Analisi & Commenti

Successo scolastico: i limiti delle nostre responsabilità

23/04/2003

di Antonia Belletti

Fra gli interventi pubblicati dall’A.N.D, i più importanti sono per noi quelli che vengono dalla concreta esperienza professionale e umana dei nostri colleghi. In questo senso la riflessione di Antonia Belletti ci sembra preziosa.
La Prof. Belletti insegna Scienze presso il Liceo Classico – Psico Pedagogico «G.Cesare – M.Valgimigli» di Rimini.
(28 aprile 2003)

Da un paio di decenni, ormai, alla scuola italiana è stato affidato il ruolo di “compensare” le lacune che, per diverse ragioni, la famiglia, sul piano educativo registra. Come dicono le statistiche, si perpetuano nei figli le condizioni culturali dei genitori senza che la scuola sia in grado di modificare tale situazione.
Mi pare che l’opinione pubblica, la politica, i governi, la famiglia e la società in genere stiano scaricando sulla scuola responsabilità che, semmai sono di tutti, e questo per lavarsene la coscienza. Ed è pure vero che la maggior parte dei docenti che svolge con impegno e con serietà professionale il proprio lavoro si sente investita di questo ruolo e vive come fallimento personale, quello che invece è un fallimento di tutta la società.
Un ragazzo di 16 anni uccide i genitori perché vuole ereditare e l’opinione pubblica scarica la responsabilità di questo gesto sulla scuola; un gruppo di adolescenti uccide un proprio coetaneo e la colpa è della scuola che non ha saputo togliere dalla strada questi ragazzini; una ragazza si suicida perché ha preso un brutto voto e i giornali scrivono dell’insensibilità dei docenti di fronte ai problemi degli adolescenti. Scaricare sulla scuola responsabilità che appartengono ad altri è una gran comodità.
Personalmente credo sia molto difficile modificare una impostazione mentale che proviene, prima dalla famiglia poi da vari ambiti sociali e che considera lo studio come qualcosa di inutile. Aver colpevolizzato la scuola di tutti i mali della società ha prodotto in chi opera nella scuola due tipi di atteggiamento: l’estraniarsi da una parte e il sentirsi in colpa dall’altro. Mi chiedo perché in tutti questi anni abbiamo accettato di essere così maltrattati. Il nostro ruolo professionale deve essere chiaro e delimitato e dobbiamo difendere la nostra professionalità di docenti; siamo docenti, non siamo psicologi, sociologi e non so che altro.
Alcuni mesi fa una mia alunna di seconda chiede di andare in bagno, dove si sente male (tentativo di suicidio? Non s’è capito); viene chiamata l’ambulanza e la ragazza viene ricoverata presso il reparto di psichiatria infantile (la ragazza ha la madre affetta da schizofrenia). Dopo qualche settimana dal ricovero, il consiglio di classe riceve una lettera dello psichiatra infantile che sta seguendo la ragazza, il quale ci dice che è bene per lei che torni a scuola, anche se resta ricoverata in ospedale, la lettera non contiene altro, cosa ci venga richiesto non è chiaro, quale ruolo dobbiamo giocare noi docenti? Nessuno ce lo dice.
Ho 8 classi, 180 studenti e tra essi una ragazza schizofrenica che ha l’insegnante di sostegno, ma non nelle mie ore, che ha una gran voglia di imparare, ma mi chiede all’infinito perché una certa cosa è così e io o faccio lezione per lei o faccio lezione per la classe; un ragazzino dislessico che porta sulle braccia i segni delle sigarette spentegli dal padre quando era piccolo, ora è stato sottratto alla famiglia d’origine e vive, in affido, presso un’altra famiglia; una ragazza sorda dalla nascita. Potrei continuare. ma ciò che voglio affermare è che io sono un’insegnante, credo di saper fare bene il mio lavoro, ma non mi si può chiedere di fare ciò che non credo mi competa. Non sarebbe professionalmente serio da parte mia, nostra, accettare il ruolo di risolutori di problemi che vanno ben oltre le nostre competenze professionali. Con tutta la nostra disponibilità sul piano umano (come si può, specie se si hanno figli) non essere coinvolti sul piano umano, in casi come questi, tuttavia noi non abbiamo le competenze, da soli per risolvere problemi che, ammesso che siano risolvibili, non possono essere lasciati solo all’ambito scolastico.
