Nella mia carriera professionale ho incontrato soprattutto due generi di capi d’istituto.
Da Tecnica della Scuola 23 marzo 2013
La prima categoria, forse la più diffusa nel mondo della scuola, è quella del preside “hitleriano”, o dispotico, che gestisce l’istituzione in modo autocratico e verticistico, scambiando l’autonomia scolastica per una tirannide individuale e considerando i rapporti interpersonali in termini di supremazia e subordinazione. Questa figura di preside non ama affatto le norme e le procedure democratiche, scavalca gli organi collegiali ed assume ogni decisione in maniera oltremodo arbitraria e discrezionale senza consultare quasi mai nessuno. Costui si pone sempre in modo arrogante, protervo ed autoritario, dimostra (intenzionalmente o istintivamente) un cipiglio severo e spietato per intimorire e mettere in soggezione gli altri. Abusa spesso dei propri poteri e tende a commettere facilmente angherie e soprusi verso i sottoposti, trattati alla stregua di sudditi privi di ogni diritto ed ogni libertà, con i quali si comporta in modo inclemente.
La seconda tipologia, forse la più pericolosa, è quella del dirigente affarista e demagogo, che spesso si sovrappone e coincide con il tipo assolutista. Tale soggetto concepisce la scuola come una sorta di proprietà privata, la sfrutta per scopi di lucro e prestigio personale, per cui la gestisce in modo da trasformarla nel più breve tempo possibile in un progettificio scolastico. In tal senso si adopera per reperire ogni finanziamento aggiuntivo messo a disposizione delle scuole, da cui attinge elargendo i fondi senza un giusto criterio, applicando logiche clientelari e paternalistiche per favorire di solito una cerchia composta dallo staff dirigenziale. Da un tale assetto politico-gestionale scaturisce un carrozzone progettuale ed assistenzialistico carico di una pletora di iniziative didattiche eccedenti che non hanno alcuna ricaduta positiva sulla formazione educativa e culturale degli studenti. Una tale sovrabbondanza di sovvenzioni e di contributi finanziari in realtà serve a beneficiare esclusivamente una minoranza di faccendieri e di cortigiani, ma soprattutto ad arricchire il dirigente stesso.
Infine, esiste un’altra tipologia, che è quella del preside umano, con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti. E’ indubbiamente l’esemplare più raro, ma è l’unico che ispiri la mia simpatia e la mia approvazione sincera. Di rado se ne può incontrare persino qualcuno.
L’esser diventati più influenti e decisivi a livello politico-gestionale, sia pure in seguito ad un’investitura calata dall’alto e non per effetto di una designazione democratica proveniente dal basso, ha comportato per i dirigenti scolastici una serie di ineludibili responsabilità e di doveri che sono anche di natura informativa ed interpretativa, e consistono nel fornire in modo corretto e tempestivo il maggior numero di dati e cognizioni utili a far comprendere meglio le problematiche della “comunità scolastica” sia alla collegialità dei docenti e dei lavoratori della scuola, sia alle famiglie o, se si preferisce, all’“ utenza”, tanto per usare un gergo caro agli aziendalisti. Ormai nella scuola si sente sempre più spesso adoperare un lessico semi-imprenditoriale: termini come “profitto”, “competitività”, “produttività”, sono di uso comune tra i dirigenti scolastici che non sono più esperti di psico-pedagogia e didattica ma pretendono di essere considerati “manager”, benché siano in pochi a saper decidere come e perché spendere i soldi, laddove ci sono. Anche nella scuola sono stati introdotti organigrammi e metodi di gestione mutuati dalla struttura manageriale dell’impresa capitalista. In questo assetto gerarchico sono presenti vari livelli di comando e subordinazione. Si pensi ai “collaboratori-vicari” che, in base alle norme vigenti, sono designati direttamente dal dirigente, mentre in passato erano i collegi dei docenti che eleggevano dal basso i propri referenti a supporto della dirigenza. Si pensi alle Rsu, i rappresentanti sindacali eletti dal personale docente e non docente. Si pensi alle cosiddette “funzioni strumentali” . In altri termini si tenta di emulare, sia pure in modo maldestro, la mentalità utilitaristica, la terminologia economicistica, i sistemi e i rapporti produttivi, gli apparati di tipo industriale all’interno di un’istituzione come la scuola che dovrebbe perseguire quale fine ultimo “la formazione dell’uomo e del cittadino”. Altro che fabbricazione di merci.
E’ evidente a tutte le persone di buon senso che si tratta di uno scopo diametralmente opposto a quello che è l’interesse prioritario di un’azienda capitalista, vale a dire la massimizzazione dei profitti. I ministri e i “manager” dell’istruzione, in buona o in mala fede confondono tali obiettivi, alterando il senso primario dell’azione educativa, sempre più affine al ruolo di un’agenzia di collocamento o un’area di parcheggio per disoccupati e precari permanenti. Inoltre, taluni dirigenti concedono fin troppo spazio e credito alle meschinità umane: pettegolezzi, maldicenze, ipocrisie, sospetti, risentimenti personali e finti vittimismi, comportamenti e situazioni controproducenti che avvelenano l’ambiente lavorativo, pregiudicando il fine supremo dell’educazione alla convivenza democratica.
