Note & Interventi

Regionalismo (differenziato) e diritti

 

Appunti a ri-lettura del novellato titolo V Cost, fra unità repubblicana, principio di eguaglianza ed esigenze autonomistiche

Prof. Silvio Gambino, Università della Calabria

La revisione costituzionale del Titolo V ha costituito da più tempo motivo di approfondimento (nella dottrina e nella opinione pubblica) delle tematiche relative alle forme di Stato (federale e regionale) e ai vincoli posti, al loro interno, dalla concreta distribuzione territoriale delle competenze statali e dalla garanzia dei diritti nonché del rispetto del principio di eguaglianza

Alcune formule utilizzate dal legislatore di revisione del 2001 (concepite in un’ottica senz’altro garantistica) – come quella che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” – e che avevano già sollevato la critica della dottrina, quando assumeva come una simile disciplina costituzionale avrebbe garantito eguaglianza fra i cittadini  “solo nel minimo” e una “totale diseguaglianza al di sopra del minimo garantito”, tornano attualmente di stringente attualità, al momento di riflettere sui limiti (anche costituzionali) del federalismo fiscale secondo le scelte accolte, prima, nella legge Calderoli (n. 42/2009) e ora nei discutibili indirizzi accolti nelle bozze di intesa fra le regioni Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Stato (ma soprattutto in quella veneta).

Rispetto alle molte questioni sollevate dalla revisione costituzionale del 2001, in questa brevissima riflessione, ci limiteremo ai soli profili relativi ai rapporti fra le nuove competenze riconosciute alle regioni (e agli enti autonomi della Repubblica) e la garanzia dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale).

L’analisi, tuttavia, non può non richiamare alcune (almeno) delle questioni sollevate dalle modalità previste dall’art. 119 Cost. (e della relativa legge delega di attuazione, n. 42 del 2009) per assicurare alle regioni e agli enti territoriali le risorse necessarie alla integrale copertura finanziaria necessaria all’esercizio delle “funzioni pubbliche loro attribuite” (art. 119, IV co., Cost.).

Peraltro, nonostante nell’art. 119 Cost. non vi sia alcun espresso riferimento alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale (art. 117, II co., lett. m, Cost.), tale problematica appare parimenti centrale, sicché si pongono complesse problematiche circa l’adeguatezza del modello di finanziamento disegnato in ordine alle esigenze perequative, egualitarie e solidaristiche.

Ne consegue che la determinazione dei livelli essenziali su tutto il territorio nazionale e la relativa garanzia sono condizionati, da una parte, dall’entità dei fondi destinati a fini perequativi e, dall’altra, dalla concreta possibilità da parte degli enti autonomi della Repubblica di incidere, collaborativamente con il Parlamento, sui criteri della perequazione medesima.

Cosicché, se ne può concludere che l’attribuzione al legislatore statale di una potestà legislativa esclusiva in materia di ‘perequazione delle risorse finanziarie’ acquista significato effettivo (solo ed) in quanto essa persegua le finalità poste dalla prima parte della Costituzione – e tra queste, in particolare, la garanzia dei princìpi e dei diritti fondamentali, in primis il principio egualitario – piuttosto che una mera ed astratta eguaglianza fra le autonomie territoriali.

Se il testo della legge n. 42/2009 supera un vuoto normativo che si era protratto per almeno un decennio dalla revisione costituzionale, restano comunque presenti dei limiti insuperabili di legittimità costituzionale (soprattutto articoli 8, 9, e 10), che riguardano (forse meno) le caratteristiche della delega e (molto di più) talune previsioni specifiche del testo, sulle quali il Governo e la maggioranza parlamentare del tempo hanno ritenuto di insistere nonostante le sottolineature critiche delle dottrina e dell’opposizione parlamentare.

