Ho finito “Tutti gli eroi che conosco” di Michele Arena qualche mese fa ma non è un libro da cui si esce dopo l’ultima pagina. È una biografia collettiva, scritta in uno stile “intimista al plurale” se può esistere una tale categoria, con chiari tratti di biografia professionale di Arena.
È un bel romanzo come non ne leggevo da tempo. Ero ben disposto a che mi piacesse perché Michele è stato un mio alunno e ho con lui un legame di amicizia e di stima profonda. Ma no, non mi sono fatto accecare dal mio tifo per Michele e tutti gli amici a cui l’ho consigliato hanno confermato il valore del romanzo.
Conosco la qualità media dei racconti di scuola e per questo tendo a evitarli. Vanno avanti su stereotipi, luoghi comuni, spesso sono stupidari su studenti e prof. Ma “Tutti gli eroi che conosco” non cade in questa deriva di banalità. Michele conosce bene la scuola e conosce gli adolescenti che la vivono e spesso soffrono.
Raramente ho trovato una descrizione così credibile della gamma dei docenti che si incontrano a scuola. Quelli di cui non ti scordi più perché ti hanno salvano la vita al pari di quelli che non dimenticherai perché te l’hanno rovinata. I docenti che ti sanno ascoltare e capire e quelli che non capiscono nemmeno perché sono docenti.
Zanushe, Mario, Thomas, Rakel e Dylan hanno famiglie di origini diverse ma sono accomunati da un forte legame di amicizia che li porta a trovarsi abitualmente in piazza Stella, il cuore di cemento nel deserto di una periferia come tante.
La loro amicizia è il principale strumento di difesa con cui sopravvivono alla scuola, ma diventa anche la forza collettiva che li fa immaginare di poter inventare un posto tutto per loro. Una scuola per i numeri due, quelli di cui ci si dimentica sempre, oscurati dai vincenti. Un luogo di libera creatività che accetta l’errore come un elemento naturale della crescita. E quale luogo è più adatto a una simile impresa che una asettica lavanderia a gettoni semi abbandonata con quegli oblò delle macchine che la fanno l’astronave perfetta da lanciare alla scoperta di un nuovo pianeta scolastico?
Michele Arena sa di scuola, ha un’idea di come dovrebbe essere e la esprime attraverso le storie dei ragazzi e ragazze che sceglie. Nel romanzo c’è il loro presente fatto delle tracce del loro passato.
Ma c’è soprattutto il futuro sognato. Sognato, a quella età Il futuro lo è sempre, espresso con parole grandi e carico di rivincita se è il sogno di chi è etichettato come perdente, destinato all’emarginazione come l’intera sua famiglia perché scomodo.
L’osservazione che alcuni amici mi hanno fatto dopo aver letto il libro, che i suoi personaggi parlano come degli adulti, è condivisibile, ma a mio parere non un limite. Conta poco che siano adolescenti comuni oppure no perché non devono rappresentare se stessi. Conta che la domanda di una scuola diversa e il bisogno di protagonismo e di riscatto che esprimono è reale.
Hanno parole più grandi di loro, dure, sanzionatorie, ma lo erano anche le nostre alla loro età. Siamo sicuri che oggi non sia più così? Davvero sono una generazione di pigri, di sdraiati sul divano, di felici nullafacenti o, peggio, bulli?
Forse oggi non trovano le parole – per questo vivono un disagio sordo, più violento – e certamente non troveremo nella strada accanto una lavanderia a gettone trasformata in scuola per i dimenticati, ma non sta forse alla narrativa inventare il linguaggio per dire quello che nella vita quotidiana resta muto?