La crisi finanziaria, dopo aver favorito la destrutturazione di modelli economici basati su consolidati rapporti commerciali tra le economie più sviluppate, sta dispiegando sempre più i suoi effetti nefasti sui modelli di Stato sociale costruiti faticosamente nell’ultimo secolo. Il principio che regge questi modelli si fonda su un’uguaglianza sostanziale dei cittadini, da cui deriva la finalità di ridurre ogni forma di limitazione nell’accesso ai servizi pubblici essenziali e di assicurare condizioni di vita sociali e lavorative dignitose per ogni cittadino.
Il welfare state da prima sostenuto dalle forze politiche più progressiste è poi divenuto il leitmotiv di impianti normativi che hanno orientato e plasmato le nostre condizioni di vita. Giova ricordare che fu proprio un conservatore, quale Winston Churchill, ad affidare a William Beveridge l’incarico di studiare un sistema di protezione sociale obbligatoria, capace di coprire tutte le classi sociali e tutte le persone, così da poterle seguire “dalla culla alla tomba”. Beveridge, nel suo Social Insurance and Allied Services del 1942, che lo consacrò come padre del welfare state, sostenne che compito dello Stato è rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo del progresso sociale e di favorire quella che chiama “liberazione dal bisogno”, “e cioè il bisogno economico, la malattia, l’ignoranza, il contesto miserabile della vita, la mancanza di lavoro. Per raggiungere questo obiettivo occorreva sviluppare un percorso di sicurezza sociale capace di andare di pari passo con la pianificazione economica”1. “Si tratta del primo e più sistematico sforzo intellettuale di immaginare le politiche di welfare come un insieme coerente e integrato compatibile con un’economia di mercato. Il testo, che influenzerà l’approccio alla protezione sociale nel Regno Unito e nel resto d’Europa, darà inizio alla storia contemporanea del welfare state”2.
Il welfare state, tuttavia, ancor più che dalla crisi, anzi con l’alibi della crisi, oggi é aggredito dall’azione demolitrice di politiche pseudo liberali sostenute, in Italia come in Europa, da governi più attenti a rispondere a istanze senza identità che si muovono senza regole attraverso la speculazione, capaci di condizionare le sorti di intere nazioni, di allacciare fili invisibili di lobby transnazionali che incarnano ora vesti istituzionali ora movimenti di opinioni, ma con lo scopo prevalente di disaggregare i modelli democratici dello Stato sociale e della rappresentanza politica e, in spregio verso ogni risentimento popolare, di distruggere, a loro vantaggio, fondamentali conquiste di civiltà.
Ciò che è ancor più grave, è constatare che questo avviene senza che l’opinione pubblica democratica e le forze politiche più progressiste abbiano piena coscienza della drammaticità della spirale regressiva che sta repentinamente trasformando i cittadini in sudditi e gli Stati in terminali di poteri senza luogo e senza regole. Ma come può, parafrasando il celebre discorso di Roosvelt del 1938, ritenersi salva una democrazia se un gruppo, o un qualsiasi potere privato, è capace di controllarla? o se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile? “Oggi -egli sosteneva- tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza eguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l’efficacia dell’impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego al capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni tra il popolo nella nazione tutta”.
