L’etica pubblica – di cui oggi tanto si parla – non è un monolite. Ha una sua interna e complessa articolazione. Va dall’etica di cittadinanza all’etica del lavoro e della solidarietà, all’etica delle varie professioni. La prima è la più generale e vale per tutti e in tutta la sua fenomenologia, che va dalla coscienza dei diritti e dei doveri alla partecipazione alla vita della collettività (col voto, col prender-posizione su questioni emergenti o decisive, anche col manifestare il dissenso), alla costruzione di un ethos civile di convivenza (delegittimando atteggiamenti razzisti o di consenso all’illegalità, ad esempio).
Franco Cambi*
1. Nell’articolazione dell’etica pubblica
L’etica pubblica – di cui oggi tanto si parla – non è un monolite. Ha una sua interna e complessa articolazione. Va dall’etica di cittadinanza all’etica del lavoro e della solidarietà, all’etica delle varie professioni. La prima è la più generale e vale per tutti e in tutta la sua fenomenologia, che va dalla coscienza dei diritti e dei doveri alla partecipazione alla vita della collettività (col voto, col prender-posizione su questioni emergenti o decisive, anche col manifestare il dissenso), alla costruzione di un ethos civile di convivenza (delegittimando atteggiamenti razzisti o di consenso all’illegalità, ad esempio). La seconda riguarda la società civile nel suo impegno produttivo, che va sentito come valore, che va promosso come fine individuale e collettivo, che va diffuso e articolato, sia pure in una forma diversa dal passato, quando l’etica del lavoro connessa a quella del sacrificio fu uno dei capisaldi del mondo borghese e del suo controllo e conformazione del soggetto ai principi del capitalismo. Etica del lavoro che, oggi, si configura come emergente dal mondo del lavoro, dalle sue associazioni, e che reclama, insieme, impegno responsabile e solidarietà. Il terzo fronte dell’etica pubblica – quello delle professioni, di tutte: dall’operaio allo scienziato – dà luogo a un lavoro sempre in divenire (poiché lo sono le stesse professioni), rivolto a fissare i diritti e i doveri, gli atteggiamenti e le norme che devono, sempre più consapevolmente, regolare l’esercizio delle professioni, di ciascuna professione, proprio per renderle tutte più integrate e più funzionali alla vita collettiva e allo scopo del “bene comune” che le fa da guida.
Tra queste etiche professionali si colloca, in primo piano, quella dell’insegnante. In primo piano di fatto e di diritto. Di fatto, poiché l’insegnante svolge una funzione-chiave nelle società moderne, di formatore in due sensi: di competenze sociali definite e di soggetti responsabili. O almeno collabora a delineare in tutti (poiché tutti i cittadini “passano” dalla scuola) tali dispositivi. Di diritto: poiché la collettività (lo stato, la famiglia) delega alla scuola e all’insegnante quell’entrare-nel-mondo-sociale e quella crescita integrale (o più integrale) dei cittadini giovani che è compito essenziale di ogni collettività organizzata.
Ma, allora, tale professione deve fissare la propria etica: deve esplicitarla, deve articolarla a sua volta, deve pubblicizzarla. E deve farlo proprio partendo dal “mondo scolastico” e non dall’esterno, per non essere un’etica né imposta né pensata ab extra (da altri universi deontologici, tipo quello politico – che tende o può tendere a ideologizzare tale codice etico – o quello religioso – che fa valere, in primis, i principi di un’etica confessionale). Un’etica che deve costruirsi laicamente: dall’esperienza formativa e da quei saperi della formazione che le sono strettamente congiunti. Un’etica che delinei nettamente il suo profilo, lo fissi in norme e regole, dia corpo a un codice deontologico capace di sorreggere e orientare tutto il lavoro dell’insegnante.
