Estratto dalla sintesi del Rapporto Istat su La situazione del Paese nel 2009, Roma, 2010
Com’è noto, i livelli di istruzione della popolazione sono bassi: il 46,1 per cento della popolazione adulta (25-64 anni) ha conseguito al più la licenza media: il corrispondente dato europeo è del 28,5 per cento. La tendenza è verso un lento progresso, soprattutto per la scuola superiore, da ascrivere principalmente alla componente femminile: su cento 19 enni, 74 hanno conseguito nell’anno scolastico 2007/2008 un titolo di studio secondario superiore, circa 36 in più rispetto a trenta anni prima.
Nell’anno scolastico 2008/2009, però, il 7,7 per cento degli iscritti alla scuola superiore ha ripetuto l’anno di corso (10,3 per cento per gli iscritti al primo anno), mentre il 12,2 per cento del totale degli iscritti al primo anno ha abbandonato il percorso d’istruzione, non iscrivendosi all’anno successivo; un ulteriore 3,4 per cento lo ha fatto alla fine del secondo anno. L’Italia si distingue negativamente nel contesto europeo anche per la quota di early school leavers, cioè i giovani di 18-24 anni che hanno abbandonato gli studi senza aver conseguito un diploma di scuola superiore: sono il 19,2 per cento nel 2009, oltre quattro punti percentuali in più della media europea e nove punti al di sopra dell’obiettivo fissato dalla Strategia di Lisbona e riproposto da Europa 2020.
Una delle ragioni della lenta riduzione di questo divario è la scarsa partecipazione all’istruzione secondaria e terziaria da parte della popolazione di estrazione sociale più bassa. Se, infatti, le diseguaglianze nelle opportunità sono state annullate per quanto riguarda il raggiungimento dell’obbligo scolastico, rimangono consistenti sia per il conseguimento del diploma superiore sia per quello della laurea. Ad esempio, nel 2008 il 63 per cento dei diplomati ha proseguito gli studi, iscrivendosi a un corso universitario: il tasso di passaggio dei diplomati liceali è superiore al 95 per cento, mentre si riduce a meno di un terzo per gli studenti con diploma professionale.
Nel corso dei primi anni Duemila, con l’avvio della riforma dei cicli universitari, le immatricolazioni all’università sono tornate a crescere dopo un decennio di sostanziale stagnazione. Con la riforma si sono anche ridotti gli abbandoni degli studi (mancate reiscrizioni tra il primo e il secondo anno), con una discesa del relativo indicatore dal 21,3 per cento nell’anno accademico 1999/2000 al 17,6 per cento in quello 2007/2008. Anche i tassi di conseguimento delle lauree sono cresciuti con l’introduzione del nuovo ordinamento: per i titoli triennali e a ciclo unico, su cento 25enni nel 2008 si contano 34,3 laureati: erano 19,8 nel 2000. Il tasso di conseguimento delle lauree di durata da quattro a sei anni e delle lauree specialistiche biennali è invece pari al 18,2 per cento.
Nel 2009, in termini di stock, i laureati sono solo il 21,6 per cento dei giovani tra i 25 e i 29 anni, valore piuttosto lontano dalla quota del 40 per cento proposta da Europa 2020.
L’Italia registra anche uno dei tassi di partecipazione alla formazione continua degli adulti tra i più bassi in Europa: nel corso del 2005 soltanto il 22,2 per cento dei 25-64enni ha effettuato almeno un’attività di studio e/o di formazione, contro una media europea del 36 per cento. La carenza di formazione colpisce soprattutto i disoccupati (16,9 per cento), gli inattivi (11,4 per cento), le persone delle classi di età più avanzate (11,8 per cento tra i 55-64enni) e i possessori di basso titolo di studio (8,2 per cento), alimentando un circolo vizioso: infatti, chi è già svantaggiato dal punto di vista dell’istruzione scolastica non recupera il divario, che anzi si aggrava a causa di un minore accesso alla formazione continua.
Le performance del sistema di istruzione e formazione si riflettono sulle competenze e conoscenze acquisite da giovani e adulti. I risultati dell’indagine Pisa (Programme for International Student Assessment) promossa dall’Ocse mostrano livelli preoccupanti di competenza degli studenti italiani 15enni per tutte le dimensioni considerate (lettura, matematica e scienze) e collocano il nostro Paese sempre al di sotto dei valori medi dei 30 paesi Ocse. In particolare, per le competenze in lettura, il punteggio medio degli studenti italiani è molto inferiore alla media internazionale (469 punti contro 492). La quota di studenti italiani che registrano competenze nei due livelli inferiori era nel 2006 pari al 26,4 per cento, ben lontano dall’obiettivo derivato dalla Strategia di Lisbona (per l’Italia, il 15,1 per cento); per di più, tra 2000 e 2006 si è registrato un peggioramento dei risultati.
La distanza rispetto agli altri paesi sviluppati si evidenzia anche nelle difficoltà di utilizzo delle nuove tecnologie. Poco meno del 20 per cento dei ragazzi da 6 a 17 anni figli di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti non usa il personal computer: tale percentuale sale al 35 per cento per i figli di operai. I ragazzi delle classi sociali più basse non hanno il pc in casa e non trovano nella scuola un adeguato riequilibrio delle opportunità.