Possiamo rinvenire la drammatica attualità di queste parole nelle modifiche normative contenute nelle cosiddette manovre economiche che, anziché contrastare la crisi con adeguate misure di sostegno dell’economia, sono volte ad incidere nei gangli vitali sui quali poggiano i meccanismi della distribuzione del reddito, l’organizzazione del lavoro e il funzionamento dei servizi pubblici essenziali assicurati dallo Stato, tra cui la sanità, l’istruzione, i trasporti e altri, tanto da invertire il significato degli stessi principi fondanti delle moderne democrazie. Ciò determina non solo un peggioramento delle condizioni economiche dei rispettivi Paesi, ma anche la crescita delle diseguaglianze sociali e territoriali. Le stesse riforme delle politiche fiscali e previdenziali anziché perseguire l’obiettivo di una più equa distribuzione dei redditi, sono divenute strumenti per accrescere le distanze tra i cittadini. Basta, al riguardo, volgere lo sguardo sulla situazione italiana. Le entrate tributarie in Italia derivanti da imposte dirette hanno segnato nei primi dieci mesi del 2011 un incremento dell’0,3%, quelle indirette del 5,1%3. È di tutta evidenza che ogni nuovo o maggiore tributo postato sull’imposizione indiretta, non può che gravare in misura proporzionalmente maggiore sui soggetti a reddito minore, determinando un peggioramento delle loro condizioni economiche e un aumento della diseguaglianza sociale. Se a ciò si aggiungono gli interventi che tagliano le prestazioni sociali ne consegue che i più poveri finanziano uno Stato che meglio mantiene i più ricchi. Al riguardo sono eloquenti i dati forniti dall’ultimo Rapporto Ocse4 che confermano per l’Italia una disuguaglianza dei redditi superiore alla media dei Paesi OCSE, più elevata che in Spagna e in progressivo peggioramento rispetto alla metà degli anni ’90, da un rapporto di 8 a 1 è cresciuta a 10 a 1 nel 2008, tanto che il reddito medio del 10% più ricco degli italiani(49.300 euro) è dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero(4.877 euro). Ancora, con qualche altro raffronto, l’1% più ricco degli italiani ha visto la proporzione del proprio reddito aumentare del 7% del reddito totale nel 1980 fino a quasi il 10% nel 2008. Per contro, le aliquote marginali d’imposta sui redditi più alti si sono quasi dimezzate passando dal 72% nel 1981 al 43% nel 2010. Così la situazione che oggi abbiamo di fronte è caratterizzata da una sperequazione nei redditi delle famiglie italiane che è impressionante, se si osserva che il 10% di esse possiede il 45% della ricchezza totale mentre un altro 50% non arriva al 10%5.
Una diseguaglianza che è anche di ordine geografico, vista la “stretta la corrispondenza tra squilibri nella distribuzione del reddito e squilibri territoriali: il 38% delle famiglie residenti nel Sud e nelle Isole appartiene al quinto dei redditi più bassi, mentre nel Nord e nel Centro una famiglia su quattro appartiene al quinto più ricco”6. Una sperequazione che la manovra del Governo Monti anziché contrastare accentua anche sul piano territoriale, se si considerano gli effetti delle nuove misure che colpiranno gli immobili e le pensioni. Nel Centro Sud si concentra, infatti, la maggior quota (51,4%) del patrimonio abitativo italiano stimato in 6.335 miliardi di euro7. Ed è nel Centro Sud che si concentra il 51,5% dei 16.236.702 pensionati italiani, con un ammontare di 124.076 milioni di euro di pensioni annue percepite8. Con ciò ignorando le stesse Raccomandazioni politiche dell’OCSE contenute nel Rapporto “Divided We Stand”, ove è chiaramente detto che la riduzione della diseguaglianza deve passare da politiche volte ad accrescere l’occupazione e da riforme dei sistemi fiscali e previdenziali che migliorino la distribuzione del reddito. In particolare, nel Rapporto è espressamente rimarcato che “La quota crescente di reddito per la popolazione con le retribuzioni più elevate suggerisce che la sua capacità contributiva è aumentata. In tale contesto, le autorità potrebbero riesaminare il ruolo ridistribuivo della fiscalità onde assicurare che i soggetti più abbienti contribuiscano in giusta misura al pagamento degli oneri impositivi”9. Stranamente il Rapporto dell’Ocse non è mai citato, mentre così non è per ogni sospiro della BCE, ma ciò non impedisce che si continui a succhiare il sangue alle solite formichine che, come è noto, ne sono prive.
Francesco Greco
Note
1 Giardina-Sabbatucci-Vidotto, Il Rapporto Beveridge, Politica, Istituzioni e Diritto, Nuovi Profili storici, Vol. 3, Laterza, Roma-Bari, 2010
2 W. Beveridge, Alle origini del welfare state. Il rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Franco Angeli, Milano, 2010
3 Banca d’Italia, Appendice statistica al Bollettino Economico n. 66, Roma, ottobre 2011
4 Ocse (2011), Divided We Stand: Why Inequality Keeps Risin, www.oecd.org/els/social/inequality
5 Focus, Settimanale del Servizio Studi della BNL, n.13, Roma, 1 aprile 2011
6 Focus, ibidem
7 Dipartimento delle Finanze e Agenzia del Territorio, Gli immobili in Italia. Distribuzione del patrimonio e dei redditi dei proprietari, 2011
8 INPS-ISTAT, Trattamenti pensionistici e beneficiari al 31 dicembre 2009, Roma, giugno 2011
9 Ocse, ibidem