Per cominciare, due distinguo: rispetto all’etica parentale e rispetto all’etica burocratica. Entrambe le sono contigue, ma restano diverse. Quella parentale è più simbiotica, più emotiva, meno oggettiva. Quella burocratica non tiene conto (o troppo poco) dei soggetti e guarda alle funzioni e al funzionamento del sistema. La prima è un’etica troppo “calda”, la seconda troppo “fredda”. Quella della professionalità insegnante sta nel mezzo, tra partecipazione emotiva al processo di formazione di più soggetti e organizzazione razionale di tale processo legato, soprattutto, all’apprendimento e alla formazione, insieme. Una professionalità difficile, fatta di “scienza” e di “arte”, che ha al centro la comunicazione (ma ne conosce anche i pericoli), che esalta – ad un tempo – l’impegno e la responsabilità, soprattutto. Una professionalità anche da meglio interpretare, da meglio definire, e attorno alla quale attivare riflessione e discussione pubblica. Poiché si tratta, come già detto, di una professionalità difficile e sempre in fieri.
2. Etica dell’impegno, etica della responsabilità, etica della comunicazione
È dall’azione docente che possiamo ricavare le formule di un’etica della professionalità insegnante. L’insegnante trasmette (saperi, cultura, norme) e valuta (l’apprendimento e la formazione), ma anche orienta, guida, sostiene l’allievo, curvando su di lui tutto il suo operato; inoltre sta dentro una micro-comunità (la classe, la scuola) e partecipa attivamente ai suoi processi, ai suoi problemi, alle sue pratiche; infine anche progetta, svolge un ruolo di programmatore, di costruttore di itinerari teorici e pratici, didattici e formativi. Possiamo fermarci. Il quadrilatero è già sufficiente a mettere in luce le forme etiche, gli stili etici o i modelli etici che esso implica.
Prima di tutto reclama un’etica dell’impegno. Su di essa molto fu detto da Sartre e dagli esistenzialisti, dai problematicisti, etc. Oggi essa si presenta come un assumere su di sé un compito, farlo proprio, attivarlo in tutto il proprio agire e connetterlo allo scopo di quell’impegno, che – qui – è il formare, il partecipare attivamente a un processo che, insieme, coinvolge il docente e lo sovrasta (poiché è collocato nell’allievo, ma ha bisogno del docente). Impegnarsi qui vale: stare con/vicino a…, collaborare con…, volere obiettivi, darsi compiti. E l’impegno si costruisce sulla comprensione e sulla fedeltà. Comprensione della differenza di colui per cui ci si impegna e fedeltà al proprio progetto, pur mutabile che sia. Senza impegno il processo formativo collassa a routine.
In secondo luogo c’è bisogno di un’etica della responsabilità, sia nel senso di Weber, come correlazione razionale tra mezzi e fini, quindi efficiente, controllabile, sia in quello di Jonas, come investimento per l’altro (il giovane), per il suo futuro, per la sua integrità possibile. Etica istituzionale da un lato, etica interpersonale dall’altro, ma in cui la responsabilità (il farsi carico di fini e mezzi, e del loro raccordo e della loro dialettica) sta al centro, come dispositivo-chiave.
Poi c’è l’etica della comunicazione, cara a Apel, che verte sull’ascolto, sul dialogo, sull’argomentazione, sulla conversazione. Una dimensione tipica dell’insegnare, poiché giocato sempre sulla parola, sul confronto, sullo stare insieme, gestiti in forma sempre più razional-comunicativa.
L’etica dell’insegnante si colloca al punto di unione e di tensione di queste tre forme etiche. Tra impegno, responsabilità e comunicazione deve attivarsi però una dialettica che proprio sulla responsabilità si fa organicamente costruttiva. Lì trova un po’ il proprio baricentro.