Quanto al primo dei due profili, anche in considerazione di prassi consolidate in materia di ambiti relativi ai princìpi e ai criteri direttivi della delega, può dirsi che, pur in presenza di un’evidente esuberanza delle disposizioni enunciative di princìpi e di una corrispondente carenza nella puntuale determinazione dell’oggetto della delega, non parrebbe, tuttavia, doversi cogliere un’incompatibilità con i vincoli costituzionali posti alla legge di delega.

Pur avendo completamente superato i più gravi limiti di cui erano caratterizzate le precedenti formulazioni del testo, che condizionavano la riallocazione delle funzioni alle decisioni legislative operate in materia di riparto delle risorse finanziarie, i limiti che tuttora caratterizzano il testo della legge – fino a sottolinearne l’evidente e insuperabile incostituzionalità di talune sue previsioni – risiedono nella considerazione secondo cui nel testo si prevede una differenziazione – costituzionalmente incompatibile con le previsioni di cui al IV co. dell’art. 119 Cost. – fra le funzioni attribuite ai diversi livelli di governo, con la previsione dell’integrale copertura finanziaria delle sole funzioni concernenti i livelli essenziali delle prestazioni (fra le quali si fanno ricadere la salute, l’assistenza, l’istruzione, il trasporto locale), nel mentre tale copertura finanziaria non è assicurata alle “altre funzioni” pubbliche del sistema degli enti autonomi della Repubblica, in contrasto con quanto prevede appunto il IV co. dell’art. 119 Cost.

Il dubbio di legittimità costituzionale risulta aggravato dalla mancata previsione delle funzioni fondamentali degli enti locali. Una circostanza – quest’ultima – che, in sede di prima attuazione (ai sensi dell’art. 117 Cost., II co., lettera p e dell’art. 118 Cost.), avrebbe potuto correre il rischio di spingere gli enti locali – in modo peraltro comprensibile – ad una rivendicazione allocativa della gran parte se non perfino di tutte le loro funzioni fra quelle fondamentali e come tali da garantire nella loro copertura finanziaria integrale. Una prospettiva – questa – che avrebbe potuto comportare impatti gravi sugli equilibri della finanza pubblica, per come è stato anche sottolineato da una parte avvertita del pensiero economico e di scienza delle finanze. D’altra parte, appaiono del tutto comprensibili quei dubbi diffusamente sollevati in dottrina circa le incertezze relative all’ambito della nozione accolta nella legge in esame dei ‘livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali’.

Se all’interno di tale nozione ricadono, come è chiaro, le materie della tutela della salute, dell’istruzione e dell’assistenza, rimangono del tutto aperti i dubbi circa la legittimità dell’esclusione da tale ambito di fondamentalità di materie come quella del collettamento e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, della viabilità, della salvaguardia delle coste e della montagna, degli asili nido (l’elenco è richiamato per mere finalità esplicative e non può certo ritenersi completo).

Ne consegue che il limite della costituzionalità del testo di legge, con riguardo a tali profili, risiede appunto nell’avere voluto limitare (in modo irrazionale e per questo incostituzionale) le garanzie della copertura finanziaria “integrale” ad alcune soltanto delle funzioni pubbliche previste dalla Carta costituzionale come livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti sociali, omettendo di assicurare una garanzia omologa ai livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili. Ciò tanto se si ha riguardo all’allocazione delle competenze concorrenti o esclusive delle regioni, tanto se si ha riguardo alle funzioni fondamentali degli enti locali (ai sensi dell’art. 118 Cost. e dell’art. 117, II co., lettera p).

Tali competenze, invero, appaiono sfornite da puntuali norme costituzionali di garanzia, almeno relativamente ai contenuti essenziali della ‘perequazione finanziaria’, la quale, così, potrà risultare di difficile giustiziabilità, venendo rimessa alla negoziazione politica all’interno della Conferenza Stato-Regioni, ovvero in altre istanze di concertazione politico-istituzionale istituite all’uopo. Una perequazione che, se individuata nella forma della sola redistribuzione compensativa, non potrà porsi come garante della esigibilità dei livelli essenziali delle prestazioni relativi alla sanità, al sociale, alla scuola e al trasporto pubblico locale. Una garanzia – quest’ultima – pretesa dalla Costituzione (117, II co., lettera m; 119, IV co.), che sia sinonimo di certezza di erogazione in favore della collettività; il tutto magari attraverso un percorso di solidarietà condizionata al conseguimento degli obiettivi di risanamento prestazionale e di rilancio dei territori (regioni) con minore capacità fiscale per abitante, beneficiari dell’intervento redistributivo.

