di Polibio
“Insegnanti-deportati” e “presidi-sceriffo”: i sostantivi “deportati” e “sceriffo”, che si trovano nei vocabolari della lingua italiana, sono sempre collegati a sofferenze e a prepotenze.
Ovviamente, riferendosi a “deportati” o a “deportazione”, il pensiero corre soprattutto a quelle gravissime subite da decine di milioni di uomini, donne e bambini, morti in guerra, nei campi di battaglia, nei centri urbani, nei campi di concentramento dove erano prigionieri, nei lager e nelle camere a gas dove gli ebrei venivano massacrati e uccisi, durante gli anni terribili della Seconda guerra mondiale. Il dolore e il pianto per quelle ingiuste perdite è nel cuore e nella mente delle generazioni esistenti alla fine della guerra e di quelle che da allora giungono ai nostri giorni. A scuola, i docenti, e non soltanto quelli delle discipline umanistiche, sono coloro che per primi trasmettono alle giovani generazioni la puntuale conoscenza di quel disastro bellico, di quelle decine di milioni di perdite umane, di che cosa è stata quella “deportazione”.
Nel ventunesimo secolo, il sostantivo “deportati” si riferisce a coloro che per trovare lavoro sono costretti – anche perché chi doveva provvedere a rimuovere gli ostacoli per dare opportunità di lavoro nei comuni di nascita e di residenza non ha affatto provveduto – a recarsi altrove, restando in Italia, in altre regioni, molto lontane da quella dalla quale comincia la “deportazione”. Non è oggi affatto sbagliato, e non è affatto grave, usare l’espressione “deportati” riferendosi agli insegnanti che per lavorare nella scuola sono stati e sono costretti a trasferirsi a parecchie centinaia di chilometri dal comune di una delle regioni meridionali o insulari al comune di una delle regioni dell’Italia settentrionale o, se “fortunati”, dell’Italia centrale, lasciando marito o moglie e figli pur di guadagnare uno stipendio che non è sufficiente a coprire le spese di una persona per l’affitto di un piccolo appartamento, o per le notti in albergo, per l’alimentazione e per ritornare di tanto in tanto, e permanervi soltanto per qualche giorno, nel comune d’origine. Sì, si tratta di docenti “deportati”; “deportati” addirittura a proprie spese di trasporto (nave, treno, aereo, autobus, automobile lungo le autostrade, traghetto). “Deportati”, adesso, anche a causa di una pessima riforma della scuola, riforma da rottamare al più presto dopo tre anni di sofferenze individuali patite da decine di migliaia di docenti, di mancette e di elemosine, in ultimo di irregolarità nelle chiamate dirette dei presidi (c’è stato anche chi ha preteso dalle docenti l’invio di una foto personale, età, ecc.). Sofferenze che si sono alquanto aggiunte a quelle dei quattro anni precedenti (cioè, da quando i docenti e gli ata subiscono perdite di posti, in organi di diritto e in organico di fatto, e ormai diventate parecchio rilevanti anche a causa del blocco degli stipendi, con perdita complessiva di 28 miliardi di euro a cui si aggiunge quella individuale di quest’anno, compresa fra 2.000 e 3.250 euro, con conseguenze negative sui contributi ai fini pensionistici, sull’indennità di fine lavoro e sulla pensione).
