Superare la visione economicistica e tecnocratica che fa male alla scuola, fa male ai nostri studenti, fa male ai docenti, fa male al Paese, fa male a tutti noi.
Nella giornata mondiale degli insegnanti ho letto con grande interesse il messaggio della direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova, intitolato “Teaching in Freedom, Empowering Teachers”: “Insegnare in condizioni di libertà, far sentire gli insegnanti più forti, rafforzarli, dar loro autorità”.
Il messaggio è tutto impostato su due temi fondamentali: la libertà dell’insegnamento e il protagonismo degli insegnanti, veri agenti del cambiamento dentro una dimensione libera di istruzione e educazione. Ma “empowering teachers” ha un duplice significato: rafforzare il ruolo dell’insegnante, renderlo più accreditato, più autorevole nelle comunità, nella società in cui agisce e, contemporaneamente, rendere più forte, più significativa la sua possibilità di promuovere ‘power’, cioè capacità di azione, capacità di affermazione di sé stessi; promuovere cioè processi di soggettivazione negli studenti attraverso la cultura, attraverso gli apprendimenti, attraverso il sapere che gli insegnanti trasmettono e che un insegnante ‘empowered’, cioè riconosciuto a livello sociale e dotato di strumenti e condizioni atte a svolgere il proprio lavoro, può diffondere con maggiore efficacia. Capabilyties, direbbe Amartya Sen, per gli insegnanti e per gli studenti.
“Essere un insegnante accreditato”, scrive Bokova, “significa avere accesso a una formazione di alta qualità, salari equi e opportunità continue per lo sviluppo professionale. Significa anche avere la libertà di sostenere lo sviluppo di curricula nazionali e l’autonomia professionale per scegliere i metodi e gli approcci più adeguati che permettano un’educazione più efficace, inclusiva ed equa. Inoltre, significa essere in grado di insegnare in totale sicurezza durante i momenti di cambiamento politico, instabilità e conflitti”.
Cosa significano concretamente queste parole, riconducibili a principi fondamentali in cui io credo fermamente? Significano che ogni insegnante deve arrivare nelle aule scolastiche opportunamente formato, a partire dal suo corso di studi universitari e da ogni singolo esame svolto; significa che ogni insegnante deve avere una formazione disciplinare di altissimo livello, formazione disciplinare che non va affatto abbandonata, bensì rafforzata in un’ottica comparata di confronto tra le discipline, perché il superamento degli specialismi non può essere affrontato sostituendo ‘argomenti’ alle discipline ma, al contrario, capovolgendo l’impianto, dalle discipline agli argomenti comuni e alle questioni che le attraversano, attraverso una prospettiva epistemologica orientata alla consilienza e al primato dell’integrazione teorica di aree scientifiche diverse (come accade oggi, per fare un solo esempio, con la feconda commistione tra studi letterari e nuove conquiste della neurobiologia e delle scienze cognitive: specifiche discipline, non generici ‘argomenti’, che si incontrano e che riconoscono terreni comuni, conquiste comuni, risultati comuni, in una prospettiva antigerarchica che contrasta antiche contrapposizioni idealistiche o positivistiche su cui troppo a lungo la cultura italiana insieme a scuola e università si sono incagliate).
Accanto a salde conoscenze disciplinari dunque, una formazione specifica che prepari ad affrontare la relazione didattica sia sul piano dell’organizzazione del lavoro culturale nella progressione degli apprendimenti, sia sotto il profilo delle dinamiche interpersonali che sempre intercorrono nei processi di insegnamento e che ne costituiscono aspetti fondamentali, non marginali; e questo significa, oltre ad una formazione iniziale e ad un reclutamento concorsuale regolare e rigoroso, avere anche periodicamente la possibilità di aggiornare la propria formazione all’università attraverso periodi sabbatici dedicati esclusivamente allo studio. Tutto questo implica qualità, serietà e investimenti, implica programmazione e non improvvisazione, mentre invece troppe volte abbiamo visto il MIUR muoversi solo sull’onda dell’emergenza materiale o delle velleità politiche del Ministro e del Governo di turno. Significa avere la convinzione profonda e condivisa che il lavoro nella scuola sia un lavoro tanto più delicato, impegnativo e difficile quanto più importante e significativo per ciascuno di noi e per la società nel suo insieme. Significa scegliere di spendere più per la scuola che per gli armamenti (è invece notizia recente che il Governo ha confermato l’impegno all’acquisto di 90 cacciabombardieri F35, con una stima di spesa tra i 13 e i 17 miliardi di euro) perché questo presuppone il convincimento che cittadini più istruiti, educati e formati siano in grado di convivere meglio e con maggiore concordia gli uni con gli altri, italiani e stranieri.