Prima e dopo le iniziative (allo stato solo politiche) di attuazione del regionalismo differenziato (art. 116, III co., Cost.), in tale quadro, il profilo centrale del tema, a noi pare, innanzitutto, quello che porta ad interrogarsi sul nuovo assetto delle competenze voluto dalla revisione costituzionale (1999/2001) rispetto alla garanzia del principio di uguaglianza fra i cittadini e con esso della garanzia dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale), posti a fondamento della forma di Stato repubblicana. Si deve infatti sottolineare come la lettera m dell’art. 117, II co., della Costituzione non attribuisca alla legislazione esclusiva dello Stato la sola competenza a determinare i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti sociali bensì si estenda, con formulazione dalla natura indubbiamente garantistica, anche ai diritti civili, di modo che i primi e i secondi siano “garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Alcune considerazioni essenziali s’impongono in via preliminare per inquadrare tale centrale profilo che si pone come limite nell’attuazione delle previsioni costituzionali in materia di autonomia finanziaria di entrata e di spesa.

Diversamente da quanto previsto nel previgente ordinamento regionale, così, il novellato Tit. V Cost. introduce un rapporto esplicito e diretto fra ‘nuovo’ regionalismo e novellate modalità di disciplina dei diritti sociali e civili.

La quantità e la qualità della nuova allocazione delle competenze a livello regionale (che ora potrà ulteriormente ampliarsi alla luce dell’attuazione dell’art. 116, III co., Cost., secondo il quale “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie … potranno essere attribuite ad altre Regioni”), a ben cogliere, – se non proprio ai sistemi federali risulta almeno comparabile a quella operata nelle Comunità autonome spagnole alla luce del principio dispositivo ivi operante –, differenziandosene, oltre che per la cornice costituzionale della forma di Stato, per le tecniche istituzionali dell’allocazione e della relativa legislazione di attuazione. In questo senso – se non certo giustificarsi – può forse comprendersi l’enfasi che il mondo politico ma anche quello parlamentare hanno fatto quando hanno utilizzato enfaticamente il termine federalismo per inquadrare la revisione costituzionale del Titolo V.

Nell’assegnare alla legislazione esclusiva dello Stato la materia/funzione della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, l’art. 117 (II co., lettera m) della novellata disposizione costituzionale si prefigge di assicurare la garanzia del principio di uguaglianza di fronte alla legge – che deve intendersi, soprattutto, come uguaglianza di fronte alla Costituzione – su tutto il territorio nazionale. Omologa valutazione deve farsi, in un’analisi che si voglia minimamente compiuta (che qui tuttavia non potrà svolgersi), almeno, per ‘la tutela della concorrenza’, per la ‘perequazione delle risorse finanziarie’, per il ‘sistema tributario e contabile dello Stato’, per l’‘ordine pubblico e sicurezza’, per l’‘ordinamento civile e penale’, per la ‘cittadinanza’, in armonia con un indirizzo ormai fermo della giurisprudenza costituzionale a garanzia dell’unitarietà del sistema.

Un richiamo ancorché essenziale può opportunamente farsi, in materia, con riguardo specifico ai rapporti fra autonomia regionale, diritti fondamentali e principi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica. Lo faremo richiamando un recente indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte, relativo al giudizio di legittimità costituzionale delle leggi della Regione Veneto n. 15/2014 (Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto) e n. 16/2014 (Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto).