Se poi si estende lo sguardo alla popolazione adulta, il quadro è ancora più allarmante: i livelli di competenza degli adulti italiani rilevati in un’apposita indagine Ocse (Adult Literacy and Life Skills Survey) risultano tra i più bassi. Nel 2003 quasi la metà delle persone tra i 16 e i 65 anni ha conseguito il punteggio più basso nelle capacità letterarie e oltre il 70 per cento presentava anche bassi livelli di competenza numerica e documentaria. Peraltro, e diversamente da altri paesi, i livelli di competenza risultano poco correlati al numero di anni di studio, il che conferma le gravi debolezze del sistema formativo italiano.
La difficoltà a trasferire ai giovani conoscenze e competenze fa sì che il titolo conseguito spesso non corrisponda al tipo di lavoro richiesto dalle imprese, il che penalizza coloro che hanno acquisito elevate conoscenze e buone capacità, portati ad accettare professioni e inquadramenti al di sotto del titolo di studio posseduto. Sussiste, cioè, un ampio bacino di offerta di forza lavoro con un livello di istruzione non pienamente utilizzato.
In questo ambito è possibile distinguere due gruppi di sottoinquadrati:
1) Il primo riguarda oltre due milioni di occupati con un’età compresa tra 15 e 34 anni (200 mila in più che nel 2004), con un livello di istruzione medio-alto, passati da poco dall’istruzione al mondo del lavoro, spesso con un contratto a termine. L’alta incidenza di giovani sottoinquadrati nel lavoro a termine, nel lavoro part time e nelle collaborazioni mostra come al disagio per un lavoro precario e incerto si sommi una qualitàdel lavoro più bassa e meno adeguata alle aspettative.
2) Il secondo gruppo è costituito dai sottoinquadrati di almeno 35 anni: sono 2,6 milioni di persone (950 mila in più che nel 2004), ormai inserite nel mercato del lavoro da molti anni, in forte maggioranza uomini, con scarse possibilità di migliorare la propria condizione lavorativa. Complessivamente, le persone sottoinquadrate sono 4,6 milioni, il che configura un grave spreco di risorse umane, cui corrisponde una remunerazione decisamente più bassa rispetto a quella potenziale.
Nel 2009, poco più di due milioni di giovani (il 21,2 per cento della popolazione tra i 15 e i 29 anni) non lavora e non frequenta nessun corso di studi (Not in education, employment or training, Neet). L’Italia ha il primato europeo per quanto riguarda il numero di giovani Neet, i quali sono soprattutto coinvolti nell’area dell’inattività (65,8 per cento).
A causa della crisi il numero di Neet è cresciuto molto nel 2009: nel complesso, 126 mila giovani in più, concentrati al Nord (+85 mila) e al Centro (+27 mila), ancorché la stragrande maggioranza dei Neet (oltre un milione) sia residente nel Mezzogiorno. In particolare, sono i giovani che perdono il lavoro che vanno a ingrossare le file dei Neet, rendendo questo insieme di persone a forte rischio di esclusione sociale.
Infatti, quanto più si protrae la permanenza in questo stato, tanto più difficile si dimostra il successivo inserimento nel mercato del lavoro o nel sistema formativo.
Tra il primo trimestre del 2008 e il corrispondente periodo del 2009 la probabilità di permanere nella condizione di Neet è stata del 73,3 per cento (l’anno precedente era il 68,6 per cento), con valori più elevati per i maschi e per i residenti al Nord.
Alla più elevata permanenza nello stato di Neet si accompagna anche un incremento del flusso in entrata in questa condizione degli studenti non occupati (dal 19,9 al 21,4 per cento) e una diminuzione delle uscite verso l’occupazione.
I tempi e le modalità di transizione alla vita adulta, già rallentati dalle difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro, appaiono sempre meno il frutto di scelte individuali e sempre più un compromesso tra il desiderio crescente di indipendenza e la necessità di tutelarsi dal rischio di cadere in situazioni di disagio economico. L’età elevata in cui i figli lasciano la casa dei genitori è un fenomeno che ha radici lontane e ha caratterizzato il nostro Paese per decenni: la quota dei 18-34enni celibi e nubili che vive in famiglia è cresciuta tra il 1983 (quando erano meno della metà del totale) e il 2000 (60,2 per cento), per poi restare abbastanza stabile. Si tratta, oggi, di sette milioni di giovani. Tra i 30-34enni quasi un terzo risiede ancora in famiglia, una quota triplicata dal 1983.
I giovani si trovano, quindi, a vivere in un ruolo di dipendenza “di lunga durata”, ma proprio in concomitanza con la crisi economica, e nonostante quest’ultima, cominciano a manifestare segnali di insofferenza. I 18-34enni, infatti, indicano la scelta di restare nella famiglia solo come terza motivazione, dopo i problemi economici e la necessità di proseguire gli studi. Tra il 2003 e il 2009 la quota di chi resta in famiglia per scelta scende di ben nove punti percentuali, soprattutto nelle zone più ricche del Paese, dove questo comportamento era maggiormente presente. Il Nord, peraltro, è anche la zona dove più alta è la quota di occupati, ma dove maggiore è stato il calo dell’occupazione proprio tra i figli che coabitano con almeno un genitore.
Il cambiamento motivazionale dei giovani appare particolarmente forte: esso richiede, quindi, particolare attenzione, tanto più che proprio in un momento di crisi ci si potrebbe aspettare una maggiore cautela nelle intenzioni di uscita. Invece, la percentuale dei giovani che dichiara di voler uscire dalla famiglia di origine nei prossimi tre anni cresce dal 45,1 per cento del 2003 al 51,9 per cento del 2009, aumentando di più tra i 20-29enni che tra i 30-34enni.