Note & Interventi

Scuola e democrazia. Gli insegnanti al bivio

Una riflessione sulla professione docente richiede, più che mai, una valutazione ampia dei fattori di contesto che direttamente o indirettamente investono la scuola e la sua funzione primaria, l’insegnamento.

Altri aspetti possono essere valorizzati o rimanere sterili in base a come questa funzione si configura all’interno dell’organizzazione scolastica e delle effettive possibilità per i docenti di poterla svolgere con l’autonomia e le libertà che sono proprie di ogni attività intellettuale.

In questi ultimi anni, cionondimeno, in molti Paesi l’insegnamento è regolamentato da politiche dell’istruzione sempre più pervasive, delle inedite forme di “pedagogia di Stato”, che tendono a configurare l’insegnamento come una mera attività operazionale e a ridurre i docenti a semplici esecutori di metodologie autoritativamente regolamentate.

Queste politiche sono anche il riflesso di un sistema indiretto di condizionamento esterno, favorito dalla raccolta di dati da parte di alcune organizzazioni internazionali sui singoli sistemi educativi, che incoraggia politiche di regolazione dell’istruzione attraverso la valutazione esterna dei risultati scolastici. Ciò induce a standardizzare gli obiettivi di apprendimento, affinché questi siano misurabili e comparabili su larga scala, nazionale e internazionale, e a tal fine definire parametri di riferimento, indicatori, strumenti di controllo esterno standardizzati, etc.

In questo contesto, l’insegnante tende a perdere i tratti tipici della sua dimensione professionale, quali l’autonomia nell’organizzare il proprio lavoro, la discrezionalità tecnica, la libertà di pensiero e di giudizio. La sua funzione si trasforma in un’attività meramente esecutiva svolta secondo una sequenza di azioni preordinate al raggiungimento di obiettivi standardizzati e misurabili.

Le indagini internazionali sui sistemi educativi, promosse con il fine di aiutare i “decisori politici” a migliorare i sistemi educativi, si stanno trasformando, anche per la debolezza delle politiche nazionali, in un potente strumento di omologazione dell’istruzione nel mondo, che certo, di per sé, non aiuta a migliorare l’efficacia dei sistemi di istruzione.

Tutto ciò non far venir meno l’importanza delle ricerche internazionali. I dati che esse forniscono, con le dovute cautele, possono aiutarci a comprendere il quadro di contesto per una riflessione sullo stato del nostro sistema di istruzione e sulla professione docente.

Tra queste indagini, alcuni contributi significativi ci sono dati dall’ultimo rapporto Ocse “Uno sguardo sull’istruzione 2013. Indicatori dell’OCSE” e dall’indagine Ocse-Pisa 2012. Per il nostro Paese, i risultati che queste indagini ci restituiscono sono a dir poco inquietanti. Eppure l’Italia è una grande potenza economica, anche in questa fase di grave crisi internazionale. Cionondimeno, per la gran parte degli indicatori considerati e in quasi tutte le indagini condotte dall’Ocse sull’istruzione, l’Italia si situa al di sotto della media dei Paesi dell’Unione Europea, ma anche della media Ocse, che comprende Paesi con livello di sviluppo economico di gran lunga inferiore al nostro.

Il rapporto Ocse “Uno sguardo sull’istruzione 2013”, come è noto, prende in considerazione una serie di indicatori che attengono ai sistemi educativi che permettono di delineare un quadro di insieme, in chiave comparativa, su “quali sono le risorse investite, come operano i sistemi di istruzione e quali i risultati ottenuti.”

Ebbene, ogni anno, ormai da oltre un ventennio, da quando questa indagine è stata avviata, disegna un quadro fallimentare del sistema di istruzione italiano. Mentre altri Paesi si sono affrettati a migliorare i loro sistemi educativi, l’Italia si è dimostrata incapace di far progredire il proprio sistema di istruzione.

La nostra scuola, tanto citata nelle campagne elettorali, è stata, proprio in quest’ultimo ventennio, il bancomat delle cosiddette politiche di risanamento economico di tutti i governi che si sono succeduti. I reiterati tagli di risorse all’istruzione non hanno fatto altro che confermare che la scuola in Italia non è per i governi in carica una priorità!

Gli indicatori Ocse 2013 confermano, infatti, che “L’Italia è l’unico Paese dell’area dell’OCSE che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria. All’opposto, nello stesso periodo i Paesi dell’OCSE hanno aumentato in media del 62% la spesa per studente negli stessi livelli d’istruzione”. In Italia, la spesa per studente dal 2001 al 2012, è diminuita dell’8%.

Gli indicatori Ocse confermano, inoltre, che i risultati migliori si hanno in quei Paesi ove gli insegnanti ricevono retribuzioni più alte. In Italia gli stipendi degli insegnanti sono di gran lunga più bassi della media dei Paesi europea. Anzi, mentre negli altri Paesi sono aumentati mediamente del 7%, in Italia sono diminuiti dell’1% dal 2000 al 2009. “se paghi in noccioline, avrai delle scimmie», ha esemplificato il ministro dell’Educazione finlandese al meeting internazionale “International Summit on the teaching profession”.

