Analisi & Commenti

Educare alla convivenza civile in ogni sua dimensione

01/09/2004

Gregoria Cannarozzo 
Università di Bergamo

Un fraintendimento sulla “Convivenza civile” nella riforma del sistema di istruzione e formazione

‘L’istruzione senz’anima’ è il titolo di un articolo del Corriere della sera in cui Galli Della Loggia sostiene che non spetta alla scuola insegnare a “non mettersi le dita nel naso e a non mangiare patatine fritte”, nel senso che non toccherebbe a questa istituzione insegnare a comportarsi bene né a nutrirsi correttamente. Insegnare Didone, le Georgiche e gli integrali sarebbe di per sé già così qualificante da generare la buona educazione. Forse egli teme che nella scuola riformata si vogliano sostituire le discipline con le buone maniere e che si finirà per non insegnare bene né matematica né italiano, limitandosi ad ammaestrare invece di fare cultura. Oppure teme l’introduzione di ‘materie’ ulteriori e alternative alle discipline, delle quali si sente, pertanto, obbligato a difendere l’intangibilità da una mai concepita volontà di svuotamento e di sostituzione.
Il buon insegnamento delle discipline può sembrare di per sé sufficiente a chi abbia memoria di una società in cui il ruolo educativo della famiglia non era o non è venuto meno e a chi sottovaluti l’azione di rimando che si riverbera da una società su cui, nel suo insieme, c’è stato l’impatto della crisi della formazione familiare.

Ragioni sociali e culturali che hanno menomato i fondamenti della convivenza civile

Ognuno di noi avverte, nelle dinamiche del vivere insieme, un deficit, che non è solo di buona educazione, ma di rispetto di se stessi, degli altri, dell’ambiente, di attenzione per la propria salute e per il bene comune, in altre parole, amore per la vita.
Tale deficit, di cui l’opinione pubblica fa anche carico alla scuola, è stato prodotto da diversi fattori sociali, riconoscibili sia nei complessi mutamenti derivanti dagli effetti della modernità, che generano sostituzione di cultura, ma non ne producono, e non negli stessi tempi, la assimilazione in una nuova sintesi culturale (conseguenze repentine dei media, della globalizzazione economica, del fenomeno migratorio, del ruolo delle lingue e culture straniere, della moda mondiale della musica per i giovani, dei viaggi…), sia anche nella crescente difficoltà e, talvolta, incapacità della famiglia di mantenere il proprio tradizionale ruolo etico-educativo e culturale-educativo.
I figli imparano comportamenti e valori e sviluppano affettività sia attraverso l’amore e la cura che ricevono dai genitori, sia dall’esempio e dalla pratica delle regole con cui si confrontano. Ma la famiglia, fra le altre agenzie formative,è entrata in crisi ed è cambiata senz’altro più della scuola, per ragioni prevalentemente socio-economiche. Sulla sua ricchezza educativa e formativa ha inciso profondamente la crescente pressione del lavoro: orari, ritmi, ansia di perderlo, competitività, da cui scaturiscono deprivazione di tradizioni, disaggregazione, contrazione e sottrazione di tempi e di persone (lavoro femminile) alle risorse familiari e perdita dei rapporti affettivi,fino a menomare la stessa relazione genitori-figli.
Inoltre vi è stato l’accesso a livelli di offerta di istruzione più elevati per i figli di famiglie che non li possedevano e che non avevano la tradizione dell’educazione scolastica, ma che gestivano altre formazioni con una educazione altrettanto nobile e valida, per quanto diversa e dotata di altre regole, sempre apprese attraverso l’amore e l’esempio, formazioni purtroppo anch’esse perdute.
In totale è il fenomeno della de-culturazione, che potremmo definire come l’incapacità del contesto sociale di tramandare efficacemente e compiutamente cultura e valori.
Tutto questo mentre la scuola, seconda agenzia formativa, diventata conteiner-bersaglio di ogni critica sulla mancanza di etica, cultura, capacità di reperire lavoro sul mercato, ecc., era investita e doveva affrontare il passaggio da scuola d’èlite a scuola di massa, con dinamiche spesso divaricate tra scuola e società.
Tuttavia, dalla fine della seconda guerra mondiale, non c’è stato più il coraggio, in nome di un diffuso ‘buonismo’, questo sì ‘politicamente corretto’, di prendere atto delle avvenute trasformazioni, mentre sempre più di frequente ci agghiacciano, con il loro proporsi e riproporsi, episodi che danno il segnale di sgretolamento del connettivo sociale, una volta educante, e di perdita di senso della vita, e della stessa morte. Ne sono vittima i minori, molto spesso soli e privi di relazioni educative e formative, scarsamente considerati per le persone che sono, consumatori di mode e modelli, ‘periferici’, ‘espulsi’.
Come ignorare che anche a scuola, non di rado, si consumano violenze grandi e piccole, minacciate o praticate (botte gratuite, scontri fisici come unica modalità per affrontare le divergenze, distruzione di oggetti, violenza verbale, piccole rapine, furti e furtarelli, escalation nella aggressività dei gesti..)? E la violenza, la cattiva convivenza, lungi dall’essere solo individuale, produce identificazione con un ruolo nella sottocultura del gruppo dei coetanei.
Come non pensare ai sassi lanciati dai cavalcavia e ai vari omicidi minorili (si uccide la madre, si fa branco per massacrare l’amica d’infanzia)?