Non siamo professionalmente seri e manchiamo di dignità professionale nell’accettare che ci scarichino addosso queste responsabilità. Sarebbe come se a un medico generico si chiedesse di operare un intervento a cuore aperto e lui in silenzio accettasse, pur sapendo che le probabilità di esito positivo sono bassissime, anche per la sua incompetenza.
La mia sensazione è che, quando promuoviamo ragazzi che non hanno raggiunto gli obiettivi minimi, perché non si sono impegnati (non sto parlando di chi ha dato il massimo di impegno ma ha seri problemi di apprendimento), perché per primi non hanno mostrato alcun interesse a voler uscire dal proprio stato socio-culturale, promuoviamo perché non abbiamo il coraggio di assumerci le nostre responsabilità.
Ritengo che con la riforma questi problemi riemergeranno con grande forza; probabilmente molti ragazzi tenteranno la strada dei nuovi licei, prima di quella professionale e forse a noi spetterà la decisione di indirizzarli verso questa seconda strada, anche col segnale della bocciatura. O forse sceglieremo di promuovere tutti per smentire le statistiche?
Più nello specifico, sui temi del successo scolastico e della selezione, devo constatare che non si fa mai un distinguo tra bambini delle elementari, ragazzini delle medie e ragazzi delle superiori. Fare questa distinzione è, a mio parere indispensabile.
Un ragazzo di 18 anni, anche se avesse alle spalle esperienze disastrate di qualsiasi tipo, deve comunque essere richiamato alle sue responsabilità, sta per diventare adulto, finita la scuola nessuno giustificherà più il suo operato sulla base di ciò che è stata la sua famiglia o la sua infanzia, ma solo rispetto a ciò che è lui come persona; altra cosa è lavorare con bambini di 8-9-10 anni, nessuna sanzione nei loro confronti può essere giustificata, ma solo azioni educative, per quanto ritengo che la scuola abbia pochi mezzi per porre rimedio a situazioni disastrate che provengono dalla famiglia. Non possiamo continuare a confondere i comportamenti dei ragazzi e i nostri nei loro confronti senza distinguere tra un bambino e un ragazzo alle soglie dell’età adulta.
Una mia alunna ha il padre in carcere, condannato a 8 anni per spaccio di droga. Quest’anno è in terza superiore, ha 17 anni. In prima l’abbiamo promossa, per incoraggiarla e darle fiducia. In seconda ha continuato a non studiare; ognuno di noi docenti ha cercato di seguirla, di aiutarla anche da un punto di vista umano, le sue compagne, anche sollecitate da noi, l’hanno seguita a casa per farla studiare, ma lei ha continuato a non studiare. E’ stata ugualmente promossa, speravamo che crescendo maturasse, pensavamo che se l’avessimo bocciata avrebbe abbandonato la scuola e nessuno avrebbe più seguito la sua crescita culturale. Quest’anno, frequenta la terza, non c’è stato alcun miglioramento nel suo atteggiamento, anzi tutti noi docenti abbiamo rilevato una sorta di arroganza nei nostri confronti, abbiamo ricevuto spesso frasi del tipo «mi interroghi pure, tanto non so niente». Di fatto questa ragazza frequenta poco la scuola e passa gran parte del suo tempo in giro. Personalmente ritengo che quest’anno sia più educativo darle un segnale forte; è vero che non ha alle spalle una famiglia che la sorregga, è vero che per molti ragazzi della sua età, la vita è più facile, ma è pur vero che se non impara a prendere in mano la propria vita e a combattere per una vita migliore di quella che le è stata offerta finora, il suo futuro non sarà roseo. Qualcuno dovrà pur dirle che da ora in poi deve imparare a camminare con le sue gambe, o deve continuare a credere all’illusione che, poiché proviene da una famiglia disagiata, verrà sempre giustificata?
Quando chiediamo a questi ragazzi l’assunzione delle proprie responsabilità? E torno a sottolineare che non sto parlando di una bambina delle elementari ma di una ragazza che sta per diventare adulta.

 

 

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