di Daniela Del Boca e Silvia Pasqua
tratto dal sito www.lavoce.info
Il Parlamento europeo ha approvato una proposta sui congedi di maternità. Tre gli obiettivi: portare a 20 settimane il congedo pienamente retribuito; proteggere le donne dal licenziamento e garantire anche ai padri almeno due settimane di congedo. L’Italia riconosce già i primi due punti, con scarsi effetti sulle scelte di lavoro e fecondità. Perché contano di più un adeguato sistema di servizi e agevolazioni fiscali alle famiglie con figli. Il congedo obbligatorio per i padri invece può rappresentare un segnale per smuovere una cultura di disuguaglianza nella distribuzione delle responsabilità familiari e sul posto di lavoro.
La proposta legislativa sui congedi di maternità approvata nei giorni scorsi dal Parlamento europeo ha tre obiettivi principali.
TRE OBIETTIVI PER LA TUTELA DELLA MATERNITÀ
Il primo obiettivo è quello di migliorare le condizioni delle lavoratrici incinte, aumentando per le madri le settimane minime di congedo di maternità pienamente retribuite da quattordici a venti. Questa parte della proposta non cambia molto la situazione delle mamme in Italia dove le venti settimane di congedo sono già un diritto acquisito. L’unica differenza sta nel rendere omogeneo tra tutte le categorie l’indennità al 100 per cento della retribuzione, mentre attualmente il contributo è limitato all’80 per cento per alcuni contratti (legge n. 53 dell’8 marzo 2000 e il successivo decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001). Per le mamme in Germania, Francia e Gran Bretagna, che hanno congedi di maternità meno lunghi e con copertura inferiore, la situazione invece cambierà in modo significativo con vantaggi per le famiglie, ma anche costi a carico del welfare. I governi hanno infatti espresso forti riserve a causa dell’aumento dei costi per le finanze pubbliche in un momento in cui si introducono tagli non indifferenti ai sussidi alle famiglie.
Il secondo obiettivo è quello di proteggere le donne dal licenziamento introducendo il divieto di licenziare le lavoratrici per un periodo minimo che va dall’inizio della gravidanza ad almeno sei mesi dopo il termine del congedo di maternità. Anche in questo campo, per l’Italia non cambia molto dal momento che la legislazione italiana del lavoro vieta già il licenziamento fino a che il bambino non abbia compiuto un anno di vita.
Il terzo obiettivo è quello di introdurre il contributo del padre del neonato a pieno titolo per “almeno due settimane” nel periodo obbligatorio delle venti settimane del congedo della madre, anche se l’unione non è formalizzata dal matrimonio. È l’unica grossa novità per l’Italia, in quanto si tratta di prevedere un periodo di almeno due settimane di congedo obbligatorio per i padri, pienamente retribuito e non cedibile alla madre. In Italia già dal 2000 il padre, anche se non coniugato con la madre, ha la facoltà di prendere tre giorni di congedo alla nascita del figlio e successivamente alcuni mesi al 30 per cento del salario, anche durante il periodo di congedo obbligatorio della madre. La retribuzione per il padre in congedo è pari al 100 per cento solo per i dipendenti pubblici e solo per il primo mese. (1)
EFFETTI POSSIBILI
La proposta legislativa del Parlamento europeo si basa sull’idea che un adeguato congedo parentale porti vantaggi economici,favorendo la crescita dell’occupazione delle donne e della fecondità.
Per capire come la generosità dei congedi parentali influenzi le scelte di lavoro e di fecondità, è utile guardare ai paesi dove la proposta che arriva oggi dall’Europa è già stata messa in atto, almeno per quanto riguarda le prime due parti: lunghezza del congedo di maternità e protezione dal licenziamento. In Italia, nonostante norme generose e protettive, in tutto l’ultimo decennio l’offerta di lavoro femminile è stata stagnante (45-46 per cento) ed è addirittura diminuita nell’ultimo anno e il tasso di fecondità è cresciuto di poco (1,3-1,4 figli per donna).