In tale indirizzo giurisprudenziale (sent. cost. n. 118/2015), il Giudice delle leggi argomenta in modo risolutivo la sua censura con riguardo alla questione di legittimità promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri. Due questioni allora sollevate appaiono richiamare da vicino questioni presenti nel dibattito pubblico (che coinvolge ancora una volta la Regione Veneto, ma non solo). La prima riguarda le scelte fondamentali di livello costituzionale accolte nelle leggi oggetto di censura innanzi alla Corte che, secondo la sua giurisprudenza, devono assumersi precluse in quanto tali ai referendum regionali in ragione del loro suggerire “sovvertimenti istituzionali radicalmente incompatibili con i fondamentali principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost.” (cons. in dir. 7.2., sent. cost. n. 118/2015).

A garanzia di tali principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano, la Corte non può che sottolineare puntualmente come “L’unità della Repubblica è uno di quegli elementi così essenziali dell’ordinamento costituzionale da essere sottratti persino al potere di revisione costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988)” (cons. in dir. 7.2., sent. cost. n. 118/2015).

Quanto alla seconda questione, con una interpretazione conforme a Costituzione del quesito referendario oggetto del suo vaglio, la Corte assume che “così interpretato, il quesito referendario non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti e pertanto, sotto questo profilo, la censura non è fondata”. Ragionevolmente, viene in tal modo lasciato pieno spazio alle regioni perché nel rispetto dei richiamati principi costituzionali possano svolgere la loro autonomia.

Come si è osservato in precedenza, una simile lettura fattane dal Giudice delle leggi rileva anche nell’attualità con riguardo specifico alle iniziative legislative in corso, ancorché al momento non ancora formalizzate in testi di legge. Per la Corte, se pure, da una parte, deve sottolinearsi come nel quesito referendario difetti ogni richiamo relativo agli ambiti di ampliamento dell’autonomia regionale su cui si intende interrogare gli elettori, “non è men vero, però, che il tenore letterale del quesito referendario ripete testualmente l’espressione usata nell’art. 116, terzo comma, Cost. e dunque si colloca nel quadro della differenziazione delle autonomie regionali prevista dalla disposizione costituzionale evocata; cosicché deve intendersi che le ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’ su cui gli elettori sono chiamati ad esprimersi possano riguardare solo le ‘materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s)’, come esplicitamente stabilito nelle suddette disposizioni costituzionali” (cons. in dir. 8.3, sent. cost. n. 118/2015).

Una eventuale questione di legittimità costituzionale rispetto ai dubbi sollevati da più parti relativamente alle bozze di intesa con lo Stato delle tre Regioni interessate all’attuazione del regionalismo differenziato, come si osserva, potrebbe riguardare, al contempo, il parametro costituito dallo statuto regionale e soprattutto quello costituito dai principi costituzionali.

Mentre per le esigenze di questa nota possiamo rinviare ad uno specifico approfondimento il vaglio di quanto previsto in concreto da ogni singola bozza di intesa fra Regione richiedente e Stato, riteniamo di interesse generale e risolutivo di molti dubbi da più parti sollevati l’indirizzo costituzionale che riguarda i limiti posti dal rispetto dei principi costituzionali rilevanti nella materia che ora rileva nella presente analisi.

A giudizio della Corte, i dubbi di legittimità sollevati nei confronti della l.r. Veneto n. 15 del 2014 sono da ritenersi fondati nel loro delineare un assetto tributario regionale nel quale “i tributi riscossi sul territorio regionale, o versati dai ‘cittadini veneti’, sarebbero trattenuti almeno per l’ottanta per cento dalla Regione e, nella parte incamerata dalla ‘amministrazione centrale’, dovrebbero essere utilizzati almeno per l’ottanta per cento nel territorio regionale ‘in termini di beni e servizi’”.

