La scuola è un’istituzione con un preciso mandato costituzionale. Ecco perché non può essere regionalizzata.
Partiamo dal testo della Costituzione, il cui Titolo V fu novellato nel 2001 dal centro-sinistra con una riforma parlamentare, poi suggellata da un referendum nazionale confermativo.
Il terzo comma dell’articolo 116 precisa che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l) n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119.
Tra le materie su cui le Regioni possono chiedere forme e condizioni particolari di autonomia ci sono l’istruzione (art. 117, comma 3) e le norme generali sull’istruzione (art. 117, comma 2, lettera n), che dunque possono essere materia di legislazione concorrente ma anche in qualche modo sottratte alla legislazione esclusiva dello Stato. È costituzionalmente previsto, è giuridicamente legittimo. Né mi pare importante, in questa sede, ragionare sui cavilli formali, sulle contraddizioni giuridiche, sugli eventuali profili di incostituzionalità insiti in questi articoli riformati.
L’articolo 119 definisce i principi economici e finanziari entro i quali questo trasferimento legislativo deve essere perimetrato, in relazione ai vincoli nazionali ed europei, mentre l’articolo 117 mantiene in capo esclusivo allo Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Tra questi, naturalmente, il diritto all’istruzione.
Come si può configurare dunque la declinazione dei LEP per la scuola, che a prima vista sembrerebbero costituire l’unico argine ad un’inaccettabile frammentazione dell’unità del sistema nazionale di istruzione? In primis, attraverso la descrizione da parte del legislatore statale delle prestazioni necessarie alla compiuta esigibilità di questo specifico diritto; poi con l’indicazione precisa dei soggetti tenuti a organizzare e realizzare quelle prestazioni ed infine con la definizione dei costi standard.
Allo Stato compete dunque la definizione dei criteri che garantiscano il livello minimo atteso dai soggetti che accedono ai percorsi di istruzione; alle Regioni che avranno chiesto e ottenuto le forme e condizioni particolari di autonomia previste dal novellato Titolo V, competerà invece non solo il dovere di fornire la prestazione specifica ma anche la possibilità di variarla quantitativamente e qualitativamente su base locale, differenziandola sul territorio nazionale, in ragione di istanze economiche, culturali e politiche.
Tutti dunque invocano i LEP, organizzazione sindacali confederali comprese. Si dice che una delle ragioni per cui i LEP non hanno ancora trovato una puntuale definizione sia di natura economica ovvero, nello specifico, la difficoltà di indicare le diverse responsabilità statuali e locali nell’allocazione delle risorse. Certo è che l’esempio paradigmatico della progressiva regionalizzazione del Sistema Sanitario nazionale, se pure accompagnata dall’impegno dello Stato e degli enti locali sulla garanzia di quei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) che avrebbero dovuto impedire le inique differenziazioni che purtroppo ben conosciamo, non induce ottimismo sulle sorti della scuola italiana immaginata dalle Regioni che stanno chiedendo l’autonomia differenziata.
Ma qui vorrei provare a ragionare sul tema della regionalizzazione dell’istruzione assumendo un altro punto di vista: parlare dei LEP implica che si stia parlando di un servizio; che si stia ragionando sulla quantità e qualità di un servizio da erogare in modo differenziato a seconda dei bisogni dei cittadini e delle caratteristiche dei territori; che si stia calcolando il rapporto costi-benefici di un servizio e che se ne stiano identificando, appunto, i ‘livelli essenziali’ in relazione alle ‘prestazioni’ dell’ente che lo eroga e del cliente che ne usufruisce, in un’ottica di ottimizzazione economica e di customer caring a mio avviso impropriamente assegnata alla scuola.
Non intendo negare che ci siano esigenze di qualificazione o riqualificazione del sistema scolastico a livello generale e locale, peraltro generate proprio da una devolution già in atto da vent’anni, i cui effetti disastrosi dovrebbero indurre prudenza in chi evoca scuole regionali e forme ulteriori di differenziazione. Intendo affermare che ogni ragionamento sulla scuola e sui suoi ordinamenti deve partire dal corretto presupposto culturale e giuridico: la scuola non è un servizio, la scuola è un’istituzione con un preciso mandato costituzionale, l’attuazione del principio di uguaglianza e di pari opportunità sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione. Del principio di libertà della cultura sancito dall’articolo 33. Del principio di inclusione più alto che si possa immaginare sancito dall’articolo 34, che ci dice che la scuola è aperta a tutti e non solo ai cittadini italiani. A tutti.
Questo ci hanno insegnato e trasmesso padri e madri costituenti, che non a caso hanno assegnato alla scuola uno spazio gigantesco negli articoli della nostra Carta.
Se assumiamo questo presupposto come cornice dei nostri ragionamenti sull’autonomia differenziata o sul federalismo fiscale – competitivo (come lo vogliono le Regioni del Nord) o cooperativo (come lo immagina il Partito Democratico o la CGIL) – noi non possiamo fare altro che stralciare l’istruzione da qualsivoglia proposta di regionalizzazione.
La scuola è garanzia dell’unità del nostro Paese e dei diritti di cittadinanza e di vita di chi lo abita. La scuola è stata garanzia di unità all’indomani della formazione del Regno d’Italia, lo è stata all’indomani della proclamazione della Repubblica italiana. E lo è oggi, nelle difficili condizioni nazionali e sovranazionali in cui ci dibattiamo per ragioni economiche e politiche. La scuola è oggi l’istituzione che, forse davvero più di ogni altra, sta garantendo la tenuta sociale di milioni di cittadini disorientati, molti dei quali allo sbando.
Qualunque ipotesi di frammentazione – parziale o totale, blanda o radicale, con o senza LEP o fondi perequativi locali – del nostro sistema nazionale di istruzione, erroneamente concepito come servizio anche da tanti decisori politici evidentemente analfabeti sul piano costituzionale, deve immediatamente essere cancellata da qualunque accordo, qualunque intesa, qualunque disegno di legge, qualunque immaginario futuro.
Anna Angelucci