recente studio di Jean-François Rivard e Massimo Amadio,Teaching time allocated to religious education in official timetables, pubblicato nel nr. 2 della rivista Prospects, edita dall’International Bureau of Education, UNESCO, giugno 2003, nel file Education and religion: the paths of tolerance, pp. 211 e ss., riporta i dati quantitativi relativi alle ore dedicate all’insegnamento della religione nel sistema educativo pubblico di 142 paesi e intende valutare il peso che tale insegnamento ha nelle statistiche che rappresentano tutte le religioni del mondo. La ricerca si fonda essenzialmente sulle informazioni contenute nel database dell’International Bureau of Education e si riferisce ai dati ricavati nel 2002 dai curricoli delle scuole pubbliche. I documenti su cui è basata l’informazione fanno parte della quarta edizione dei World data on education (IBE, 2001).
Lo studio mette immediatamente in evidenza le criticità della metodologia della ricerca statistica in sé, perché il suo schema può fuorviare. Infatti, anche nel nostro caso, bisogna considerare che si tratta di dati di fonte governativa ufficiale dei paesi presi in esame. Ciò pone il problema della corrispondenza effettiva fra le direttive ufficiali e la loro applicazione circa l’insegnamento della religione nelle classi. Per esempio, nei vari paesi i titoli dei corsi di questa disciplina sono estremamente generici: educazione religiosa, religione ed etica, educazione islamica, religione e movimenti ideologici, religione e educazione morale. Desunte da dati ufficiali, le statistiche devono, comunque, essere interpretate.
Intanto, nel 51,4% dei 73 paesi fra i 142 esaminati, l’educazione religiosa riguarda i primi nove anni di scuola. Il dato analizzato è complicato dal fatto che tale insegnamento è talvolta obbligatorio oppure opzionale oppure facoltativo. Se, poi, invece, il dato non è rilevabile dai curricoli, ciò non significa che non vi siano insegnamenti religiosi. Un caso per tutti: in Svizzera, Germania, Canada e Brasile le decisioni sull’insegnamento della religione sono decentrate e la Svizzera e la Germania non lo includono nelle statistiche nazionali delle lezioni anche se, di fatto, l’insegnamento è presente.
Ma c’è di più. Dei 73 paesi dove appare il dato registrato dall’IBE, è stato possibile quantificare il tempo dedicato all’insegnamento della religione nei primi sei anni di scuola solo in 54. Fra questi, elencati in ordine decrescente, il primo, l’Arabia Saudita, ha una percentuale del 31% del tempo totale del curricolo, il secondo, lo Yemen, del 28,2%: per fare una valutazione comparativa, si vede che questi paesi dedicano all’insegnamento religioso più del triplo del tempo medio generale, che è di 388,4 ore annuali (8,1%) del totale del tempo di insegnamento. Invece, Slovacchia e Repubblica Dominicana risultano dedicare rispettivamente 59 e 63 ore annuali all’educazione religiosa durante i primi sei anni di scuola. Escludendo i dati di questi quattro paesi estremi, la media generale scende da 388,4 a 365,8 ore annuali e corrisponde a una percentuale che passa dall’8,1% al 7,6% del tempo totale di istruzione. Poiché tale scarto non è significativo, ciò conferma che l’Arabia Saudita e lo Yemen costituiscono una chiara eccezione riguardo al posto assegnato alla religione nelle statistiche ufficiali.
In base a queste e ad altre osservazioni, Rivard e Amadio avanzano l’ipotesi per cui, togliendo dall’elenco i primi e gli ultimi quattro paesi dei 54 disposti in ordine decrescente, probabilmente la media risulterebbe più rappresentativa della scenario mondiale.
Continuando con l’analisi dei dati, gli autori della studio rilevano che le ore dedicate alla religione si contraggono mano a mano che i ragazzi crescono. Ciò si ricava comparando le tabelle relative ai primi sei e ai primi nove anni di scuola, peraltro non completamente paragonabili fra loro. I dati dicono, infatti, che 30 su 44 paesi dedicano più tempo a questa disciplina nel 7°, 8° e 9° anno che nei primi sei anni. Ma tre di questi non dedicano alcun tempo all’istruzione durante i primi sei anni di scolarità. Di contro, 29 altri paesi dedicano un tempo maggiore alla educazione religiosa nei medesimi primi sei anni.