Se, da una parte, i quesiti referendari oggetto di impugnazione alla Corte registrano un primo limite nel palese contrasto con la disciplina statutaria regionale in materia, dall’altra, non risulta meno incisiva “la violazione dei principi costituzionali in tema di coordinamento della finanza pubblica, nonché del limite delle leggi di bilancio, come interpretato dalla costante giurisprudenza di questa Corte in tema di referendum ex art. 75 Cost., valevole come canone interpretativo anche dell’analoga clausola statutaria” (cons. in dir. 8.4, sent. cost. n. 118/2015).

Ne consegue, per la Corte, che “i quesiti in esame profilano alterazioni stabili e profonde degli equilibri della finanza pubblica, incidendo così sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica”. Gli stessi non rilevano per la loro incidenza su singole manovre finanziarie o su misure nelle stesse previste quanto piuttosto su “alcuni elementi strutturali del sistema nazionale di programmazione finanziaria, indispensabili a garantire la coesione e la solidarietà all’interno della Repubblica, nonché l’unità giuridica ed economica di quest’ultima” (cons. in dir. 8.4, sent. cost. n. 118/2015), conseguendone che gli stessi “si pongono in contrasto con principi di sicuro rilievo costituzionale ed entrano nel cuore di una materia in cui lo stesso statuto regionale, in armonia con la Costituzione, non ammette referendum, nemmeno consultivi” (cons. in dir. 8.4, sent. cost. n. 118/2015).

Tanto richiamato di un indirizzo particolarmente chiaro della Suprema Corte su tematiche di riforma tuttora di estrema attualità nel Paese, possiamo nuovamente tornare alla riflessione che era stata interrotta per dare spazio alla lettura dei principi fondamentali fattane dalla Corte costituzionale con riguardo specifico alle pretese a suo tempo accolte nella richiamata legge veneta (ma ora presenti anche nella bozza lombarda e nuovamente in quella veneta).

Nel ritornare a tale riflessione, deve osservarsi come il legislatore di revisione si sia comunque mosso in una cornice costituzionale nella quale si assume come definitivamente superato il risalente modello dell’uniformismo e del centralismo al quale ha corrisposto, nella prassi, una legislazione regionale sostanzialmente omologa.

Rispetto ad un simile orizzonte, si ponevano (e si pongono tuttora fattualmente) come evenienze possibili la lesione del principio di eguaglianza dei cittadini (eguaglianza interpersonale) all’interno di ogni singola Regione ma (ora soprattutto) con riferimento al luogo di residenza (eguaglianza interterritoriale).

Mentre, rispetto alla prima richiamata situazione, potevano risultare bastevoli le previsioni costituzionali di divieto di discriminazione fra i soggetti (art. 3, I co., Cost.), al contrario, le eventuali diseguaglianze interterritoriali sarebbero risultate senza copertura costituzionale; ciò soprattutto in considerazione della realtà socio-politica del Paese, tuttora caratterizzata da una persistente ‘questione meridionale’, da intendersi come (non superato) divario socio-economico fra Nord e Sud del Paese.

È soprattutto rispetto a tale possibile (ma, come sappiamo, reale) diseguaglianza che costituisce garanzia dei diritti di cittadinanza (‘unitaria’ e ‘sociale’) la richiamata previsione di cui alla lettera m dell’art. 117, II co., Cost., nonché la previsione dell’ulteriore limite costituito dai ‘princìpi fondamentali’ riservati alla legislazione dello Stato con riferimento alle competenze concorrenti delle regioni (art. 117, III co., Cost.) ma da estendersi anche a quelle residuali/esclusive delle stesse.

Sul punto non risulta convincente quella lettura (minoritaria, se comprendiamo bene) che coglie nell’attuazione dell’art. 116, III co., Cost. una discutibile via per sottrarsi al rispetto dei “principi fondamentali” delle materie di competenza concorrente riservati alla legislazione dello Stato. Una simile lettura, infatti, rischierebbe di assegnare all’autonomia regionale differenziata uno spazio normativo che l’art. 116, I co, Cost. non riconosce alle Regioni a statuto speciale, vincolate al rispetto dei rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale e che, invero,  la stessa prassi regionale delle Regioni a statuto speciale non pare rivendicare.