‘Salari equi’, dice il documento, cosa significa? Significa pagare un insegnante in misura proporzionale al lavoro che svolge, mentre oggi in Italia un insegnante guadagna meno di qualunque altro lavoratore pubblico o privato a parità di titolo di studio e di qualifica perché bloccato nelle maglie di un decreto legislativo, il 29 del 1993, che impedisce un aumento di stipendio che superi l’inflazione programmata, dunque non quella reale ma quella stabilita dal MEF. E’ equo questo?
“Avere la libertà di sostenere lo sviluppo di curricula nazionali e l’autonomia professionale per scegliere i modi e gli approcci più adeguati”, sottolinea il messaggio Unesco. Molti di noi non avranno dubbi che queste due condizioni basilari, talmente ovvie da sembrare addirittura banali e scontate, in Italia esistano. Ebbene non è così. In Italia i curricoli nazionali non ci sono più da vent’anni, da quando con l’autonomia scolastica (mi riferisco alla legge di riforma di Luigi Berlinguer, incardinata all’interno della legge di riforma Bassanini sulla semplificazione amministrativa della PA e ai suoi decreti attuativi) sono stati aboliti i programmi di tutte le discipline e sostituiti con una superfetazione burocratica di programmazioni (individuali, cioè di ogni singolo docente, di dipartimento, cioè di area disciplinare, e di istituto, cioè di ogni singola scuola) e da quando poi la ministra Gelmini, in perfetta continuità di intenti, ha sostituito definitivamente i programmi con generiche ‘Indicazioni nazionali’ per i licei e scarne ‘Linee guida’ per i tecnici e i professionali, sancendo oltre tutto una condizione gerarchica tra scuole di serie A e scuole di serie B, ovvero tra studenti di serie A e studenti di serie B, e dunque tra cittadini di serie A e cittadini di serie B, di cui oggi vediamo gli effetti in termini di analfabetismo funzionale diffuso, un fenomeno drammatico e gravissimo che è sotto gli occhi di tutti. E’ notizia recente che Invalsi, analizzando i risultati dei suoi test all’ultimo anno della scuola superiore, ha individuato alte percentuali di analfabeti funzionali anche in studenti alle soglie della maturità: sarebbe interessante disaggregare i dati, oltre che tra Nord e Sud, anche tra studenti di liceo e studenti di tecnici e professionali. E soprattutto sarebbe interessante mettere finalmente in relazione questo dato drammatico che indica il fallimento della scuola proprio nei luoghi e per le persone che ne avrebbero più bisogno, con le riforme, con i nuovi orientamenti pedagogici e con le loro ripercussioni sulla didattica e sui risultati scolastici degli ultimi 20 anni.
Ai ministri, ai responsabili scuola dei partiti e dei sindacati ‘maggiormente rappresentativi’, ai dirigenti dell’Invalsi, dell’Indire e delle associazioni di categoria più ascoltate, agli esperti che hanno scritto le riforme negli ultimi 20 anni non viene mai in mente che questi risultati così negativi dipendano anche, se non del tutto, ma almeno anche, da riforme sbagliate? Ispirate a un’idea della scuola totalmente sbagliata? Non solo sbagliata su un piano ideale (la scuola autonoma che trova nella competizione sul mercato dell’istruzione opportunità di miglioramento) ma sbagliata anche sul piano concreto dei risultati. Senza nessun principio di realtà, esperti e decisori politici continuano ostinatamente a rafforzare misure che peggiorano la situazione giorno dopo giorno: la ‘buona scuola’ di Renzi ha rafforzato l’autonomia scolastica di Berlinguer in assenza di una minima riflessione culturale e politica su quella legge e sui suoi 20 anni di applicazione. In Italia, l’autonomia scolastica è un dogma, un atto di fede, una condizione indiscutibile anche a fronte della palese implosione del sistema.
