Analisi & Commenti

Quattro quesiti referendari contro la legge 107 e la “cattiva scuola”

 

 

 

 

 

La straordinaria mobilitazione della scorsa primavera ha espresso forse la più forte conflittualità contro le politiche neoliberiste del governo Renzi, con il 70% di scioperanti il 5 maggio, il boicottaggio del 25% dei quiz Invalsi e lo sciopero degli scrutini. L’obiettivo centrale era il ritiro del ddl sulla Buona Scuola, in quanto inemendabile, e lo stralcio delle assunzioni dei precari con un decreto legge.

Ma nell’elaborazione dei quesiti referendari siamo partiti dal presupposto che non era possibile chiedere l’abrogazione dell’intera legge perché la Corte avrebbe sicuramente giudicato inammissibile il quesito, in quanto non omogeneo e non univoco, perché la 107 regolamenta materie diverse tra di loro e l’elettore poteva essere d’accordo per l’abrogazione, per es., del premio di merito, ma contrario all’abrogazione dell’obbligo della formazione: la sua libertà di voto sarebbe stata coartata, dovendo esprimersi con un Si o con un No su entrambe le questioni contemporaneamente. Inoltre, sarebbe stato politicamente assurdo chiedere anche l’abrogazione delle assunzioni! Si trattava, quindi, di scegliere un numero limitato di quesiti che, considerati unitariamente, lanciassero un chiaro messaggio politico di critica radicale al modello di scuola della 107: aziendalizzazione della scuola pubblica, gerarchizzazione, competizione individuale tra i docenti, subordinazione della didattica agli interessi imprenditoriali e concorrenza tra le scuole alla ricerca di finanziamenti con modalità privatistiche. I primi due quesiti sono tesi ad abrogare i due più importanti super poteri dell’Uomo solo al comando: la chiamata nominativa dei docenti da parte del DS per incarichi solo triennali anche non rinnovabili; il premio del c.d. merito individuale, Nel primo caso la 107 assegna al DS il potere discrezionale di scegliersi i docenti della sua scuola, creando per i neo assunti, ma a regime anche per tutti i soprannumerari e i docenti che fanno domanda di trasferimento, una situazione che con un ossimoro potremmo definire da “precari di ruolo”. La non rinnovabilità dell’incarico mette i docenti in una condizione di continua ricattabilità sia nell’ambito degli organi collegiali, sia nella gestione concreta del lavoro in classe. Con l’abrogazione, la norma di risulta prevede che sia l’ USR a provvedere “al conferimento degli incarichi ai docenti” con le modalità consuete, basati su criteri oggettivi e predeterminati.

Il secondo quesito è incentrato sull’abrogazione del premio di merito e del potere del DS di assegnarlo valutando il lavoro in classe dei docenti (e i relativi risultati) e di tutto quello che ne consegue. Quindi, si chiede l’abrogazione della competenza del Comitato di valutazione di individuare i criteri per la valutazione del merito e, di conseguenza, della presenza nel Comitato stesso di quelle componenti che erano previste nella 107 solo per quella competenza: studenti, genitori e esperto esterno (di fatto un altro DS). Così, il Comitato tornerebbe alla composizione e alle competenze previste dal TU: docenti scelti dagli organi collegiali e DS che esprimono un parere sull’esito del periodo di prova dei neo assunti.

Resterebbe in vigore lo stanziamento del fondo di 200 milioni all’anno e la natura di salario accessorio della relativa erogazione, ma abrogando la destinazione alla valorizzazione del merito. In tal modo, anche per effetto dell’articolo 31 del CCNL, la norma di risulta non sarebbe contraddittoria perché resterebbe normato l’utilizzo del fondo tramite il rinvio alla contrattazione integrativa nazionale. La destinazione sarebbe tesa alla valorizzazione del personale docente anche precario, senza alcun riferimento al merito: se ci riuscissimo con la mobilitazione potremmo ottenere anche un aumento in paga base uguale per tutti, vista la perdita del 30% del potere d’acquisto dei ns salari dal 1990 ad oggi. D’altronde, abrogare anche lo stanziamento del fondo avrebbe comportato alti rischi di inammissibilità perché lo stanziamento è previsto anche dalla legge di bilancio che non può essere oggetto di referendum ex art. 75 2° c. Cost.