Oggi la scuola non può non farsi carico dei temi della convivenza civile

Anche se la colpa di quanto fin qui descritto non può essere di certo attribuita al Ministero dell’Istruzione, chi, se non la scuola, può farsi carico di raccogliere il testimone dei fattori educativi venuti meno nel tessuto sociale?
Occuparsi anche di questi aspetti dell’educazione non significa certo sostituirsi al ruolo della famiglia, assecondandone così lo svuotamento deculturante, oppure rendersi funzionali a un ulteriore impoverimento delle altre agenzie formative. E tanto meno è in contrapposizione o in alternativa a una impostazione umanistica. Però non può essere sufficiente sottolineare il valore della educazione umanistica e l’inefficacia (ma rispetto a quali praticabili obiettivi?) dell’azione educativa delle istituzioni scolastiche. Né basta insegnare le discipline, come poteva bastare quando la famiglia poteva esplicitare a pieno il suo ruolo educativo e la scuola completava la formazione etica e civile dei ragazzi. Le discipline devono essere piuttosto insegnate all’interno di un contesto che valorizzi le dimensioni etiche della conoscenza e quindi anche quelle civili.
Da qui l’esigenza dell’educazione alla Convivenza civile in ogni sua dimensione (educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività).
La riforma del sistema di istruzione e formazione vuole proprio partire dalla radice dei problemi di cultura nella società di oggi e ricomporli attraverso i percorsi dei vari gradi di scuola, che è senz’altro anche umanistica. Per questo ritiene che le discipline come la matematica, l’italiano, la storia abbiano lo scopo di produrre Convivenza civile, che significa introdurre un ambito concettuale di ordinamento tematico delle attività scolastiche del tutto innovativo rispetto ad analoghe classificazioni, ‘educazione alla cittadinanza’ ed ‘educazione civica’, di cui nessuno nega l’importanza.
Non a caso nelle Raccomandazioni specifiche le discipline sono precedute dall’educazione alla Convivenza civile. Significa che la trasformazione degli obiettivi specifici di apprendimento delle diverse discipline, presenti nelle Indicazioni nazionali, in adeguate unità di apprendimento determina di per sé, e contiene, l’educazione alla Convivenza civile: gli obiettivi specifici disciplinari e di educazione alla Convivenza civile si richiamano vicendevolmente e non c’è spazio per separazioni organizzative e didattiche né per una successione temporale tra le due componenti. Le discipline, se bene impostate in una strategia di integrazione e non ridotte a meri repertori, sono strumenti che danno personale significato all’esperienza unitaria di ogni studente, sono educazione alla Convivenza civile, così come questa è ‘educazione’integrale di ciascuno, e mai una disciplina che si aggiunge.
Operativamente, educare ad alimentarsi in modo corretto non è “fare altro” rispetto agli obiettivi formativi concordati da ogni scuola per le discipline, a partire dagli obiettivi specifici di apprendimento di Scienze, Italiano, Attività Motorie e Sportive ecc…. Infatti, lavorare sull’alimentazione, sui modelli culturali, sulla critica alla pubblicità, ecc., è mettere in campo specifiche conoscenze disciplinari e precise abilità. L’educazione alimentare diventa formidabile strumento e molla per scegliere modelli culturali e stili di comportamento in cui si integrano il sapersi nutrire,il praticare un sano esercizio fisico e il dotarsi di attitudini positive: dare senso alla vita. Nel medesimo modo, dallo studio di Didone, delle Georgiche e degli integrali potrà nascere anche il rispetto di sé e degli altri in ogni sua declinazione, compresa quella dell’essere bene educati. Occorre rappresentare e volere fortemente questo fine alto e occorrono anche organizzazione e tecnica per il suo perseguimento istituzionale.
La flessibilità dei Piani di Studio Personalizzati farà superare la mentalità dello “specialista”: tutti gli insegnanti, con l’esercizio, l’esempio e il coordinamento, fanno educazione alla Convivenza civile e insieme decidono contenuti, modalità e strategie per far confluire i propri percorsi disciplinari in una narrazione condivisa e per arrivare a un effetto globale. Il problema didattico più rilevante con cui si confronteranno nell’affrontare la disciplina di studio, come ricordano le stesse Raccomandazioni Generali, sarà quello di “sapere l’intreccio costante tra dimensione esistenziale evolutiva del soggetto e logica intrinseca di sviluppo della scienza; tra soggetto che pensa gli oggetti scientifici, che gli vengono proposti come obiettivi formativi, e controllo che tale pensiero soggettivo formativo non alteri la natura e l’identità epistemica dell’oggetto scientifico in questione, così come è richiamato negli obiettivi specifici di apprendimento; tra processi personali della conoscenza e prodotti sociali del pensiero. Compito dei docenti sarà non trattare la ricerca scientifica e i suoi risultati (scienza) alla stregua di contenuti materiali (materia), ma utilizzare la scienza, senza tradirne la complessità, come occasione per promuovere i processi vitali di apprendimento e di pensiero tipici di ciascuno (disciplina di studio). In termini didattici significa non confondere natura e funzione degli obiettivi specifici di apprendimento con quelle degli obiettivi formativi”.

