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Lezioni dalla cattedra e dal banco: La pedagogia rivoluzionaria di Daniel Pennac

Dal suo capolavoro "Diario di Scuola", le intuizioni che ci spingono a ripensare radicalmente il significato di insuccesso, paura e vero senso dell'insegnare

di GIANLUCA PASQUALE TODISCO*. 

L’esperienza scolastica è un palcoscenico universale dove, fin dall’infanzia, veniamo definiti e spesso imprigionati in etichette rigide. Da qui emerge la voce controcorrente di Daniel Pennac, scrittore e insegnante, la cui doppia esperienza, come “somaro” e poi come professore anticonformista, gli ha permesso di guardare al mondo della scuola con una lucidità disarmante. Nel suo capolavoro, “Diario di scuola“, Pennac non offre semplici consigli, ma intuizioni che ci spingono a ripensare radicalmente il significato di insuccesso, paura e del vero senso dell’insegnare.

Pennac rovescia la concezione dello studente in difficoltà, sostenendo che non è un contenitore vuoto da riempire di nozioni, ma un essere sovraccarico, una “cipolla” avvolta da strati di problemi familiari, paure e rancori. L’alunno porta a scuola non solo il suo corpo in crescita, ma l’intera sua realtà interiore nello zaino. Pertanto, il primo e vero compito dell’insegnante non è “riempire” ma creare un momento di tregua, uno spazio sicuro dove lo studente possa posare il suo fardello e iniziare a “pelare la cipolla”. Solo liberando l’alunno da questi strati di angoscia, la lezione può davvero avere inizio, spostando il focus da un presunto deficit intellettuale a una complessa realtà emotiva che deve essere riconosciuta e superata.

In questa visione, insegnare non si riduce a un’espressione d’affetto, ma diventa un atto di “rianimazione”. Pennac paragona lo studente in crisi a una “rondine tramortita”: il ruolo dell’insegnante non è chiedersi se la rondine sia simpatica, ma agire con urgenza, con un impegno profondo e imparziale, per aiutarla a riprendere il volo. Questo è il vero significato dell’amore pedagogico. Pur riconoscendo con realismo che non tutti gli studenti possono essere salvati, Pennac afferma che questa consapevolezza rafforza l’urgenza dell’intervento, rendendo ogni salvataggio un successo prezioso.

La profonda differenza tra studenti che riescono e quelli che falliscono, secondo Pennac, risiede nella capacità di abitare il presente. Lo studente di successo vive pienamente il “presente d’incarnazione” della lezione, diventando un “piccolo matematico” durante l’ora di matematica e un “piccolo storico” in quella di storia. Al contrario, lo studente in difficoltà non è mai veramente presente; la sua mente è un campo di battaglia tra le ansie per i fallimenti passati e paure future. Il compito essenziale dell’insegnante è, quindi, ancorare l’alunno all'”indicativo presente” della spiegazione, offrendo una tregua dalle sue angosce per permettere alla conoscenza di attecchire.

Infine, Pennac analizza un fenomeno comune: la menzogna a scuola, che non è un vizio, ma una disperata strategia di sopravvivenza. Lo studente in difficoltà mente per “mettere un po’ di coerenza nella sua vita”, e così si crea un ecosistema di piccole bugie condivise da studenti, genitori e insegnanti. Questo accordo tacito, fatto di piccole menzogne, finisce per dare origine a un’unica grande verità: quella del fallimento scolastico, che diventa ufficiale solo con la pagella. Questo meccanismo, invece di risolvere il problema, lo nasconde e lo consolida.

Le riflessioni di Pennac ci offrono una profonda immersione nella condizione umana e nella solitudine di chi si sente escluso. Ci mostrano che dietro ogni etichetta c’è una persona che attende non un giudizio, ma un intervento che la salvi.

* Professore a contratto Università di Salerno

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