04/04/2003
di Eugenio Mazzarella
L’articolo che pubblichiamo è uscito qualche tempo fa su un quotidiano nazionale. Il suo autore è Eugenio Mazzarella, ordinario di Filosofia teoretica all’Università Federico II di Napoli e membro del Comitato scientifico del nostro Centro Studi. Ringraziamo il Prof. Mazzarella per questo suo sguardo concreto e anticonformista sul mondo della scuola italiana.
(17 febbraio 2003)
Se si dovesse dar credito agli indicatori di successo scolastico alla prossima maturità, che si profilano all’orizzonte, dovremmo concludere che il pianeta scuola secondaria in Italia ha realizzato il migliore dei mondi possibili. Ed è quindi pura follia, da Paese schizofrenico, volerlo riformare, come pure da anni si tenta, anche di poco.
In effetti una performance di ammissione che si aggira intorno al 95%, si prepara a ripetere lo storico record dello scorso anno di successo agli esami di maturità. Il problema è che è un dato del tutto fuorviante. E’ la semplice prosecuzione dell’invenzione del debito formativo, certificata nel titolo finito, e addossata per la sua ipotetica, molto ipotetica, soluzione, all’Università. In buona sostanza, la laurea triennale dovrebbe fare insieme almeno tre cose: recuperare i debiti formativi erogando i crediti sostanziali mancanti (ormai impera una logica di riscossione tributi evasi o inevasi!); mettere in condizione di esercitare una qualche professionalità universitaria di primo livello; adeguare lo standard degli studenti alla didattica universitaria di secondo livello, dove si spera poter fare qualcosa che somigli ad una formazione universitaria tradizionale. Il tutto ovviamente senza alcun stringente strumento di recupero crediti (veri test di ammissione, ad esempio, logiche di numero chiuso), ma sempre puntando sul fattore tempo (nel corso di studi successivi le cose si aggiusteranno!) e sulla subdola spinta a rendere ancora più elastica e superficiale la valutazione, legando i finanziamenti alla percentuale dei promossi in base alla tabella curriculare del ciclo universitario.
Sembrerà una provocazione sostenerlo, ma l’Università italiana ha mantenuto una validità sostanziale della sua laurea proprio grazie all’apparente dato di inefficienza di laureare appena il 30% dei suoi iscritti. Letto all’incontrario del solito, questo significa che l’Università italiana è ancora, come deve essere, una Università selettiva, i cui laureati, per il semplice fatto di essere laureati, possono pretendere attenzione da parte del mondo del lavoro e delle politiche sociali. Cioè il valore legale del titolo di studio, che già include un doveroso controllo sociale sulle competenze conseguite, ha ancora una sua plausibilità. Estendere la logica della scuola dell’obbligo e del pezzo di carta alla laurea universitaria, sull’onda del degrado irrisolto della scuola secondaria, è quanto di più antidemocratico si possa fare, e si iscrive nell’alveo del qualunquismo populistico nazionale.
Poiché la selezione che il sistema pubblico si rifiuta di fare in itinere, fin dalla secondaria, appoggiata ad una formazione rigorosa, compensando in termini di risorse economiche effettive (riqualificazione dei professionisti della scuola, diffuso e vero sostegno ai meno abbienti) la sperequazione di partenza degli studenti, sarà sempre più tendenzialmente fatta fuori del sistema pubblico. E in parte al suo interno ai livelli più alti e costosi (scuole di specializzazione, dottorati, masters). Il che vuol dire abdicare da parte del pubblico alla perequazione economica della selezione sociale, riaffilandola, più di quanto tendenzialmente già non sia, alla situazione di censo di partenza.
Per altro, al di là dell’indegnità etico-politica di consentire questo, così si restringe la base psico-sociale, i nudi numeri, cui si attingeranno le competenze superiori, il cervello sociale del Paese. Un ingrediente necessario di una mobilità sociale di una mobilità virtuosa resta la leva e la promozione di massa delle intelligenze. Il che, ovviamente non è a costo zero, né di mezzi finanziari né di intelligenza riformatrice.
Poche cose costano come una scuola e una Università di massa fatta bene. Se c’è qualcosa che la scuola pubblica italiana ha garantito nel dopoguerra – in epoca democristiana, vivaddio!, cioè nel quadro di un’ispirazione comunitaria solidaristica non inquinata ancora da un egualitarismo meramente ideologico e puramente difensivo contro il “comando del capitale”, come è stato purtroppo quello della sinistra sessantottina – fornendo le energie intellettuali alla rinascita del Paese dalla guerra, è stata una scuola seria. Continuo a preferire, avendone per altro beneficiato, l’Italia dei patronati scolastici all’Italia dei padroni e dei padrini.