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Per una governance democratica della scuola. A colloquio con Francesco Greco, Dirigente Tecnico MIM.

Greco: "Valorizzare la diversità della scuola rispetto ad altre istituzioni pubbliche".

di Redazione.

Al prof. Francesco Greco, relatore nell’evento sul tema “Leadership distribuita e merito, nuove frontiere per la professione docente”, svoltosi lo scorso 17 ottobre nell’ambito di Didacta Italia, il più importante evento fieristico nazionale dedicato al mondo della scuola, dell’università, della formazione e della ricerca scientifica, abbiamo posto alcune domande su un tema che da anni è al centro dell’impegno culturale e sociale dell’Associazione Nazionale Docenti. La trasformazione del sistema scolastico italiano a partire dalle riforme in senso democratico degli anni Settanta del secolo scorso, per giungere ai cambiamenti profondi prodotti dalla riforma Bassanini e all’introduzione della figura del Dirigente scolastico, che rappresenta una sorta di ritorno al passato, a un modello verticistico e centralistico-burocratico, per niente adatto a quell’idea circolare di “scuola comunità educante e democratica”.

Quali sono le principali riforme storiche e normative che hanno influenzato il modello attuale di governance scolastica in Italia?

L’attuale modello di governance scolastica in Italia è il risultato di due momenti chiave: la riforma dei decreti delegati degli anni ’70 e la cosiddetta “riforma Bassanini” del 1997. Entrambe hanno portato cambiamenti significativi alla struttura della scuola italiana e alla professione docente, ma con approcci e obiettivi differenti.

Il primo momento cruciale è rappresentato dai decreti delegati del 1974, emanati in attuazione della legge delega n. 477/1973. Questi decreti segnarono un punto di svolta per il sistema scolastico italiano, poiché cercarono di superare il modello centralistico e gerarchico della scuola “gentiliana”, orientata al controllo statale dall’alto, per promuovere una gestione più democratica e partecipativa. In particolare, il D.lgs. 416/1974 istituì gli organi collegiali, fornendo a docenti, genitori e studenti l’opportunità di partecipare attivamente alla gestione della scuola. Questo segnò l’introduzione di un modello di governance orizzontale, dove la scuola veniva vista come una comunità educativa, aperta alla partecipazione della società civile. Si passava da una visione della scuola come luogo di pura trasmissione del sapere ad una scuola come “fatto sociale collettivo”, capace di rispondere ai bisogni di una società in trasformazione.

Quali conseguenze hanno avuto sulla professione docente?

Parallelamente, all’introduzione degli organi collegiali, con il D.lgs. 417/1974 si operò una svolta importante per la professione docente, riconoscendo per la prima volta la specificità del lavoro degli insegnanti. Fino a quel momento, i docenti erano considerati impiegati civili dello Stato e a questi erano assimilati in ogni aspetto del rapporto di lavoro, regolato dal Testo Unico n. 3, del 1957. Con questa riforma, invece, il ruolo del docente venne riconosciuto nella sua peculiarità: un professionista che non si limitava a impartire nozioni, ma che partecipava alla elaborazione culturale e alla costruzione sociale del sapere. Questo rappresentò un passo fondamentale verso la professionalizzazione dell’insegnamento, con un’enfasi particolare sull’autonomia didattica e sulla libertà di insegnamento sancita dalla Costituzione.

Il secondo momento cruciale è rappresentato dalla riforma Bassanini e dalla legge delega n. 59/1997. Questa riforma si inseriva in un quadro più ampio di decentralizzazione della pubblica amministrazione, che mirava a trasferire competenze, dal centro verso la periferia, dallo Stato agli enti locali. Con l’art. 21 della legge 59/1997, le scuole acquisirono autonomia funzionale e personalità giuridica, permettendo loro di gestire direttamente le risorse e di adottare scelte organizzative autonome. Tuttavia, questa riforma comportò anche la trasformazione del ruolo dei capi di istituto, che da “presidi” divennero “dirigenti scolastici”. Non si trattò di un cambiamento meramente nominale, ma sostanziale. Il termine prèside, dal lat. praeses -sĭdis, propr. «chi siede avanti, chi presiede», è riferito, dunque, ad una persona che siede sullo stesso piano degli altri, seppure in una posizione avanzata, un “primus inter pares”. Il dirigente è invece posto su un piano diverso rispetto agli altri componenti la comunità professionale, una posizione sovraordinata che riporta all’organizzazione burocratica tipica della pubblica amministrazione, che a sua volta richiama il sistema gerarchico militare, da cui la pubblica amministrazione ha assimilato sin dall’antichità modelli organizzativi. Dunque, un modello organizzativo ben diverso da quello che ha animato le riforme degli anni ’70, con un focus maggiore su efficienza e controllo.

Quali sono state le principali ragioni alla base delle riforme della governance scolastica in Italia e quali obiettivi si intendevano raggiungere?

