5/8/2003
Parere dell’AND
Premesso che i documenti inviatici rappresentano “dei documenti di lavoro”, utili ai fini della predisposizione dei decreti legislativi, previsti dalla Legge delega, formuliamo preliminarmente le seguenti considerazioni:
A) riteniamo che presupposti ineludibili dei provvedimenti attuativi della Riforma siano:
1) la salvaguardia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, elevata nel nostro ordinamento a rango di norma costituzionale, e la sua espansione nell’autonomia didattico-organizzativa riconosciuta alla comunità professionale, che opera presso le istituzioni scolastiche;
2) la salvaguardia della professionalità docente e dell’effettiva libertà d’insegnamento;
3) una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità dei diversi soggetti sociali coinvolti nel processo formativo (scuola – famiglia – ente territoriale);
B) consideriamo interessanti e innovative alcune indicazioni contenute nei documenti, tra le altre:
1) la distinzione delle competenze personali in conoscenze e abilità disciplinari e l’ordinamento degli obiettivi specifici in discipline ed educazioni;
2) la istituzionalizzazione dell’autovalutazione d’istituto.
Proposte migliorative
All’interno dell’impianto previsto indichiamo alcuni aspetti, a nostro avviso, migliorabili:
a) Piani di Studio Personalizzati e non personalizzazione dell’azione educativo-didattica.
La legge 59/97 e il conseguente DPR 275/99 impongono il superamento del centralismo ministeriale e, inevitabilmente, il venir meno del riferimento principale della scuola centralistica, che è costituito dai programmi nazionali. Al posto dei programmi lo strumento principale di progettualità della scuola diventa il curricolo.
Il DPR 275/99 indica in maniera chiara come intendere il rapporto tra centro e scuole nella nuova prospettiva del curricolo (v. Capo III, ‘Curricolo nell’autonomia’, e in particolare, quanto richiede l’art.8, ‘Definizione dei curricoli’).
Non si tratta di un riconoscimento nominalistico, ma sostanziale. Il curricolo è espressione dell’autonomia delle scuole ed è il frutto di una negoziazione sociale, sia all’interno della comunità professionale sia all’esterno, nel dialogo con genitori e comunità sociale. Ogni modalità di personalizzazione deve avvenire all’interno della cornice condivisa del curricolo e del POF. Altrimenti si perde l’importante nozione di corresponsabilità, si vanifica la collegialità e si riduce la ‘personalizzazione’ alla stregua di un patto privatistico insegnante-alunno.
Sempre con riferimento al DPR 275/99, la ‘personalizzazione’, prima di essere riportata alla dimensione della relazione educativo-didattica insegnante-alunno, è riferita al curricolo (comma 4 art.8), e quindi alla determinazione della scuola del suo peculiare profilo pedagogico, risultante dall’integrazione delle determinazioni nazionali, delle opportunità territoriali, delle richieste sociali, delle scelte dei docenti.
b) Riconoscere l’autonomia organizzativa degli insegnanti.
Suggeriamo di rivedere in profondità l’impostazione centralistica che caratterizza le ‘Indicazioni’. In particolare ricordiamo che, sempre ai sensi del DPR 275/97, la scuola ha piena autonomia organizzativa, oltre che didattica. Non sembra legittimo imporre soluzioni organizzative di alcun tipo, al massimo, a livello di ‘Raccomandazioni’, si possono offrire criteri e fornire suggerimenti. Questo significa che l’indicazione dell’insegnante tutor e coordinatore non può essere intesa come prescrittiva. Al ministero spetta dare le risorse, e definire tutti gli aspetti, di non poco conto per la verità, di cui parla il citato art.8 e che sono prescrittivi. Tra questi aspetti non figura affatto l’indicazione dei modelli organizzativi.
Questo non significa che la funzione tutoriale non possa essere ‘raccomandata’, ma ci sono diversi modi di interpretarla ed esercitarla. Ricordiamo che la stessa legge 148/90, istitutiva dei moduli, non imponeva il gruppo docente, anzi suggeriva nel primo ciclo l’insegnante prevalente, senza tuttavia imporlo. Si potrebbe scrivere, ad esempio che vanno garantite opportune forme di coordinamento didattico, adottando le soluzioni organizzative ritenute più efficaci, e si potrebbe richiamare l’importanza della funzione tutoriale per un miglior accompagnamento degli alunni, ma poi bisogna fermarsi e rispettare l’autonomia della scuola.