Se non si fosse compreso chiaramente, non nutro stima o simpatia verso tali figure, che ho sempre giudicato con diffidenza e criticità. Reputo i sedicenti o pretesi “manager” (non solo nel settore scolastico) come individui abili nell’arte della mistificazione, della dissimulazione, della manipolazione delle idee e delle persone. Insomma, una sorta di “virus” capaci di infettare e corrompere un corpo già potenzialmente malato come quello delle scuole (ma il discorso potrebbe essere esteso ad altri ambienti di lavoro) semplicemente per la loro presenza che rischia di infettare le cellule ancora sane ma vulnerabili. Il riferimento alla medicina è calzante in quanto è l’unico termine di paragone che consente di illustrare, con una metafora brutale quanto efficace, il convincimento che mi sono formato a proposito di tali dirigenti e degli ambienti che essi costruiscono a propria immagine e somiglianza. Presumo che nelle scuole private la situazione sia persino peggiore in quanto i dirigenti agiscono da padroni assoluti. Questo è l’esito a cui sono approdate le scuole dal giorno in cui è entrata in vigore la legge sulla “autonomia scolastica”, specie quella amministrativa-finanziaria, che assegna una serie di prerogative decisionali ai dirigenti e alle oligarchie che li affiancano nei loro arbitri.
In virtù della cosiddetta “autonomia” lo strapotere e l’autoritarismo paternalista di molti dirigenti dilagano oltre ogni misura ed è quasi impossibile contrastarli sul terreno della democrazia collegiale dato che gli organi collegiali sono esautorati, resi di fatto passivi e subalterni. Le scuole sono dunque gestite da presunti “manager”, molti dei quali perseguono un’opera di proselitismo nel senso deteriore del termine, esibiscono atteggiamenti troppo disinvolti e spregiudicati in chiave personalistica, frutto di una mentalità paternalista forgiata su favoritismi concessi a vantaggio di una cerchia ristretta composta da traffichini, lacchè e adulatori. Tali scuole infestate dal “malaffare” non sono luoghi moralmente integri e frequentabili dai discenti. Le scuole contaminate dagli “agenti patogeni” dell’affarismo, dell’utilitarismo e del clientelismo, che decompongono un corpo già malato con il rischio di infettare le cellule ancora sane, non sono ambienti educativi in cui si esplica la formazione dell’uomo e del cittadino, come detta la Costituzione. Sempre più scuole si configurano come progettifici, nel senso che hanno assunto la fisionomia di “fabbriche di progetti” che sfornano in dosi industriali (solo sulla carta) iniziative inutili e fasulle, in qualche caso fantomatiche, non per rispondere alle istanze culturali, psicologiche e sociali degli allievi, bensì solo per appagare gli appetiti venali e l’ambizione di potere (un miserrimo potere) dei dirigenti e dei loro cortigiani. I quali si mostrano ossequiosi verso le figure gerarchicamente superiori, arroganti verso i soggetti umili e sottomessi. Le malcapitate scuole sono diventate carrozzoni assistenziali e pseudo aziendali che curano gli interessi esclusivi di cricche formate da gente mediocre e venale, conformisti e faccendieri, che circondano e corteggiano i capi d’istituto. I quali agiscono sovente in modo cinico e spregiudicato, cercando di condizionare o manipolare a proprio piacimento le persone, quasi fossero una sorta di sultani locali. Inoltre, un dirigente serio e scrupoloso, che ha a cuore l’interesse degli studenti e degli insegnanti, dovrebbe preoccuparsi di promuovere un clima relazionale sereno e favorevole al processo di insegnamento e di apprendimento.
Laddove imperversano i notabili della politica, funzionari e burocrati ottusi, arrivisti, carrieristi e affaristi, la Politica, intesa nell’accezione più nobile della partecipazione diretta ai processi decisionali, degenera inesorabilmente in clientelismo e paternalismo che sono un malcostume antidemocratico. Tutto ciò che i notabili o i pretesi manager toccano, finisce per corrompersi e in ogni caso si deteriora. Si pensi alle scuole che essi organizzano e trasformano a propria immagine e somiglianza: mega-carrozzoni assistenziali, nella migliore delle ipotesi circhi in cui si spettacolarizza ogni iniziativa, in cui si spaccia per “cultura” un ventaglio di azioni pseudo formative prodotte in quantità industriale che rivestono una sola valenza, ossia una finalità affaristica e commerciale.
Non intendo generalizzare ragionando per categorie astratte o semplicistiche, tuttavia i presidi più “insidiosi” o “inaffidabili” sul piano della gestione politica delle scuole (a livello umano il discorso si fa ovviamente più complesso e profondo) sono quelli che, in malafede, vogliono a tutti i costi mostrarsi democratici e tolleranti verso chi dissente. E’ indubbio che il dirigente effettivamente democratico non si vede, né si giudica nei momenti di consenso ma di dissenso. E’ questo un caso emblematico in cui il “potere tautologico” della parola si contrappone alla “tautologia del potere” . L’evidenza tautologica, o l’ovvietà, è il paradigma attraverso cui il potere, una volta affermato, tende a rafforzarsi ed auto-legittimarsi. E’ facile professarsi, a chiacchiere, “convinti democratici” senza dover sostenere un contraddittorio, circondandosi di falsi adulatori in livrea che non vogliono, né sanno svolgere un ruolo critico sul piano della trasparenza e del controllo democratico. Il modo in cui si affronta la contestazione è la prova del nove per un vero democratico, a maggior ragione se si tratta del preside di un’agenzia educativa che adempie al ruolo, assai arduo e delicato, di formare i cittadini di domani.
Lucio Garofalo