Non basta più insegnare le sole discipline

Ma non solo le discipline, bensì tutti gli interventi educativi e didattici hanno bisogno di unità e coordinamento se si vogliono seguire procedure rispettose sia della centralità dell’allievo e della sua educazione integrale sia del più vasto contesto a cui appartiene. Invece,negli ultimi decenni, per progettare i Piani di Studio si partiva con il chiedersi quali fossero le discipline di studio di cui non si poteva fare a meno nel quadro orario e sul cui dosaggio le corporazioni disciplinari discutevano fino all’estenuazione. Di fatto, si spostava l’attenzione dalla persona dello studente ai contenuti da trasmettere. I ‘saperi’ ne uscivano frammentati, a favore di una visione culturale fatta di specialismi anziché ricomposta in un orizzonte comune, ampio e unitario. I Piani di studio, assemblati sommativamente, anziché essere i mezzi per il fine dell’educazione dei giovani, al loro servizio, diventavano il fine stesso dell’educazione e invertivano il rapporto tra discipline di studio (mezzi) e persona (fine). Le ‘materie’ di insegnamento balzavano in prima posizione, mentre l’allievo era retrocesso a consumatore di equilibrismi fra discipline, ottenuti a tavolino.
Invece, nella proposta di riforma il Profilo Educativo, Culturale e Professionale non solo ci dice ciò che un allievo è, avendo ben presente che vive in una società con cui deve confrontarsi, e ciò che deve essere alla fine del Primo e del Secondo ciclo, ma, attraverso lo studio e le attività scolastiche e senza mai separare meccanicamente cultura umanistica, scientifica e tecnica, si propone anche come uno strumento di garanzia per promuovere la sua integralità di persona umana. Bene inteso, questa garanzia spetta a tutti, a partire dagli studenti in situazione di handicap.
Gli stessi Laboratori sono pensati come il luogo privilegiato in cui l’apprendimento possa dispiegarsi coniugando conoscenze e abilità specifiche su compiti unitari e significativi. Ogni studente, il più possibile in modo operativo e progettuale, avrà occasioni per mettersi in gioco, rinforzare il concetto di sé, riequilibrare disarmonie educative, intrecciare relazioni cooperative e costruttive, riflettere sull’esperienza, scoprire l’unità e la complessità del reale, incuriosirsi e motivarsi, sentendo di dovere e poter mobilitare tutto il proprio sapere.
Infine, proprio le ragioni sociali che hanno depauperato la famiglia del suo insostituibile ruolo formativo sollecitano la riforma Moratti a puntare la lente d’ingrandimento sull’indispensabile coinvolgimento di essa. Per questo porta i genitori nella scuola e ne rafforza la presenza e ne accompagna il compito educativo e ne valorizza la responsabile libertà di scelta. Nella scuola riformata la famiglia non è presente solo con diritto di parola, ma come soggetto attivo con potere co-decisionale. Per esempio, è coinvolta e responsabilizzata, insieme ai figli, nella stesura dei Piani di Studio Personalizzati e nella compilazione del Portfolio delle competenze individuali.
Solo in questo modo può essere data alla scuola una responsabilità su temi per i quali il ruolo dei genitori va rinvigorito e restaurato anziché restare quello di subire, comunque, scelte professionali altrui, pur se buone e generose.

 

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