Una ricerca analoga del 1992, basata sull’educazione morale, la religione, l’educazione civica e le scienze sociali dal 1920 al 1986 e correlata alla storia dei paesi considerati, rilevava che nei paesi comparati per i periodi 1920-1944 e 1945-1969 la media scendeva dal 5,4% al 4,3%. Confrontando, invece, i periodi 1945-1969 e 1970-1986 la proporzione del tempo scendeva dal 5,2% al 4,2%. Se ne ricavava un declino nel numero di ore, mentre dai dati desunti dalla indagine più recente emerge un indice di segno opposto, che si attesta sull’8%, che farebbe pensare a un incremento. Tuttavia, poiché le due indagini non sono comparabili, esse rappresentano semplicemente un punto di partenza per la riflessione sulla educazione religiosa.
Rivard e Amadio, pertanto, sottolineano che i dati ufficiali non dicono tutto rispetto all’importanza attribuita alla religione nel curricolo dei paesi presi in considerazione. Le statistiche, che risentono degli intuibili problemi di rilevamento, comunque forniscono importanti indicazioni quantitative, anche se la quantità delle ore non dice, di per sé, il peso che i paesi assegnano all’insegnamento religioso. Una ragione è individuabile nel fatto che, per esempio, mancano i dati relativi alle metodologie usate per l’insegnamento medesimo, come mancano anche gli obiettivi prefissati. Senza, poi, considerare che molte società stanno diventando multietniche e multiconfessionali.
Visti tutti questi limiti oggettivi messi in luce dall’articolo circa le statistiche ed altri fattori di ancora maggiore complessità, come l’incidenza, non quantificabile, di tolleranza, integrazione e istanze di pace, per noi di grande rilievo, la ricerca che evidenzia un incremento può esprimere, al massimo, una tendenza. Solo attraverso elementi anche non statistico-quantitativi il fenomeno di un eventuale aumento delle ore dedicate nel mondo all’insegnamento della religione può acquisire visibilità e significato. La semplice lettura dei dati dice che ciascuno di essi, nella sua unicità, riflette significati e contenuti diversi. Nell’insegnamento e, quindi, nello studio della religione è immediatamente percepibile che essa è, insieme e in modo abbastanza inscindibile, lo studio di una dottrina della fede e il momento di una visione del mondo propria di “quel” paese, di “quella” cultura, di “quella” tradizione dove ne è impartito l’insegnamento. Se ne ricavano, pertanto, due orizzonti di senso. L’uno, che potremmo definire più propriamente religioso, cioè di tipo spirituale, l’altro di identità culturale, di tradizioni, di radici, ecc.
La religione “è la Totalità stessa, il soprannaturale in senso pieno, che prende l’iniziativa di ‘parlare’ all’uomo, con una rivelazione di sé….è la testimonianza più alta dell’intenzionalità umana: l’essere aperti non solo al ‘possibile’ umano, ma anche a quello divino. Da qui anche l’importanza della religione nei processi educativi e pedagogici. Il perfezionamento dell’essere umano si misura anche dal mantenimento e dalla manutenzione di questa apertura” .
Peraltro la religione, anche nella sua accezione spirituale, non viene proposta come immobile, e fissa nel tempo, ma, volta a volta, ne viene conformato il contenitore e la presentazione, pur nella costanza assiologica, del contenuto. Ne viene cioè conformata la presentazione secondo un dato di attualità. La religione, anche solo per questo aspetto, non è quindi mai identica a se stessa, ma è parte di una tradizione culturale. Gli stessi elementi tradizionali, in quanto costituenti della cultura, sono costantemente rivisti ed anche essi confrontati, però su un altro piano, con l’attualità. E attualità, oggi, vuole soprattutto dire globalizzazione, abbattimento delle distanze e tecnologia, e cioè trasporti in continuo incremento, internet, televisione, ecc. Questo ultimo aspetto, per esempio, permette a noi cattolici di fruire delle trasmissioni televisive, delle funzioni religiose e delle comunicazioni del Pontefice. Analogamente, altre religioni sono veicolate dalla televisione dei paesi d’origine, per esempio, alla popolazione di loro emigranti, che, a loro volta, possono avere delle vere e proprie enclavi religiose e culturali in altri paesi.