Le motivazioni dietro queste riforme riflettono i cambiamenti politici, economici e sociali dell’epoca in cui furono attuate. Negli anni ’70, l’Italia stava vivendo un periodo di grandi trasformazioni sociali e culturali. Le proteste studentesche del 1968 e le rivendicazioni sindacali avevano messo in evidenza il bisogno di democratizzare le istituzioni pubbliche, compresa la scuola. L’obiettivo della riforma dei decreti delegati del 1974 era quello di allineare la scuola ai nuovi bisogni sociali, riconoscendo il ruolo attivo di genitori e studenti nella comunità scolastica e trasformando la scuola in un’istituzione più aperta, partecipativa e democratica. Si cercava anche di dare maggiore riconoscimento alla professionalità dei docenti, in linea con una crescente richiesta di autonomia didattica.

Diversa la situazione negli anni ’90, quando l’Italia, come molti Paesi occidentali, si trovava ad affrontare una grave crisi economica. Le politiche neoliberiste, già affermatesi in altri Paesi, si diffusero anche in Italia, promuovendo l’adozione di modelli di gestione più efficienti e competitivi. La riforma Bassanini del 1997, influenzata dal New Public Management (NPM), cercava di ridurre i costi e aumentare l’efficienza nella gestione delle scuole, applicando principi tipici del settore privato anche al settore pubblico. La scuola, come altre istituzioni pubbliche, fu vista sotto questa luce, con un accento sulla razionalizzazione delle risorse e sulla decentralizzazione, favorendo una maggiore autonomia nella gestione. Tuttavia, il rischio era quello di appiattire la specificità della scuola, assimilando la sua gestione a criteri di efficientismo di tipo aziendalistico e a modelli di funzionamento tipici di un ente burocratico, perdendo di vista la sua funzione educativa e sociale.

Quali sono i limiti dell’attuale modello di governance scolastica e come potrebbe essere migliorato?

Un limite evidente del modello di governance scolastica introdotto con la riforma del 1997 è il mutamento impresso nel ruolo del capo di istituto, per molti aspetti non riscontrabile in nessuna altra figura della pubblica amministrazione, che l’ha portato ad assumere un ruolo manageriale con ampi poteri di gestione, tanto da essere spesso percepito come distante dalle esigenze del corpo docente e della comunità scolastica. Questo ha creato uno squilibrio tra la componente dirigenziale/manageriale e quella didattico-educativa, che negli anni ’70 si cercava invece di valorizzare attraverso la partecipazione attiva di tutti i soggetti coinvolti nei processi decisionali.

Il paradosso è che mentre nel mondo imprenditoriale moderno le strutture gerarchiche sono progressivamente abbandonate in favore di modelli più orizzontali, collaborativi e flessibili, a rete, olistici, la scuola italiana, invece, è rimasta ancorata a un modello di governance verticale e burocratico. Un cambiamento del modello scolastico verso una leadership diffusa, basata su una maggiore condivisione delle responsabilità e delle decisioni, potrebbe migliorare non solo l’efficienza della scuola, ma anche la qualità dell’ambiente educativo e il benessere di docenti e studenti, con effetti positivi anche sugli apprendimenti.

Quali cambiamenti, a suo giudizio, sono necessari per implementare un modello di leadership diffusa nelle scuole?

Implementare un modello di leadership diffusa nelle scuole richiede un profondo cambiamento culturale oltreché organizzativo. Ciò implica superare l’attuale visione gerarchica e burocratica della scuola e adottare una visione più partecipativa, dove la responsabilità della governance non è concentrata solo nel capo di istituto, ma condivisa tra tutti i membri della comunità scolastica.

Al riguardo, ritengo che siano meritevole della massima attenzione le proposte che mirano a valorizzare i caratteri della scuola come luogo, per antonomasia, di culla della nostra democrazia, dove si forgiano i valori e si acquisiscono i saperi su cui poggia il futuro del nostro Paese. Tra queste, a mio personale parere, quelle che sostengono la necessità di: superare l’autonomia funzionale attuale, introducendo una autonomia statutaria che permetta alle scuole di autogovernarsi in modo più flessibile e coerente con le proprie specificità; reintrodurre la figura del preside e la sua elettività, con un mandato a tempo, in modo che la tale figura torni a essere meno burocratica e svolgere un ruolo di leadership autorevole. In questo modo, il preside tornerebbe ad essere un “primus inter pares”, mantenendo un collegamento più stretto con la comunità scolastica, così come già avviene nelle università, nelle accademie e nei conservatori ove rettori e direttori sono eletti e con mandato a tempo; valorizzare la carriera dei docenti, introducendo fasce funzionali che permettano loro di assumere diversi ruoli e funzioni senza creare nuove gerarchie, ma piuttosto basandosi sulla collaborazione e sulla condivisione delle responsabilità; creare un sistema di garanzia della professione docente, affidato a un organo dedicato come un Consiglio Superiore della Docenza, che possa tutelare lo stato giuridico e la professionalità degli insegnanti, garantendo equità e trasparenza nelle questioni disciplinari e giuridiche.

Questi cambiamenti, ovviamente rimessi alla politica, potrebbero trasformare la scuola in una vera comunità professionale e di apprendimento, migliorando l’efficacia della governance scolastica e creando un ambiente sereno e più collaborativo e innovativo.

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