Non è affatto grave usare l’espressione “deportati”, perché il sostantivo “deportazione” è “trasferimento” e il contrario è “rimpatrio”; il verbo “deportare” è “trasferire” e il contrario è “richiamare”. Per tutti i docenti “deportati” è necessario il “rimpatrio”, il “richiamo” nei comuni dai quali sono stati obbligati a “trasferirsi”. La “deportazione” dei docenti è figlia illegittima del disordine organizzativo del sistema scolastico, delle macroscopiche disparità tra le regioni dell’Italia settentrionale e quelle dell’Italia meridionale e insulare, ma anche di buona parte di quelle dell’Italia centrale, nelle quali la parità del diritto all’istruzione, garantita dalla Costituzione, è offesa dalla limitatissima percentuale di scuole con attività didattica a tempo prolungato o tempo pieno. E da qui la “deportazione” degli insegnanti nelle regioni, settentrionali soprattutto, dove la percentuale delle scuole con tempo pieno e con tempo prolungato è alquanto elevata. Gli insegnanti che usano il sostantivo “deportati”, riferendosi a loro stessi, e quelli che lo usano riferendosi ai colleghi “deportati” sono assolutamente degni di educare, continueranno a farlo, come ha dichiarato per se stesso il professore Luca Cangemi, responsabile scuola del PCI, che ha aggiunto: “la 107 ha rappresentato per la scuola italiana un disastro come riconoscono in molti che l’hanno voluta. Essa ha comportato un carico d’ingiustizie e umiliazioni che meritano parole assai più aspre di quelle censurate dal ministro. Noi continueremo la denuncia di questa realtà e la lotta contro di essa” (così nell’articolo di Andrea Carlino, postato da Vincenzo Pascuzzi, il 2 marzo2017, su Aetnascuola, preceduto dall’articolo di Alessandro Giuliani, “Fedeli: non degni di educare i prof che parlano di docenti deportati e presidi sceriffo”, pubblicato il 28 febbraio 2017 su La Tecnica della scuola). La scuola deve essere parecchio migliorata nell’intero Paese, in tutte le regioni e in tutti i comuni. Tenendo presente che nell’ultimo decennio le condizioni sono peggiorate, che il numero degli alunni in ciascuna classe è aumentato, che il numero dei docenti è diminuito, che deve essere data maggiore attenzione e assistenza scolastica, oltre che domiciliare, agli alunni diversamente abili, e che è necessario fare attenzione al fenomeno dell’evasione dell’obbligo scolastico che da qualche tempo, di fronte alla crescente disoccupazione giovanile, è in rilevante crescita in molte regioni.
Non è affatto grave usare l’espressione “preside sceriffo” nei confronti di chi si comporta da “sceriffo”, perché il sostantivo “sceriffo” (negli Stati Uniti “sceriffo” è “capo della polizia”) in italiano è, oltre che “capo della Polizia”, per estensione “gorilla” o, figuratamene, “guardaspalle” e “sorvegliante”. Vedere, di Giuseppe Pittàno, “Sinonimi e contrari, Dizionario fraseologico delle parole equivalenti, analoghe e contrarie”. Negli istituti scolastici, il preside non deve comportarsi da “sceriffo”; deve svolgere la funzione di organizzatore dell’attività didattica e, col direttore dei servizi generali e amministrativi, quella di dipendente dello Stato attento, assumendone la responsabilità, agli aspetti particolari e complessivi che caratterizzano le necessità per una gestione produttiva della scuola. A partire dalla sicurezza, questione che è ampiamente dibattuta e risaputa, e sulla quale tuttavia non si interviene (e questo sì che è grave, anzi gravissimo, soprattutto per chi non ha provveduto a denunciare alle autorità competenti le illegittime omissioni), quante e quali sono le scuole che necessitano di interventi addirittura anche urgentissimi e alquanto rilevanti. Il preside non può essere uno “sceriffo”, non può essere un “padrone”. Purtroppo ci sono quelli che si comportano da “sceriffo” o che si comportano da “padroni”. Da presidi-padroni che non rispettano i diritti dei docenti e del personale ATA; da presidi-sceriffo che arbitrariamente “rivendicano” pieni poteri, che violano il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto scuola e che vogliono addirittura avere il potere assoluto addirittura di licenziare, da incompetenti sul piano giuridico, i docenti, il DSGA e gli ATA. Un “potere” che non può essere concesso al “preside-sceriffo”, anche facendo riferimento alle tante cause perse, per comportamenti in violazione di norme di legge e di contratto collettivo nazionale di lavoro, senza pagare un centesimo di quanto è costato allo Stato, e quindi ai contribuenti.
Comportamenti da “padrone” o da “sceriffo” da parte di taluni presidi (o DS) sono documentabili e di facile ricerca, ma non si può non evidenziare che sono molti i presidi attenti e corretti che meritano rispetto.
Polibio, polibio.polibio@hotmail.it