Il titolo del libro, “Suonare in caso di tristezza”, ha origine da una scritta anonima sul muro vicino al campanello della scuola in cui Peppino (Buondonno) insegna storia e filosofia, e che qualcuno, “per qualche malintesa idea di decoro” ha fatto coprire. Lui, marchigiano, e Beppe (Bagni), toscano, provenienti da due generazioni distinte ma non troppo distanti, da contesti sociali diversi, da due ambiti scolastici tradizionalmente considerati indipendenti, l’umanistico e lo scientifico, impegnati in esperienze politico-culturali di diversa natura ma in certo senso confinanti, dialogano attraverso una serie di lettere (in realtà e-mail) dall’autunno del 2019 a quello del 2020 [1].
L’esplosività storica di quei pochi mesi si riflette nella scansione delle tre parti del libro in cui vengono raccolti i testi: “Prima”, “Durante”, “La seconda ondata”.
I due amici e colleghi si scambiano riflessioni in un sistema di “ricerca comune”, come scrive Buondonno, che non appiattisce le diversità di punti di vista e prospettive, ma li fa camminare insieme sul terreno comune della scuola della Costituzione, per entrambi unico possibile luogo di costruzione della società democratica. La “tristezza” che i due vogliono contrastare con il loro libro, infatti, non è tanto uno stato d’animo individuale, ma una condizione di depressione culturale, di sfiducia nei confronti delle potenzialità emancipanti della scuola, evidente nella gran parte dei soggetti che vivono dentro o intorno la scuola stessa.
All’interno della scuola, i primi soggetti tristi sono insegnanti, ai quali i due associano la metafora della “scintilla spenta”, il venir meno della spinta a considerare il proprio lavoro come leva per cambiare la società. A questa condizione psico-professionale si possono associare cause di tipo salariale ma soprattutto ambientale: Bagni e Buondonno ragionano a lungo su quegli indirizzi politici dominanti che nell’ultimo trentennio hanno sostenuto la costruzione di una società neoliberista attraverso interventi normativi mortificanti e attraverso una spinta forte verso un’innovatività “inevitabile” a senso unico, cioè nel senso aziendalistico a strumentalità digitale. In questo contesto, gli alunni e le alunne sono stati tutti orientati, coerentemente, ad un efficientismo prestazionale in preparazione ad una vita di lavoro e consumo.
Entrambi gli autori, quindi, condividono in pieno la convinzione che c’è una connessione strutturale, inscindibile tra modo di pensare e costruire la società e modo di pensare e costruire il sapere dentro il sistema scolastico.
Per questa ragione fondamentale, ribadiscono i due attraverso le loro lettere, chi insegna deve guardare chi impara con occhi diversi, senza scimmiottare posture giovanilistiche ma assumendo il nuovo sistema relazionale in cui alunni e alunne si muovono, spesso ferendosi più di prima, osservando i nuovi modi di sapere che ragazzi e ragazze praticano, ripristinando con loro e per loro la dimensione collettiva dello scoprire, dell’imparare, del confliggere e non del competere. L’insegnante deve quindi ricostruirsi un ruolo “adulto” senza farsi precedere o rappresentare dall’apparato rigido della conoscenza, ma rendendo il sapere disponibile per i suoi alunni e alunne. “Il problema sostanziale è che la nostra funzione, la nostra possibile utilità (e dunque autorevolezza) dentro questo nuovo mondo è nell’offrire gli strumenti, gli attrezzi problematici e concettuali, affinché non lo vivano in modo subalterno”.
Dal dialogo epistolare emerge chiaramente che questa impresa non è facile ma è necessaria poiché è condizione essenziale per ripristinare la piena funzionalità di quel “nesso tra libertà e sapere” che sta a fondamento della nostra democrazia.
Note
1. Beppe Bagni non è nuovo alla scrittura epistolare: con Rosalba Conserva ha scritto “Insegnare a chi non vuole imparare”; cfr. recensione del 06.04.2015 .
Tratto da: insegnareonline.com