La Finlandia, che conferma anche in questa indagine di aver il sistema scolastico più virtuoso, arruola i propri insegnanti tra i migliori laureati del Paese. Ne consegue che in quel Paese l’insegnamento ha una alta considerazione sociale e rappresenta una professione intellettuale con forte attrattività, sia in termini di carriera sia per quanto riguarda le retribuzioni. Un esempio che molti altri Paesi cercano di seguire, ma non l’Italia!

L’assenza di politiche sistemiche a favore degli insegnanti ha determinato, oltre alla perdita di attrattiva dei migliori laureati, l’assenza di un ricambio generazionale che non si rinviene negli altri Paesi. Per cui, l’Italia oggi si trova a dispone del corpo insegnante più anziano dei Paesi dell’OCSE.

“Nel 2011, il 47,6% degli insegnanti della scuola elementare, il 61,0% degli insegnanti della scuola secondaria di primo grado e il 62,5% degli insegnanti della scuola secondaria di secondo grado aveva più di 50 anni; inoltre, negli ultimi anni un numero relativamente limitato di giovani adulti è stato assunto nella professione d’insegnante.” È pertanto prevedibile che, fra circa quindici anni, quando anche i cinquantenni andranno in pensione, si determinerà un forte vuoto negli organici.

Proprio in previsione di ciò, ma anche in risposta alle sollecitazioni dell’UE, nella recente Legge 8 novembre 2013, n. 128, di conversione del D.L. 104/2013, è stato definito un “piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente per gli anni 2014-2016, tenuto conto dei posti vacanti e disponibili in ciascun anno, delle relative cessazioni”. Bisognerà poi vedere quale sarà l’effettiva applicazione di questa previsione legislativa. L’esperienza sollecita qualche ragionevole dubbio.

Infine, un’altra indagine pubblicata in questi giorni dalla rete Eurydice, “Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di istituto in Europa”, emerge che nella maggior parte dei paesi europei, gli insegnanti raggiungono lo stipendio massimo tra 15 e i 25 anni di servizio. In Italia occorrono almeno 35 anni. In Danimarca, Estonia e Regno Unito, bastano 10 anni.

Gli esiti scolastici sono invece il campo di indagine dell’OCSE-PISA 2012, i cui risultati sono stati presentati nei giorni scorsi al Miur. La rilevazione PISA 2012 ha testato le competenze degli studenti quindicenni nella comprensione della Lettura, nella Matematica e nelle Scienze. Nel 2012, ambito principale di rilevazione è stato la Matematica, come già nel 2003. Anche in questa indagine la performance dell’Italia è peggiore della media OCSE, pur registrando un miglioramento tra 2006 e 2009 e gli anni successivi.

Tuttavia, se è vero che “una rondine non fa primavera”, osservando la distribuzione dei risultati a livello territoriale, si riscontrano ampi divari. Le regioni del Nord Ovest e del Nord Est si collocano sopra la media nazionale. Il Mezzogiorno, pur con segnali di miglioramento dal 2006 in poi, resta ancora sotto la media. Si posizionano, invece, nella media nazionale le regioni del Centro Italia.

Questi risultati hanno ispirato gli estensori dell’art. 16 del decreto legge 104 del 12 settembre 2013, che dispone l’obbligo di formazione a carico dei docenti nelle “zone in cui i risultati dei test di valutazione sono meno soddisfacenti ed è maggiore il rischio socio-educativo… ”. Un obbligo che non fa altro che scaricare sui docenti l’intera responsabilità degli esiti scolastici dei loro studenti. Anche tralasciando i risultati della ricerca scientifica sul ruolo dei diversi fattori che condizionano i risultati scolastici, è assai singolare che per decreto si stabiliscano degli assiomi pedagogici e che ad essi si connettano degli obblighi di prestazione a carico di alcuni.

Basta la sola considerazione di questi dati di contesto per comprendere come oggi gli insegnanti italiani si trovano di fronte ad un bivio, continuare a mantenere una posizione attendista, assistendo passivamente al progressivo degrado della nostra scuola, o far sentire la propria voce per evitare una prospettiva esiziale del nostro sistema educativo.

Questa seconda scelta ben può poggiarsi anche su altri numeri, oltre a quelli forniti dall’OCSE. In Italia vi sono 8.644 scuole, distribuite sul territorio nazionale in 41.483 sedi, frequentate da 7.878.661 studenti. In queste scuole lavorano 728.325 insegnanti, 90.889 nella scuola dell’infanzia, 239.552 nella scuola primaria, 167.916 nella scuola secondaria di primo grado e 229.968 nella scuola secondaria di secondo grado.

Si tratta di cifre che danno la misura del ruolo che la scuola, nonostante “la politica”, svolge nella nostra società, un ruolo che essa oggi deve rivendicare per conquistare quella funzione primaria che le spetta non solo nelle politiche di sviluppo del nostro Paese, ma anche per riavvicinare i cittadini alle istituzioni. Per far questo occorre che essa stessa sia luogo di democrazia, un luogo particolare e privilegiato degno delle più ampie tutele e garanzie, dovendosi in questo luogo formare, secondo il dettato costituzionale, personalità libere e critiche e non sudditi sciocchi e obbedienti. Mentre gli insegnanti non possono più mantenere un colpevole atteggiamento di rassegnazione, pena la perdita, insieme alla scuola, di ogni residuo spazio di autonomia e di considerazione sociale.

 

Francesco Greco

 

 

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