Dovremo condurre un’efficace battaglia politico culturale per far capire che i primi due quesiti non sono referendum corporativi “per i docenti”, ma per il modello di scuola previsto dalla Costituzione. Non è che tra i docenti non esistano differenze anche qualitative (come tra tutti gli esseri umani), ma il problema è: la scuola ha bisogno di competizione individuale o di collegialità e cooperazione effettive? Inoltre, nello scenario peggiore di applicazione della chiamata nominativa e della valutazione del merito avremmo la prevalenza di fattori lobbystici e/o personalistici, se non addirittura da servilismo e clientelismo. Ma anche ipotizzando che il DS riesca a scegliere veramente i più bravi avremmo un peggioramento qualitativo. È prassi costante che nella scuola pubblica vi siano diverse idee sulla programmazione didattica, sull’articolazione dei contenuti, sulle diverse teorie o scuole di pensiero nell’ambito dei vari saperi disciplinari, sul bisogno di semplificare l’approccio o di abituare alla complessità, sul ragionare per modelli, magari alternativi tra di loro, sull’approccio induttivo o deduttivo, sui criteri di valutazione. Se il DS – che presiede gli scrutini, il Collegio ed è membro del Consiglio d’istituto – deve giudicare il lavoro di un docente è perlomeno possibile, se non probabile, che una buona parte dei docenti assimilerà le idee, i criteri di valutazione di chi dovrà giudicarli! Pensiamo, per esempio, al dibattito su darwinismo e creazionismo oppure alla contrapposizione tra classici, marxisti, liberisti e keynesiani in Economia politica. È chiaro che l’effetto sarebbe una drastica riduzione del pluralismo, della libertà di insegnamento e della democrazia collegiale! Ma la Costituzione ha dato centralità alla scuola pubblica perché essa garantisca il pluralismo, perché lo studente nel corso dei vari anni possa venire a contatto con diverse visioni dei vari saperi disciplinari, al contrario di quello che accade nelle scuole di tendenza o peggio ancora nelle scuole di mercato, che soddisfano i bisogni dei clienti vendendo titoli di studio e non istruzione.

Gli ultimi due quesiti attengono al rapporto con il mondo delle imprese. Il terzo richiede l’abrogazione dell’obbligo di almeno 400 ore nel triennio di alternanza scuola lavoro per i tecnici e professionali e di almeno 200 ore per i licei. La formazione aziendale comporta il rischio della subordinazione degli obiettivi didattici e culturali della scuola pubblica agli interessi imprenditoriali. È chiaro che gli studenti devono essere in grado di inserirsi nel mondo del lavoro, ma forniti di strumenti cognitivi che li mettano in grado di capire in quale contesto si collocano, per chi si produce, per quali scopi, in quale modo. Invece, la formazione aziendale si caratterizza nel migliore dei casi per l’apprendimento rapido di nozioni o saper fare decontestualizzati, da smettere rapidamente per acquisire altri saperi e saper fare analoghi, come è tipico di una forza lavoro flessibile e precaria. Poi, nel peggiore e più diffuso dei casi, essa è lavoro gratuito (come già succede spesso con gli stage aziendali dei tecnici e dei professionali) o sottopagato come accade per la sperimentazione dell’apprendistato (gli apprendisti sono sotto inquadrati di due livelli).

Ma un’abrogazione di tutta la normativa sull’ASL avrebbe comportato alti rischi di inammissibilità e significativi problemi di consenso politico. Per cui, abbiamo scelto di focalizzare l’abrogazione solo sull’assurdo obbligo di un monte orario così impegnativo che rende impossibile anche la selezione di quei soggetti che garantiscono una formazione organica con il lavoro in classe. In tal modo non avremmo una drastica riduzione delle ore di lezione e soprattutto l’ASL verrebbe più facilmente ricondotta ad un’attività complementare e non sostitutiva dell’attività curriculare di insegnamento.  

Il quarto quesito riguarda le erogazioni liberali alle singole scuole sia pubbliche che paritarie, per le quali la 107 prevede una consistente incentivazione fiscale con un credito di imposta del 65% nel 2015 e 16 e del 50% nel 2017. Con una sapiente operazione di taglio e cucito resta in vigore il credito d’imposta che è materia fiscale che non può esser oggetto di referendum, ma viene abrogato la destinazione alle singole scuole, per cui la donazione andrebbe al sistema nazionale di istruzione, che poi li assegna alle scuole secondo i criteri generali di ripartizione, ma senza la scelta della scuola da parte del donatore. Quindi, verrebbe meno una modalità privatistica di finanziamento per cui le scuole sarebbero in competizione tra loro per accaparrarsi finanziamenti sul mercato, anche da parte di imprese, con le conseguenze didattiche immaginabili nella logica di mercato del do ut des. Non avremmo, inoltre, scuole di serie A di serie B in base alla provenienza socio economica degli studenti. Ma soprattutto non scatterebbe un vero e proprio favore per le scuole private che potrebbero usare meccanismi elusivi facendo risultare come donazioni una parte delle spese di iscrizione. Infatti, se per es. la spesa effettiva fosse di 5.000 € si potrebbe farne risultare come tale solo 2100, in modo da sfruttare al massimo la detrazione di imposta del 19% di 400 €, e far risultare i 2900 € residui come donazione con un risparmio fiscale di 1885 €. Il risultato sarebbe un risparmio fiscale complessivo di 2.285 €, per cui la famiglia che iscrive il figlio alle paritarie pagherebbe di fatto solo 2715 €: quasi la metà delle effettive spese di iscrizione sarebbe pagata dallo Stato, cioè da tutti i contribuenti!                                                  

 Rino Capasso

 

 

 

 

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