Pertanto, se alle possibili lesioni del principio di eguaglianza interpersonale e interterritoriale (anche in ragione delle previsioni di cui al novellato art. 116 Cost.) il legislatore di revisione costituzionale ha posto rimedio con le disposizioni di cui alla lettera m dell’art. 117, II co., Cost., e con i controlli sostitutori di cui all’art. 120, II co., Cost., nella stessa ottica garantistica (della cittadinanza ‘unitaria’ e ‘sociale’) deve assumersi operante l’intero sistema dei ‘princìpi fondamentali’ (e fra questi, in particolare, il principio personalistico, quello solidaristico, di cui all’art. 2 Cost., e quello egualitario, di cui all’art. 3, commi 1 e 2) e delle disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali, in quanto ‘patrimonio costituzionale’ indisponibile alla discrezionalità del legislatore (ordinario e regionale), come anche alla stessa revisione costituzionale, in ragione del suo costituire “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale, secondo una risalente definizione del Giudice costituzionale (considerato in diritto n. 2.1., sent. cost. n. 1146 del 1988).

Nell’attuazione del principio di eguaglianza e di solidarietà, alla ‘Repubblica’ (ora intesa, ai sensi dell’art. 114 Cost., come l’insieme pariordinato costituzionalmente di tutti i pubblici poteri, statali e territoriali) spetta di far valere, a titolo di solidarietà e di ‘coesione sociale’, tutte quelle garanzie che concorrono, con il principio di eguaglianza sostanziale, a superare le diseguaglianze originate nel sistema economico e sociale, rimuovendone gli squilibri e favorendo l’effettivo esercizio dei diritti della persona.

Al legislatore statale e regionale (e al rimanente sistema autonomistico della Repubblica), nell’esercizio dei poteri normativi di cui sono rispettivamente attributari in via costituzionale, e nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione, compete di assicurare la tutela dell’‘unità giuridica’ e dell’‘unità economica’.

Agli stessi soggetti compete, in particolare, la tutela dei ‘livelli essenziali delle prestazioni’ concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali, potendo lo Stato-Governo, in tal senso, sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nelle ipotesi normative fissate in Costituzione (art. 120, II co.) e nel rispetto delle procedure di legge relative a tale controllo sostitutorio (art. 8 della l. n. 131/2003).

Da una simile ri-lettura del testo (di revisione) costituzionale, se ne può concludere che, se pure, in via di principio, la previsione di cui all’art. 117 Cost., II co., lettera m, poteva non apparire strettamente necessaria ai fini della tutela dei diritti fondamentali costituzionali (– nel novellato ordinamento regionale e locale, come la Corte costituzionale ha sottolineato in modo ricorrente, trovano applicazione i princìpi fondamentali posti a tutela dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica e le relative garanzie costituzionali –), tale disposizione costituzionale trova la sua motivazione nell’esigenza di rendere esplicito che il quadro costituzionale dei princìpi fondamentali non ha registrato modifiche sostanziali in tema di garanzie costituzionali accordate ai principi e ai diritti fondamentali.

Nell’ottica dell’attuazione (sia pure in gran parte mancata) del federalismo fiscale, ed ora del regionalismo differenziato, così, deve sottolinearsi come l’ordinamento costituzionale non possa che far valere i limiti (all’esercizio della potestà legislativa delle Regioni ordinarie e a statuto eventualmente differenziato) – ora pienamente costituzionalizzati nell’art. 117, I co., Cost. – posti dal rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Tanto richiamato, può anche sottolinearsi come le questioni interpretative sollevate dal nuovo testo costituzionale (art. 117, II co., lettera m, Cost.; art. 116, III co., Cost.) concernono non tanto la sola ratio delle richiamate disposizioni quanto piuttosto i relativi contenuti materiali, e quindi la tipologia dei diritti civili e sociali, da garantirsi su tutto il territorio nazionale nei ‘livelli essenziali’ delle relative prestazioni.