I dati, per quanto importantissimi e indicativi, difficilmente raggiungono ed esprimono la reale complessità di un fenomeno inscindibile dai fenomeni umani, sociali, antropologici, ecc. Per fare un esempio, non mi dicono quanti musulmani leggono il Corano a Berlino piuttosto che a Torino.
Inoltre, non è facile cogliere le differenze che connotano non soltanto l’insegnamento della religione spiritualmente intesa, ma l’insegnamento della religione nel senso più culturale, di identità e di tradizione. Quando, cioè, la religione insegnata è la medesima ed i paesi presi in esame dalla ricerca sono vicini, ma le vicende storico-politiche li hanno differenziati. Questo dato, se non altro, risulta abbastanza celato dalla duplicità del significato dell’insegnamento religioso di cui si è accennato sopra. Quindi occorre conoscere i dati statistici che vengono proposti, ma è necessario saper bene evitare le generalizzazioni e le etichette. Per esempio, dire “il mondo musulmano” è una generalizzazione e cancella una parte. Sarebbe anche errato omologare, per via della medesima etichetta religiosa, due paesi di cui uno sia democratico e l’altro non lo sia, e, viceversa. E’, infatti, parecchio improbabile che l’insegnamento religioso costituisca realmente il medesimo fenomeno nei due paesi presi in considerazione.
Siccome, poi, l’educazione, come l’esperienza, è sempre unitaria e la persona è anch’essa un’unità, non si può pensare di offrirle una cultura parziale e separata, priva di un unitario orizzonte di senso. E nemmeno le azioni educative e didattiche che devono promuovere le sue capacità potenziali in competenze attuali possono essere progettate all’insegna della scomposizione e dell’estraneità. Per esempio, le attività pensate per spronare le capacità intellettuali, non raggiungono il loro fine se non mobilitano anche quelle legate all’affettività, alla relazione, all’espressività, alla morale, alla religione, e viceversa. Per non tradire, in educazione, il valore della prospettiva unitaria. E’, per dirla con Edgard Morin, la realizzazione del principio dell’ologramma: non si dà il tutto senza le parti, né le parti senza il tutto, in un continuo andamento ricorsivo e dialogico fra parti e tutto. Solo così non si smarrisce mai il rimando all’unità della persona, della cultura e dell’educazione.
C’è, infine, da considerare un ultimo aspetto, ma non di minor conto, circa l’insegnamento della religione, che esprime, come abbiamo visto, una duplicità di valori. Si tratta del problema della cosiddetta laicità, che noi conosciamo nella sua versione occidentale, quella emersa in Europa insieme e accanto alla problematica della libertà religiosa in maniera tutt’altro che indolore e perdurata possiamo dire, forse, fino a ieri. Se ne è generata una stratificazione di posizioni che hanno legato il problema religioso a quello della pace e della libera Convivenza civile. In sostanza, non è cambiata la religione come fenomeno spirituale, ma ne è cambiato certamente il modo di insegnamento al fine di affermare il valore della pace attraverso la soddisfazione dell’esigenza di libertà. Così come sono cambiate la tradizione e la cultura con l’emersione di più complessi sistemi di valori. Si sono, in tal modo, create una giustapposizione e una sintesi di valori che toccano il massimo dei livelli dal punto di vista culturale, giuridico e politico. Tuttavia, e senza voler invadere il campo altrui, questi valori sono stati, prima, assimilati a livello religioso e, poi, si sono proiettati sulla cultura. Tutto questo, sempre nell’Occidente, è ormai tranquillamente posseduto dalle tradizioni nell’insegnamento della religione.
Pertanto, la lettura dei dati quantitativi sull’insegnamento religioso richiede la consapevolezza che viene osservato un fenomeno che non è, di sicuro, soltanto quello occidentale.
Si tratta sempre, tuttavia, qualunque sia il paese o la tradizione o la religione, ecc., del massimo livello valoriale di un problema di raffronto/confronto tra punti di vista e fenomeni mai identici sia sotto questo aspetto, sia sotto l’aspetto qualitativo, a cui viene aggiunta la conoscenza di un importante dato quantitativo. Lo studio e l’approfondimento di quest’ultimo deve essere occasione per ulteriori analisi, e non mai esso dovrà essere utilizzato nella sua crudezza per un raffronto puramente numerico. Esso, in sostanza, si aggiunge a una complessità e ci offre, in tal modo, informazioni importanti, ma non omologa situazioni soltanto simili a livello di una certa astrazione