Non abbiamo più curricoli nazionali di ampio respiro, ma in compenso abbiamo migliaia di scuole ciascuna con la sua ‘offerta formativa’, con il suo PTOF per il mercato dell’istruzione, in cui l’unica autonomia concessa alle scuole è quella di competere l’una con l’altra per accaparrarsi utenti (un tempo si chiamavano studenti) e finanziamenti, visto che negli ultimi vent’anni la Repubblica italiana, costituzionalmente preposta alla fondazione e al mantenimento di scuole di ogni ordine e grado per garantire un’istruzione laica, democratica e pluralistica a tutti i cittadini, si è progressivamente sottratta al suo mandato, decurtando i fondi per il funzionamento delle scuole fino al di sotto della soglia della sopravvivenza. Questo è oggi quello che fanno prevalentemente i dirigenti scolastici, un tempo presidi eletti, primi inter pares, autorevoli coordinatori dell’attività culturale, pedagogica e didattica dei loro colleghi insegnanti. Hanno ottenuto una qualifica dirigenziale manageriale ma contemporaneamente la scuola è stata trasformata nell’ultimo degli enti locali e ridotta a una piccola azienda pubblica stracciona, che sopravvive grazie ai punti dei supermercati che la sponsorizzano per farsi pubblicità.
Alla scomparsa dei curricoli nazionali si è lentamente affiancata la perdita della nostra autonomia professionale di docenti, anche questa evocata nel documento Unesco. Oggi l’imposizione dell’innovazione tecnologica, intesa come unica innovazione possibile, e della didattica per competenze, intesa come unica didattica possibile, sta raggiungendo nella scuola livelli di coazione e coercizione intollerabili.
Le ragioni sono esclusivamente economiche: l’attuale sistema produttivo impone produzione e consumo illimitato delle nuove tecnologie informatiche e quindi digitalizzazione spinta, diffusione dei tablet e degli smartphone al posto dei libri, registro elettronico, LIM, didattica on line e dematerializzazione non solo dei rapporti scuola-famiglia (questo è il nome del decreto legge 95 del 2012 che ha imposto il registro elettronico) ma dell’intera condizione umana, a partire dai banchi di scuola. Ed è alla realizzazione di questa nuova condizione umana che sono funzionali le ‘competenze’ non disciplinari, su cui non avremmo nulla da eccepire, ma trasversali, generiche e standardizzate, come recita l’agile libretto diffuso dalla Fondazione Agnelli, hard e soft skills intese, cito, “come fattori cruciali per lo sviluppo economico e sociale”. Non a caso, come illustra una ricerca recentemente condotta dalla società di consulenza aziendale Manpower insieme all’Università degli studi di Firenze, il multitasking è al primo posto nel grafico che indica le competenze maggiormente apprezzate dalle aziende, mentre il making sense è all’ultimo: dare senso, significato a quello che si fa, non conta più. A fronte di questa pressante richiesta, rinforzata dagli ultimi provvedimenti, dalle circolari ministeriali, dalle pressioni dei dirigenti scolastici sul lavoro di ogni singolo insegnante, si realizza il combinato disposto tra l’ultima legge di riforma, la cosiddetta ‘Buona scuola’, e il Sistema Nazionale di Valutazione, che affianca il potere di indirizzo ex ante del MIUR al potere di controllo ex post dell’Invalsi, come dell’Anvur per l’università, ovvero altri due organi politici di gestione, indirizzo e controllo dell’attività culturale realizzati a valle con effetti retroattivi a monte, attraverso la valutazione degli apprendimenti (per la scuola) e della ricerca (per l’università). Un condizionamento politico della didattica e della ricerca inaccettabile.
Dov’è l’autonomia professionale di scelta dei metodi e degli approcci educativi più adeguati, auspicati nel documento Unesco, in tutto ciò? Quale margine residuale è riservato oggi alla libertà dell’insegnante di entrare in classe con un libro, di chiedere agli studenti di prendere appunti o di chiosare il manuale con una matita, di ascoltare una lezione frontale interloquendo con dei sani ‘perché?’, perché succede questo? Perché un filosofo, un poeta o uno scienziato scrive o afferma questo? Perché un problema si imposta in un certo modo o in un altro? Perché facciamo questo esperimento? Perché accadono certe cose, in relazione a quale principio di causalità? Perché?
