Nel 1529, Erasmo da Rotterdam ne L’educazione precoce e liberale dei fanciulli scriveva :
“Vi sono persone il cui animo gretto impedisce di assumere un insegnante qualificato e si paga di più uno scudiero che l’educatore di un figlio … Volesse il cielo che fossero meno numerosi coloro che spendono di più per una sporca puttana che per l’educazione di un figlio!”
Il suo auspicio, purtroppo, non ha trovato ascolto sotto questo cielo e, mentre si lasciano intatti odiosi privilegi che dissipano ingenti risorse, si drenano là dove invece non dovrebbero mai fare difetto. Ciò avviene in Italia, Paese sestultimo dei 27 Paesi dell’UE nella spesa per l’istruzione (4,4% del PIL contro una media europea del 5%), ma anche di gran lunga sotto la media dei 30 Paesi Ocse (6,2%). Nondimeno, la nostra scuola anche quest’anno si appresta a subire la scure dei tagli, previsti dall’art. 64 della legge 133/2008, che ha già falcidiato oltre 42.000 cattedre e più di 15.000 posti di personale ATA e si appresta a tagliare altre 25.000 cattedre e 15.000 posti di personale ATA.
Nelle regioni del Sud la scure dei tagli è pesantissima. A fronte di una media nazionale che non va oltre il 3,96%, le regioni del Sud avranno un taglio che si attesterà su una media sopra il 5%. La Calabria è la regione che patirà il colpo più pesante con un taglio di 1.552 cattedre, corrispondenti ad una diminuzione del 5,32 % dell’attuale organico di personale docente. Seguono la Basilicata e la Sardegna con il 5,18% e la Sicilia con il 5,06%. Come dire “piove sul bagnato” e cioè su quelle regioni già ampiamente martoriate dalla piaga della disoccupazione, del lavoro nero e di quello non retribuito nelle scuole private.
Quanto tutto questo peserà sulla situazione occupazionale nel nostro Paese è facile immaginare, ancor di più se si valuta che i tagli continueranno nel 2011/2012, anno in cui verranno tagliate più di 20.000 cattedre e oltre 15.000 posti di personale ATA. Certo la questione non va vista solo nella sua dimensione occupazionale, la scuola dopo questi interventi si ritroverà fortemente dimensionata nel suo ruolo e nella sua funzione e, molto presto, tutti potremmo osservarne gli effetti che incideranno fortemente sulla quantità e sulla qualità dell’offerta di istruzione e di formazione nel nostro Paese.
C’è da chiedersi: ma tutto questo è proprio necessario? Ammesso che lo scopo sia veramente quello di allineare il rapporto alunni/docenti ai parametri europei, è proprio questa la strada da seguire tagliando indiscriminatamente classi e posti di insegnamento? E, soprattutto, perché farlo in un arco temporale cosi ristretto e senza tener conto che in Italia, a differenza di altri Paesi europei, si sono procrastinate situazioni altrove inesistenti (come la presenza di un consistente di precariato storico)? Perché non si è tenuto conto che in Italia esistono condizioni geomorfologiche e infrastrutturali che rendono indispensabile la presenza di sedi scolastiche anche là dove non dovrebbero esserci? Perché, invece, si sono presi in considerazione solo astratti criteri di efficienza amministrativa? Per di più, quel punto in meno nel rapporto alunni/docenti, da realizzare secondo il piano programmatico, si è abbassato in modo quasi “naturale”, atteso che è previsto per il 2010/2011 un aumento della popolazione scolastica. Perché, allora, continuare a perseverare con una mera politica di tagli e non invertire la rotta reinvestendo nell’istruzione ogni risorsa risparmiata?
Il cambiamento nella compagine politica delle regioni del Sud, avvenuto con le recenti elezioni e le attese che questo ha suscitato, devono sollecitare una nuova attenzione sui problemi della scuola. Cosi come nelle regioni del Nord i sindaci leghisti non hanno esitato a protestare contro i tagli del Governo, quanto sta per rovesciarsi sulle scuole del Sud deve far scoprire ai governatori di queste regioni una comunanza di interessi. Essi devono avere chiaro che la scuola è l’ultimo baluardo al degrado civile e sociale che affligge il Mezzogiorno e che se si abbassano i livelli di istruzione faticosamente raggiunti, si rimanda ad un futuro indefinito ogni possibilità di sviluppo e di riscatto delle nostre popolazioni.
Appare chiaro che, attraverso pretese come quelle della Lega di imporre forme di reclutamento legate ad una mistificata appartenenza dei docenti al territorio, si vuole dare l’avvio ad una politica di marginalizzazione del Mezzogiorno; si parte dalla scuola e poi si passerà ad altri settori della pubblica amministrazione, agli appalti per pubbliche forniture e via di questo passo. Si tratta di pretese che contrastano non solo con il diritto comunitario e con la nostra Costituzione, ma che non rientrano neanche nella vagheggiata prospettiva federale. Certo è difficile immaginare che i nostri giovani laureati, mentre possono partecipare a concorsi pubblici in tutti i 27 Paesi dell’Unione, non potrebbero farlo in Lombardia, nel Veneto e in Piemonte.
Proprio per questo, ai governatori delle regioni del Sud rivolgiamo l’appello a mettere la scuola al centro della loro azione di governo, la scuola prima di tutto e sopra tutto; a contrastare, anche all’interno della Conferenza permanente Stato Regioni, ogni forma di intervento che possa minare il carattere unitario della nostra scuola; a non subentrare con risorse regionali là dove, invece, dovrebbero essere garantite dallo Stato; ad indirizzare, anche di concerto con le province, ogni risorsa al miglioramento delle strutture scolastiche, delle dotazioni tecnologiche e della didattica; a bandire forme di finanziamento a pioggia che hanno trasformato le scuole in progettifici e allontanato gli studenti dall’impegno nelle attività didattiche fondamentali.
Per la nostre scuole sono essenziali, innanzitutto, un forte intervento di contrasto degli alti tassi di dispersione scolastica e azioni finalizzate al miglioramento delle competenze di base, oltre che il rafforzamento di percorsi di studi secondari tecnici e professionali che corrispondano alla caratteristiche vocazionali delle nostre regioni.
Proprio per questo, oggi, come non mai, la ricorrenza dell’Unità d’Italia deve dare nuovo impulso e senso all’azione politica, ma deve anche rappresentare un richiamo alla sensibilità di coloro che dell’unità d’Italia e dell’identità nazionale hanno fatto la loro “bandiera politica”, che la imperante realpolitik non può certo cancellare.
Francesco Greco