La legislazione ‘concorrente’ nelle nuove materie di cui risultano attributarie le Regioni (soprattutto la tutela della salute, l’istruzione, la tutela e la sicurezza del lavoro, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione delle attività culturali), significativamente implementate rispetto al previgente art. 117 Cost., quella derivante da ciò che potremmo chiamare il ‘principio dispositivo all’italiana’ (art. 116, III co., Cost.), e quella infine attribuita residualmente (si pensi, in tal senso, al rilievo centrale nelle politiche pubbliche locali della materia dell’assistenza sociale – diritto fondamentale fin troppo eluso –) dovrà esercitarsi – con le possibili differenziazioni di status delle Regioni medesime – senza mettere in questione lo ‘statuto della cittadinanza’, che dovrà restare ‘nazionale’ e ‘sociale’, assicurando, in tal modo, i livelli essenziali di prestazioni in materia di diritti civili e sociali, nonché l’inderogabilità dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale tra i soggetti e le diverse aree del Paese.

Come è stato ampiamente sottolineato dalla dottrina, il riparto operato dal legislatore di revisione costituzionale appare complesso, confuso e perfino “ingenuo” nella sua “pretesa” di fermare il moto irreversibile degli interessi a base dell’ordinamento. Ancora una volta, così, era all’interprete e al Giudice delle leggi (si ricordi in merito la giurisprudenza sull’attrazione in sussidiarietà, di cui cui alla sent. cost. 303/2003) che occorreva rivolgersi al fine di poter comporre in un quadro di compatibilità costituzionali le opzione differenziate (nel tempo e nello spazio) del legislatore statale e di quello regionale.

Quanto ai contenuti materiali dei livelli essenziali in materia di diritti (soprattutto ma non solo sociali), l’interpretazione dottrinaria dei contenuti materiali dell’art. 117 Cost. in materia di diritti (civili e sociali) rinvia a letture fra loro notevolmente differenziate, a seconda che prevalga o meno un orientamento (culturale e istituzionale) di discontinuità rispetto alla disciplina previgente.

La questione nasce dall’individuazione dei limiti cui risulta sottoposta la potestà legislativa regionale concorrente – alla cui soluzione ha comunque provveduto in modo espresso il legislatore di revisione costituzionale quando ha limitato tale potestà con la determinazione (con legge dello Stato) di ‘princìpi fondamentali’ – ma soprattutto dalla risposta alle questioni circa l’estensibilità o meno di tale regime di vincoli alla stessa potestà legislativa ‘esclusiva’/‘residuale’ delle Regioni nonché, in futuro, ai vincoli delle materie riguardate dalle intese sulle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.

A chi scrive appare pienamente fondato, in tale ottica, quell’orientamento dottrinario che invoca la finalità garantistica di tutela del bene costituzionale dell’‘unità’, ed in particolare la protezione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, a prescindere dai confini territoriali dei governi locali e a prescindere dalle ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’, come titolo di legittimazione della potestà legislativa statale nel motivare l’eventuale intervento, oltre che attraverso ‘princìpi fondamentali’ anche attraverso una specifica disciplina, di natura trasversale, capace di penetrare nell’ambito regolativo della stessa potestà legislativa regionale (oltre che, naturalmente, in quella amministrativa).

Come la Suprema Corte ha di recente sottolineato con riguardo ai (già richiamati) rischi di sovvertimenti istituzionali connessi all’esercizio di referendum consultivi regionali radicalmente incompatibili con i fondamentali principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost., “L’unità della Repubblica è uno di quegli elementi così essenziali dell’ordinamento costituzionale da essere sottratti persino al potere di revisione costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988). Indubbiamente, come riconosciuto anche da questa Corte, l’ordinamento repubblicano è fondato altresì su principi che includono il pluralismo sociale e istituzionale e l’autonomia territoriale, oltre che l’apertura all’integrazione sovranazionale e all’ordinamento internazionale; ma detti principi debbono svilupparsi nella cornice dell’unica Repubblica: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5 Cost.)” (cons. in dir. 7.2, sent cost. n. 118/2015).