In Gran Bretagna e in Francia, invece, nonostante i periodi più brevi e la minor copertura dei congedi di maternità, i tassi di partecipazione al mercato del lavoro delle donne con figli superano il 60 per cento. Non solo, il numero di figli per donna in Francia ha toccato il valore di 2, e la Gran Bretagna la sta raggiungendo. Come spiegare l’apparente contraddizione? Negli ultimi dieci-quindici anni in paesi come la Gran Bretagna e più ancora la Francia ciò che ha funzionato è un sistema di servizi e agevolazioni fiscali alle famiglie con figli in presenza di maggiori opportunità di lavoro per le donne. Secondo nostre stime, un incremento della durata del congedo parentale porterebbe, sì, a un aumento della probabilità di lavorare, ma solo per un periodo limitato e solo per le donne più istruite. (2) Non avrebbe invece quasi nessun effetto per le donne meno istruite, che possono verosimilmente usufruire meno del congedo parentale sia perché è pagato solo al 30 per cento del salario (la tendenza ad anticipare il rientro al lavoro è tipica delle madri del Mezzogiorno e con bassa istruzione), sia perché non è disponibile per tutti i tipi di contratti: generalmente per il lavoro autonomo e parasubordinato non è previsto congedo oltre quello obbligatorio.
Quanto alla protezione dal licenziamento, come emerge sia dai rapporti sindacali che da indagini locali, un numero elevato di donne è costretto a esibire il test di gravidanza nei colloqui di selezione o a firmare lettere di dimissioni prima ancora dell’assunzione, lettere che verranno usate dal datore di lavoro in caso di maternità. Anche la recente indagine Istat-Cnel Maternità e lavoro femminile, conferma questi dati: su un campione di 50mila donne occupate e in stato di gravidanza, dopo la nascita del figlio il 20 per cento non è più occupato. Di queste, il 7 per cento è stata licenziata, il 24 per cento ha dovuto smettere per contratto scaduto o per cessata attività del datore di lavoro, mentre il 69 per cento si è licenziata (almeno in parte volontariamente).
IL CONGEDO PER I PADRI
Sui possibili effetti dell’elemento nuovo per l’Italia del congedo “europeo”, cioè il congedo obbligatorio per i padri, può essere utile guardare ai risultati degli studi dell’Osservatorio nazionale delle famiglie che hanno monitorato l’utilizzo del congedo parentale dopo la legge 53/2000. Secondo questi dati, l’incremento nell’utilizzo del congedo parentale da parte dei padri è ancora molto limitato. (3) Negli ultimi anni ne ha usufruito solo il 24 per cento delle madri che lavorano e solo il 7 per cento degli uomini aventi diritto. (4) La ragione addotta dai padri secondo i dati Eurobarometro è di natura economica: la perdita di salario sarebbe troppo grande e preoccupano le possibili ripercussioni sulla carriera. Ma c’è anche una componete culturale: paura cioè di uno stigma sul posto di lavoro.
Dunque, il congedo obbligatorio di due settimane ai padri, anche se è un intervento limitato, può rappresentare per l’Italia un segnale simbolico importante per smuovere una cultura radicata di ineguaglianza nella distribuzione del lavoro e delle responsabilità familiari, ma anche di ineguaglianze sul posto di lavoro.
Senza aspettarsi effetti di breve periodo, la proposta di un congedo obbligatorio per i padri può essere una strada da seguire, ma l’obiettivo finale deve rimanere la possibilità di congedi parentali più condivisi tra i genitori, consentendo per esempio un congedo part-time a entrambi i genitori che consentirebbe a entrambi di non allontanarsi troppo a lungo dal mercato del lavoro con la conseguente perdita di conoscenze e gli inevitabili effetti negativi sulla carriera. Effetti questi che molte donne con figli già sperimentano.
(1) Al padre compete un periodo facoltativo continuativo o frazionato non superiore ai 6 mesi elevabile a 7 se questi fruisce del congedo parentale per almeno 3 mesi. L’opportunità di poter usufruire di un mese in più di congedo ha la precisa finalità di incentivare il lavoratore padre a usufruire del congedo parentale.
(2)Del Boca, D., Pasqua S. e Pronzato C.(2009) “Motherhood and Employment in Institutional Contexts: an European Perspective”, Oxford Economic Papers April.
(3) Gavio F. e Lelleri R. (2006), “La fruizione dei congedi parentali in Italia nella pubblica amministrazione, nel settore privato e nel terzo settore. Monitoraggio dell’applicazione della legge n. 53/2000”. Osservatorio nazionale delle famiglie.
(4) Istat “Conciliare lavoro e famiglia”, Argomenti n. 33, 2008.