Una parola sempre più bandita dalle nostre pratiche educative e didattiche dove viene negato dall’alto il valore della domanda aperta perché non garantisce una risposta oggettiva, quantificabile e misurabile; una parola scomparsa dagli apparati degli esercizi dei testi scolastici; una parola sempre meno pronunciata nelle aule dove ormai domina il feticcio del test a risposta chiusa, della spunta, della crocetta, della risposta acritica e standardizzata, omologata e omologante. Perché omologati e omologanti, abili esecutori acritici, performanti ma non pensanti ci vuole il mondo produttivo contemporaneo. Conformisti, flessibili, adattabili, in una parola mediocri. Come ci spiega il filosofo canadese Alain Deneault nel suo ultimo libro “Mediocrazia”, oggi questo termine designa standard professionali, protocolli di ricerca, processi di verifica, questionari di gradimento attraverso i quali la razionalità d’impresa organizza il suo sistema pervasivo, quell’ordine del mondo grazie al quale “i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le pratiche a precise tecniche performative, la competenza all’esecuzione pura e semplice”. Il lavoro è diventato forza-lavoro, un’esecuzione sottopagata di un pezzo della filiera produttiva di produzione e distribuzione di cui non conosciamo inizio e fine, come in una grande, planetaria catena di montaggio globale. Il lavoro è forza-lavoro, il lavoratore capitale umano e capitalista umano, autoimprenditore di sé stesso.
Anche la scuola oggi è stata egemonizzata da questa visione del mondo. Non a caso una delle otto competenze chiave raccomandate dall’Unione europea è proprio lo ‘spirito di imprenditorialità’ ed è proprio su questo che si sta cimentando l’Invalsi con la messa a punto di test per i bambini delle scuole materne e elementari, insieme all’ambito emergente della financial literacy, l’educazione finanziaria, anch’essa imposta a scuola dal sistema fin dalla più tenera età.
Il risultato è che oggi, nella società delle funzioni tecniche (in cui, come abbiamo visto, il multitasking conta assai più del making sense), dominata dalle espressioni ormai naturalizzate “alti standard di qualità’, meritocrazia, governance, competenza, eccellenza, quello dei docenti non è più insegnamento e quello degli studenti non è più studio. Tutto è performance, in un sistema illiberale che governa discrezionalmente e arbitrariamente il merito (è questo il significato etimologico della parola ‘meritocrazia’), che considera l’intera società e ogni singolo essere umano un’impresa (è questa la traduzione letterale del termine ‘governance’) e che prevede per i giovani, sempre più de-formati da una scuola deculturalizzata e mercificata, o una depressiva mortificazione in Italia o l’esilio.
Come conclude il documento dell’Unesco, così chiaro nel delineare la situazione della scuola italiana oggi: “In molti paesi, tuttavia, la libertà accademica e l’autonomia degli insegnanti sono sotto pressione. Ad esempio, nelle scuole primarie e secondarie in alcuni paesi i rigidi schemi di responsabilità hanno esercitato un’enorme pressione sulle scuole affinché fornissero risultati su test standardizzati, ignorando la necessità di assicurare un curriculum di ampio respiro che soddisfi le diverse esigenze degli studenti”. Non siamo noi, insegnanti bollati come pregiudizialmente ostili al cambiamento, all’innovazione e alla valutazione, a indicare con tanta chiarezza i nodi del problema; questo documento non lo abbiamo scritto noi.
Le pressioni esercitate attraverso una valutazione esterna standardizzata, condizionata politicamente, basata su illegittimi strumenti di verifica (un test può misurare conoscenze nozionistiche e poche competenze di base, come non si stancava mai di ripetere il compianto Giorgio Israel; i test Invalsi sono strutturati su un modello, il modello di Rash, che non è considerato scientificamente solido), dunque una valutazione parziale come un termometro spuntato, estranea ai nostri percorsi di lavoro e che però agisce retroattivamente e coercitivamente sulla didattica, riducendo sempre di più il respiro del curriculum delle discipline, ecco, sono pressioni non si possono e non si debbono accettare. Di fronte alla recentissima riforma degli esami di Stato, che ha comportato l’abolizione del tema di carattere generale, l’abolizione del tema di storia, l’abolizione del saggio breve sostituito dal riassunto o dall’esercizietto, accanto a un orale a buste chiuse da sorteggiare come nei quiz televisivi in cui si affastellano disorganicamente pezzi di esperienze scuola-lavoro, mozziconi di studio della Costituzione, brandelli di argomenti disciplinari, dovremmo tacere? Guai agli insegnanti che accettano acriticamente tutto quello che viene modificato da politici troppo spesso incompetenti o che rispondono a interessi di parte, economici o di potere, e da esperti che propongono rimedi peggiori del male. Guardiamo con onestà come è ridotta la scuola italiana oggi e facciamo autocritica. Negli anni Sessanta e Settanta, con buona pace di Galli Della Loggia e della sua nostalgia della predella, avevamo conquistato una scuola per tutti, democraticamente governata da un corpo insegnante che scambiava esperienze e condivideva le scelte e aveva molta più autorevolezza culturale del docente depoliticizzato di oggi che si aggira col suo tablet nei corridoi o nelle aule senza alzare lo sguardo, in senso reale e metaforico. Si erano poste le condizioni per la scuola della Costituzione, che garantisse pari opportunità di istruzione a tutti e che, con gli organi collegiali, permetteva quel patto educativo, quella condivisione di intenti e percorsi tra colleghi, con le famiglie e con gli studenti, senza la quale non c’è alcuna possibile azione educativa significativa e profonda. Sentite la frase con cui Bokova conclude il suo messaggio: “A tutti i livelli di istruzione, la pressione politica e gli interessi commerciali possono porre dei freni alla capacità degli educatori di insegnare in libertà”.
