Note & Interventi

Studenti violenti, carcere e declino dell’educazione

4/9/2003

Una nostra riflessione

La notizia: in Francia da quest’anno sarà possibile scontare -se di età superiore ai 13 anni- fino a sei mesi di carcere per aver insultato o oltraggiato un insegnante. La legge, approvata dall’Assemblea Nazionale il 3 agosto scorso, fra l’altro recita «Quando è rivolto a una persona incaricata di pubblico servizio e quando il fatto è commesso all’interno di un istituto scolastico o educativo, o all’entrata di questo o in occasione dell’uscita, o all’esterno di tale edificio, l’insulto è punito con sei mesi di prigione e 7 mila 500 euro di multa».

I commenti della stampa: ironici e incuriositi “sempre i soliti, questi francesi”; concordi, “è giusto, non se ne può più”; scandalizzati e politicamente corretti: “si tratta di una misura inaccettabile, repressiva, autoritaria, intollerante verso studenti la cui violenza è l’indizio di un disagio…ecc.”.

Una nostra riflessione: se si vuole comprendere il vero significato di un simile provvedimento, lo si deve leggere non come un “bene” o un “male” ma come un sintomo, esattamente allo stesso modo in cui una temperatura corporea troppo alta non è la malattia ma il segnale che qualcosa nell’organismo non funziona.

Se si arriva, infatti, a minacciare (e crediamo che oltre la minaccia non si andrà…) il carcere per degli adolescenti, significa che la pratica dell’insulto verso gli adulti, della violenza fisica e psicologica esercitata su chi dovrebbe educarli, del disprezzo nei confronti degli insegnanti, è arrivata a un livello intollerabile. E non solo in Francia: le scuole pubbliche statunitensi sono per lo più in una condizione di completo degrado etico prima che materiale; in un numero sempre più alto di scuole italiane -dalle elementari alle secondarie- i docenti sono spesso impauriti dall’arroganza degli allievi o impotenti a trasmettere e a ottenere un comportamento rispettoso verso le regole, verso se stessi, verso gli altri. È notizia di qualche settimana fa che secondo un’indagine internazionale i ragazzi italiani sono fra i più maleducati al mondo.

Questa situazione ha radici lontane e numerose: il riduzionismo terapeutico -la scuola diventata centro sociale, luna-park o ambulatorio psicologico- è una delle espressioni più efficaci del principio di deresponsabilità che la pedagogia europea ha assimilato dalle correnti permissivistiche americane degli anni Sessanta, anni di sviluppo economico impetuoso, nei quali i ragazzi dei ceti medi ritenevano che tutto fosse raggiungibile con poca fatica e dunque tutto fosse loro dovuto. Quando poi, però, un simile sogno infantile si scontra con le prime difficoltà dell’esistere, dai sentimenti al lavoro, si genera un rancore che ha bisogno di responsabili sui quali scaricare ogni torto. In questa infantilistica reazione c’è sempre un’Autorità negativa colpevole del male di vivere. Contro di essa si urlano i propri diritti tacendo però sempre e sistematicamente degli obblighi e dei doveri che ogni diritto comporta, pena la propria nullità. Il narcisismo del bambino che vede in se stesso il centro del mondo, che tutto reclama e vuole afferrare, trova il proprio più forte alleato nel silenzio sul dovere, parola che è diventata in ambito educativo e sociale un vero e proprio tabù.

Troppi educatori ritengono che ogni divieto provochi frustrazione e risentimento, sottovalutano la portata dell’aggressività esplorativa che induce il bambino e il giovane a imporsi con la violenza sul mondo circostante, si estenuano in una mediazione continua e sterile con l’educato che invece ha bisogno anche di fermezza. Così facendo non producono certo individui liberi e pacifici ma soggetti sfrenati e incapaci di qualsiasi autocontrollo, talmente insicuri da essere disponibili -poi- a qualunque omologazione ideologica e di gruppo. Con l’evitare ogni “trauma” educativo si rende l’individuo irresponsabile, preparato a seguire personalità forti allo scopo di superare la paura e pronto ad addossare sempre la colpa a soggetti esterni.

Quanto sta accadendo in Francia, in Italia e in troppi Paesi dell’Occidente è stato descritto con chiarezza da uno dei testi di teoria dell’educazione più lungimiranti: «in un tale ambiente il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni. Da parte loro gli scolari non tengono in nessun conto i maestri, e così pure i pedagoghi. Insomma, i giovani si danno delle arie da uomini maturi e han sempre da ridire a parole e a fatti. Gli uomini maturi, invece, vogliono portarsi al livello dei giovani e così fanno sfoggio di atteggiamenti spigliati e scherzosi, per imitarli e per non passare per scorbutici e autoritari» (Platone, Repubblica 563A, trad. R. Radice). Sta a noi docenti non rinunciare alla nostra responsabilità pedagogica, sta all’intera società civile aiutarci a restituire un significato all’educazione. Anche su questo, soprattutto su questo, si gioca l’avvenire della scuola, e non solo di essa.

 

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