Anche l’idea che la ‘classe’ possa essere smembrata e i gruppi continuamente riarticolati secondo la logica funzionale del raggiungimento di obiettivi ‘personalizzati’ è discutibile, per il pericolo implicito che facilmente si può riconoscere: quello della perdita della dimensione sociale, affettiva, ‘biografica’ del gruppo-classe. Questo non comporta, naturalmente, la non accettazione di forme intelligenti di flessibilità, che del resto sono già state praticate in vario modo (dall’aiuto reciproco, alle diverse forme di cooperative learning), sia all’interno della classe sia in diverse forme di classi aperte, laboratori, ect.
c) Essenzializzare gli obiettivi prescrittivi e definirli meglio.
Spetta al ministero definire gli obiettivi specifici di apprendimento, che costituiscono l’elemento di unitarietà all’interno del nuovo contesto dell’autonomia scolastica che, inevitabilmente, comporta una forte spinta alla differenziazione. Ma la numerosità degli obiettivi specifici contenuti nelle ‘Indicazioni’ vanifica, nei fatti, ogni spazio di autonomia didattica. Ne abbiamo contato, solo nella scuola primaria, ben 648 (a cui si dovranno aggiungere quelli di religione cattolica). Se poi si considera come in molti casi sono formulati, si vede bene che tanto ‘specifici’ non sono e, quindi, obbligano ad una ulteriore analiticità. Forniamo un solo esempio (ma i casi sono tantissimi): “La civiltà greca dalle origini all’età alessandrina”.
La lista degli obiettivi contiene anche errori macroscopici (es., in storia: la ‘storia della terra’ non è un argomento della storia), indicazioni di obiettivi eccessivamente minuti (es., in inglese: chiedere e dire l’ora); proposte quantomeno discutibili –ricordiamo che si tratta di obiettivi prescrittivi-, es., in educazione alimentare: ‘praticare diverse forme di cottura dei cibi e correlarle alle esigenze delle diverse diete’…e si potrebbe continuare a piacere.
E’ opportuno rivedere profondamente tutto l’impianto degli obiettivi, armonizzandoli quanto ai criteri di selezione, essenzializzandoli, lasciando agli insegnanti il compito di analizzarli, nella loro traduzione in obiettivi formativi ed, eventualmente, di integrarli.
d) Rivedere gli obiettivi specifici della scuola dell’infanzia.
Risulta difficile comprendere il perché nelle ‘Indicazioni’ gli obiettivi specifici della scuola dell’infanzia non siano ripartiti seguendo la ripartizione dei campi di esperienza, che restano ancora criteri di riferimento riconosciuti dagli insegnanti e, invece, raggruppati per “titoli” di dubbia fondazione.
e) Gli obiettivi specifici non possono rappresentare ‘livelli’.
Nelle ‘Indicazioni’ si afferma che gli obiettivi specifici indicano “i livelli essenziali di prestazione (intesi qui nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini…”.
In realtà gli obiettivi, almeno come sono formulati, non indicano nessun livello (manca ogni riferimento quantitativo, che dia una qualche gradazione ai diversi livelli di ciascun obiettivo); sono indicatori di riferimento che, valendo per tutte le scuole, garantiscono l’unitarietà. E quando si parla di ‘standard’, bisogna rifarsi al DPR 275/97 che parla di ‘standard di servizio’, ben diversi da ‘standard di apprendimento. Definirli compete al centro, che deve indicare gli standard minimi essenziali che ogni istituzione scolastica deve garantire, in termini di servizio (orari, organico, ambienti, attrezzature…), ma poi si tratta di mettere le scuole (tutte) in condizione di rispettarli (e questo comporta un impegno finanziario che va previsto).
f) Nemmeno gli obiettivi formativi devono prevedere ‘livelli’.