Autonomia e libertà sono precondizioni irrinunciabili del nostro lavoro a scuola. Autonomia dalla politica e dagli interessi commerciali che la dominano. Perché solo l’autonomia e la libertà dell’insegnamento garantiscono l’autonomia e la libertà dello studente che apprende, nel percorso che lo conduce all’esercizio di una cittadinanza consapevole e, prima ancora, di un’umanità consapevole. Per questo la nostra Costituzione repubblicana dedica tanto a spazio alla scuola e un intero articolo alla libertà della scienza e dell’arte e del loro insegnamento. Liberare la scuola dalla ‘pressione politica e dagli interessi commerciali’, recita il documento Unesco, è la condizione sine qua non anche per noi in Italia per recuperarne le condizioni minime di esistenza.
La scuola deve rispondere al Parlamento e non al Governo di turno, né tantomeno al mercato. Il suo CSPI democraticamente eletto deve avere reale potere di indirizzo. L’autonomia che si deve perseguire non è quella del singolo istituto che strappa iscrizioni a un altro in una competizione insensata, ma è quella di un sistema formativo pubblico, democratico e nazionale, capace di garantire uniformemente cultura e formazione di qualità. Non quindi autonomia dallo Stato, come sancito dall’autonomia scolastica, ma autonomia dell’intero sistema nello Stato. Questa è la scuola della Repubblica prevista dai nostri padri costituenti, per i quali la scuola era un’istituzione, non un servizio. Che non può dunque essere delocalizzato, come oggi addirittura si vorrebbe da parte delle regioni che chiedono ulteriori poteri non semplicemente amministrativi, bensì economici e politici, e dunque dai contorni davvero secessionistici, anche nell’ambito dell’istruzione.
Occorre recuperare per la scuola un quadro di certezze istituzionali nazionali – piani di studio, curricoli, obiettivi, finalità – in una cornice di ampio respiro culturale, respingendo la logica mercantile che ha visto nel 1997 la scuola trasformata in impresa e nel 2015 la scuola come luogo di formazione per l’impresa del perfetto studente-lavoratore, privo di consapevolezza storica, giuridica, sociale, culturale e politica. Dimenticando che nessuna professione può essere esercitata bene se non all’interno di una formazione più vasta – che guardi all’uomo e non al produttore/consumatore – e che orientare la scuola esclusivamente alle presunte esigenze immediate del mercato del lavoro, oltretutto mai come ora in continua evoluzione, è una scommessa perduta in partenza.
“Non per profitto” titola Martha Nussbaum uno dei suoi libri più belli. L’appello all’importanza dello studio, dell’istruzione, della creatività, della libertà nell’esperienza della relazione educativa e didattica, al valore della commistione tra discipline scientifiche e artistico-letterarie nella comune dimensione umanistica contro ogni forma di standardizzazione funzionale a interessi economici e contro tutto ciò che sta mettendo l’educazione democratica alle corde, in Italia come in gran parte dell’Occidente, viene da una studiosa americana. Sembra un paradosso, considerando che test, classifiche, privatizzazione arrivano da lì. Se siamo stati capaci di scimmiottare negli ultimi 20 anni quel modello portando sull’orlo del fallimento anche il nostro sistema scolastico, proviamo adesso ad ascoltare chi – come Nussbaum, o come Diane Ravitch, già responsabile della valutazione con Bush e Clinton, o come la direttrice generale dell’Unesco – ci dicono oggi di sottrarci alle pressioni politiche di questa visione economicistica e tecnocratica che fa male alla scuola, fa male ai nostri studenti, fa male ai docenti, fa male al Paese, fa male a tutti noi. Ma facciamolo presto.
Anna Angelucci
*Relazione al Seminario AND (Associazione Nazionale Docenti), Roma 8 ottobre 2019, “La scuola che vogliamo, Idee e proposte per una scuola democratica”