Nel nuovo quadro costituzionale (letto anche nella prospettiva odierna di attuazione dell’art. 116, III co., Cost.), così, se per le regioni si aprono nuovi ambiti regolativi e di garanzia in ordine alla materia dei diritti (civili e sociali), al contempo, si conferma per lo Stato la competenza a intervenire in tale disciplina regionale sia attraverso la statuizione di ‘princìpi fondamentali’ della materia che attraverso regole legislative (limitatamente – queste ultime – per le Regioni che non facciano ricorso all’attuazione dell’art. 116, III co., Cost.), gli uni e le altre, in ogni caso, rispettosi dei princìpi fondamentali costituzionali e fra essi in particolare, del principio di uguaglianza e del principio di solidarietà (politica, economica e sociale).

Pur potendo la riforma costituzionale apparire, in tal senso, come operante nel segno di una (sostanziale) continuità, così, l’angolo di osservazione dei diritti civili e sociali dischiude un quadro ordinamentale autonomistico indubbiamente valorizzato nell’ambito dei suoi poteri e fra questi – diversamente da quanto era previsto nel previgente ordinamento – da ambiti normativi che si estendono alla stessa materia dei diritti civili e sociali.

Tuttavia, tali poteri conoscono un limite negativo, nel senso che le regioni, sia nell’esercizio della potestà legislativa concorrente che in quella residuale/esclusiva, sia infine nell’esercizio delle competenze di cui alla procedura di cui all’art. 116, III co. Cost., devono conformarsi – oltre ai principi fondamentali costituzionali e alle relative disposizioni di garanzia degli articolati cataloghi di diritti fondamantali della Carta – ai ‘princìpi fondamentali delle materie’ e alle stesse regole legislative statali poste a garanzia dei beni fondamentali di cui alla lettera m.

Così, può sottolinearsi che, solo nel quadro di una lettura sistematica del rapporto fra forme di decentramento territoriale dei poteri e diritti, il rischio di uno “scivolamento verso il basso” dei contenuti della nuova disciplina delle prestazioni essenziali in materia di diritti civili e sociali, e con esso di un difficile limite da opporre all’“arbitrio delle maggioranze” (parlamentari e regionali) nel tempo, potrebbe, almeno astrattamente, ritenersi scongiurato. Naturalmente – se è consentita una metafora – una simile lettura avviene a finestre chiuse, per evitare i rumori che arrivano dalla piazza!

Ciò può e deve farsi attingendo anche alle più avanzate (e motivate) interpretazioni della Costituzione, magis ut valeant, nonché alla stessa giurisprudenza costituzionale che, nelle tecniche giurisdizionali fin qui utilizzate, ha saputo dare prova di equilibrio (ma anche di prudenza) nel bilanciamento di beni costituzionali di volta in volta coinvolti nel processo costituzionale, comprensivo sia della necessaria gradualità nell’attuazione legislativa, sia dello stesso rispetto della discrezionalità del legislatore. D’altronde, non poteva essere altrimenti nel quadro di uno Stato caratterizzato da una Costituzione rigida, nel quale la materia dei ‘contenuti essenziali’ dei diritti fondamentali si ricollega in modo indissolubile a quella dei “princìpi supremi” e dei “diritti inviolabili”, come la giurisprudenza (soprattutto, ma non solo, nella sent. della Corte cost., n. 1146/1988) e la dottrina costituzionale concordemente assumono quando richiamano la sottrazione della relativa disciplina costituzionale allo stesso potere di revisione costituzionale. A fortiori, al legislatore regionale (ordinario, speciale e differenziato)!

 

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