3. Per un codice deontologico
Lasciando però questo terreno di teorizzazione etica della professionalità insegnante e scendendo sul terreno più operativo, più concreto, il problema che si pone è se e come è possibile fissare un codice deontologico, che funga da promemoria e da orientatore. È possibile proprio esplicitando le dimensioni etiche dell’operare docente e fissandole in norme e regole. Da qui l’idea di un codice, che – tra l’altro – sulle professioni libere ha avuto un ruolo essenziale: si pensi al giuramento ippocratico dei medici. Oggi che anche l’insegnamento (da attività ora para-parentale ora burocratica) si fa professionalità più libera (quindi anche più responsabile) e più problematica e complessa (per i fattori che coinvolge), l’idea di un Codice si è fatta più pregnante e più urgente, e proprio perché la responsabilità personale dell’insegnante viene posta in primo piano. E di ciò si è fatto interprete, a suo modo, anche l’attuale Ministro della Pubblica Istruzione.
Proviamo, qui, a elencare i primi, fondamentali articoli di questo codice. Partendo dalla riflessione attuale sia sull’etica sia sulla professione docente si possono indicare sette articoli-chiave o base.
1°= Insegnare “secondo verità”, ma sempre attraverso il metodo critico e mai secondo quello dogmatico, cosicché la verità emerga sempre nella dialettica dei punti-di-vista e come approssimazione alla verità.
2°= Formare alla/nella libertà, ovvero dare strumenti ai soggetti (=discenti) per emanciparsi da vincoli, condizionamenti, pregiudizi e per “darsi forma” secondo il principio della libertà: della libera costruzione di sé, pur difficile che essa sia.
3°= Capire l’individualità dei discenti, il più possibile, per quanto è possibile, per meglio orientarli e comprenderli nel loro percorso formativo.
4°= Attivare sempre il sostegno: mettersi a disposizione; intervenire per capire disagi e problemi; agire stando vicino a… (al discente, alla famiglia).
5°= Valorizzare il dialogo per creare proprio un habitus di dialogo, per interiorizzarlo e farlo apparire come valore, se pure faticoso, in quanto produce vicinanza, comunicazione, empatia anche.
6°= Farsi mediatore razionale rispetto a ciò che è pubblico, politico o sociale che sia: rispetto a ideologie, a confessioni, a tradizioni, etc., in modo da portare più comprensione, e più comprensione razionale, colà dove c’è, spesso, pregiudizio, chiusura emotiva, etc.
7°= Mostrare sempre la cultura come valore, come il valore, come quella oggettivizzazione dell’uomo che, insieme, lo universalizza e lo potenzia, ne interpreta e arricchisce l’umanità, divenendo in essa il simbolo e il volano ad un tempo.
Si tratta, credo, di un incunabolo di Codice. Ma che di esso trattiene i punti essenziali, gli aspetti più qualificanti. Poi, se si vuole, ma credo poco sulla fertilità di tali iniziative, si potrà passare anche a una tabella più micrologica dei doveri. Ma a questi principi non potrà, anch’essa, non coordinarsi.
*Relazione al seminario nazionale in mulvideoconferenza organizzato dall’Associazione Nazionale Docenti, il 7 maggio del 2002
Franco Cambi – Professore ordinario di Pedagogia generale. Ha svolto il suo insegnamento presso gli Atenei di Lecce, di Siena e di Firenze. È stato direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione e dei Processi Culturali e Formativi dell’Ateneo fiorentino ed è tuttora coordinatore del Dottorato in “Metodologie della ricerca pedagogica. Teoria e storia”. Dal 1997 membro del Consiglio Direttivo dell’IRRSAE–Toscana e Presidente dell’IRRE–Toscana. Da più di dieci anni fa parte del Consiglio Direttivo del CIRSE, che dirige dal 2005. Dal 1998 dirige la rivista, semestrale, Studi sulla formazione. È direttore scientifico dell’Archivio della pedagogia italiana del Novecento. Inoltre, dirige e ha diretto diverse Collane editoriali presso: Le Lettere di Firenze, La Nuova Italia di Milano, Carocci di Roma, Unicopli di Milano, Clueb di Bologna.