La traduzione degli obiettivi specifici in obiettivi formativi compete ai docenti. Ma non può essere indicato il modo di questa traduzione, perché sul tema della definizione degli obiettivi sono legittime molte posizioni, da quella comportamentista o prestazionista a quella fenomenologica o, personalista.
g) L’articolazione per ‘periodi’ non va formalizzata, ma suggerita.
Così come si prevede di fare, l’articolazione dei ‘periodi’ all’interno del primo ciclo è in contraddizione, ancora una volta, con l’autonomia organizzativa e didattica degli insegnanti. Può al massimo essere suggerita, ma la logica pedagogica dei ‘tempi distesi’ e della flessibilità, condizioni per la ‘personalizzazione’, non si concilia con la previsione di momenti valutativi terminali dei ‘periodi’, il cui esito può perfino comportare la bocciatura.
h) Il portfolio va suggerito, non imposto.
Il portfolio, almeno nella sua origine, si configura come strumento di valutazione ‘autentica’, formativa e non certificativa. Non è però l’unico strumento possibile: l’osservazione partecipe, la rubrica, il diario…sono altre forme possibili di valutazione ‘autentica’. Bisogna evitare che lo strumento prevalga sul significato che lo fonda, ma che fonda anche modalità diverse. E’ opportuno suggerirlo, e sostenere gli insegnanti che ancora non conoscono una simile modalità, ma imporlo appare improprio e rischioso, perché, se non se ne capisce e condivide la natura, è molto probabile il rischio di una traduzione burocratica, formale e banale insieme.
Le ‘Indicazioni’, almeno nella loro attuale formulazione, proprio per l’eccessivo e quasi esclusivo riferimento che fanno a tale strumento, chiedendo un impegno compilativo probabilmente non sostenibile e, forse, nemmeno così indispensabile, rischiano di favorire una sua interpretazione banalizzata.
Conclusioni
Il testo delle ‘Indicazioni’ è prolisso, l’impostazione è eccessivamente didascalica, opinabile in molte affermazioni, prodotte con una eccessiva perentorietà. La pagina introduttiva dedicata alla scuola Primaria è, in tal senso, emblematica. Che cosa vuol dire, tanto per fare un solo esempio, che una caratteristica peculiare della scuola primaria è la sua funzione ‘sociale’? Forse che tale caratteristica viene meno nella scuola ‘Secondaria’? Oppure perché, solo per la primaria, affermare che è ‘etica’? Forse che nella scuola ‘Secondaria’ non vale la necessità di “superare le forme di egocentrismo e praticare, invece, i valori del reciproco rispetto, della partecipazione, della collaborazione e della solidarietà.”?
Anche il paragrafo dedicato agli obiettivi generali del processo formativo andrebbe rivisto. Quanto meno sarebbe opportuno, sul piano linguistico, armonizzarlo con lo stile utilizzato per l’indicazione degli obiettivi generali della scuola dell’infanzia.
In ogni caso, dal momento che le ‘Indicazioni’ hanno una funzione prescrittiva, si suggerisce di tagliare drasticamente tutte le tante parti dedicate a spiegare, motivare, fondare ecc., perché non è compito del centro sposare una pedagogia o una epistemologia o una psicologia, ma di indicare i riferimenti essenziali che, all’interno di un desiderabile pluralismo culturale, le scuole devono necessariamente seguire.
Bisogna evitare di accreditare l’idea che ci si trovi di fronte ad un centro poco rispettoso dell’autonomia delle scuole e della professionalità dei docenti, anacronisticamente direttivo, impropriamente pedagogico, ancora intriso di statalismo. Anche solo la considerazione della quantità delle pagine prodotte comunica immediatamente questa impressione.
Appare chiara la necessità, anche per i limiti evidenziati in queste brevi note, di costituire una commissione pubblica, i cui componenti siano rappresentativi di un ampio pluralismo culturale, capace di lavorare sugli esiti della consultazione e di predisporre un testo maggiormente condiviso. Alla fine sarebbe sempre il ministro a trarre le sue conclusioni, ma l’ascolto e il confronto sarebbero un valido contributo alla costruzione di una scuola tesoro di formazione per le nuove generazioni.