22/04/2003
di Giuseppe Bertagna
Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione e della Comunicazione, Università di Bergamo
L’8 aprile scorso, nella sede dell’Enciclopedia italiana, si è svolto un seminario di discussione sulle ipotesi di riforma del sistema di istruzione e di formazione presentate dall’Associazione per gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche e sull’innovazione nelle pubbliche amministrazioni (Astrid), presieduta dal sen. Franco Bassanini (Ds). Le ipotesi in questione sono state elaborate da un Gruppo di lavoro al quale hanno contribuito Livia Barberio Corsetti, Luigi Berlinguer, Vittorio Campione, Gianfranco D’Alessio, Gaetano D’Auria, Gian Candido De Martin, Marina Gigante, Giunio Luzzatto, Carlo Marzuoli, Nadia Masini, Guido Meloni, Alessandro Pajno, Enrico Panini, Annamaria Poggi, Silvana Riccio, Adriana Vigneri. Il documento, assemblato e coordinato da Gian Candito de Martin, è reperibile in www.astridonline.it. Il testo che pubblichiamo è stato letto dall’autore nel corso del seminario.
Dopo aver ringraziato dell’invito, una premessa. La scuola, i figli, le nuove generazioni, non sono di una parte del Paese. Sono di tutto il Paese. Di quello presente e di quello futuro. Una doppia responsabilità, quindi. Cercare di abbattere gli schieramenti ideologici e i pregiudizi politici, nel campo dell’istruzione e della formazione, e di mettere insieme l’intelligenza critica e l’impegno di tutti, è il minimo che si debba fare. Assumerci, indipendentemente dalle appartenenze politiche e culturali, il compito di ragionare non per tattica, ma per strategia; mirare alla soluzione dei problemi con lungimiranza, non afflitti dalla miopia partigiana. Su un tema così decisivo è solo buon senso costruire la speranza di un futuro migliore di quello presente. Personalmente è l’unica trasversalità che condivido e per la quale cerco di portare il contributo di cui sono capace.
Questo premesso, ritengo, perciò, inutile, in questa sede, esplicitare i numerosi punti di consenso con diagnosi e proposte presentate nel paper in discussione. Inutile non sul piano qualitativo, ma quantitativo e metodologico: i minuti a disposizione per i singoli interventi, infatti, sono pochi; inoltre, se si vuole ulteriormente allargare il consenso sulle idee e sui progetti in discussione, conviene adesso soffermarsi su ciò che divide piuttosto che su ciò che già unisce, il tutto per verificare la possibilità di chiarire anche queste residue divisioni e superarle.
Sempre alla luce della premessa esplicitata in apertura, in secondo luogo, non attribuisco importanza alle contraddizioni che una neanche troppo attenta lettura interna del documento consente di cogliere. In un testo frutto della collaborazione di più persone, infatti, il rischio è pressoché inevitabile. Anche se, per quanto mi riguarda, registro con sorpresa la diversità di tono e di argomenti tra le prime sezioni e l’ultima intitolata «Le cose da non fare». Qui, forse perché si assume un registro più politico che tecnico, ci si avventura in tesi che, a mio avviso, per essere proibizioniste più che costruttive, finiscono o per essere incongrue rispetto ad altre espresse nelle pagine precedenti: (cfr., ad esempio, il 2° capoverso di p. 25 e il 1° di p. 22) o, nella foga polemica, per risultare addirittura regressive.
Quale «ciclo formativo di base»?
Nello specifico, trovo ad esempio concettualmente regressivo parlare ancora di «ciclo formativo di base» limitato alla scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I grado, escludendo il secondo ciclo di istruzione e di formazione: ormai, infatti, dopo la riforma Moratti (legge 28 marzo 2003, n. 53), il «ciclo formativo di base» per tutti i cittadini italiani è di 12 anni o, comunque fino all’ottenimento di una qualifica che obbedisca ai livelli essenziali di prestazione (Lep) stabiliti dallo Stato (art. 117, co. 2, punto m). D’altronde, è il minimo che serva in una società che si vuole della conoscenza e per la quale spesso si abusa, almeno per il nostro Paese, della qualifica di postindustriale. Viceversa, senza una solida abitudine all’apprendimento critico in tutti i campi dell’esperienza umana (lavoro compreso, ovviamente) e senza ben organizzate strutture per l’istruzione e la formazione professionale iniziale, come sperare di educare i soggetti al life long learning, all’istruzione e alla formazione professionale ricorrente, alla riconversione umana e professionale continua e creativa?
Leggendo, invece, quest’ultima parte del documento di Astrid, è come se si volessero riproporre, oggi, i dibattiti che si facevano negli anni cinquanta sull’art. 34, co. 2 della Costituzione: «L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». Ci si chiedeva, infatti, allora, se fosse stata obbligatoria solo l’istruzione «inferiore», per intenderci quella postelementare di serie B, per i più, cioè per «il contadino», e non, per continuare nella famosa metafora salveminiana di inizio secolo, quella secondaria per «il filosofo», oppure se era obbligatoria un’istruzione dove la qualificazione di «inferiore» era semplicemente descrittiva e topografica, nel senso che stava prima di quella «superiore», la quale, poi, a rigore, era quella universitaria; quindi, se era possibile leggere quel comma un po’ equivoco non ravvisando nessuna implicita gerarchizzazione, nell’aggettivo «inferiore», ma piuttosto, come testimoniava deitticamente l’«almeno», intravedendo soltanto il programma futuro di dover assicurare a tutti i cittadini italiani, senza distinzioni di classe, di sesso, di religione ecc., l’istruzione «inferiore alla superiore» necessaria per essere uomini, cittadini e lavoratori nella complessità sociale del proprio tempo. Ebbene, la scelta di Astrid di parlare di «ciclo formativo di base» solo per le scuole prima citate, mi pare riproponga a quaranta anni di distanza, anche a non volerlo, il primo senso del termine ‘inferiore’. Tanto più se presuppone, come, in realtà, lascia intendere, che, dopo il «ciclo formativo di base», si confermerebbe l’attuale doppia possibilità: «un obbligo scolastico» di serie A, perché coinvolgerebbe chi poi prosegue gli studi superiori, e «un obbligo formativo» di serie B, perché destinato a chi, non riuscendo a scuola, non solo non avrebbe lo sbocco agli studi superiori, ma non avrebbe nemmeno altra scelta che lavorare, senza poter prevedere un suo possibile rientro nei circuiti dell’istruzione e della formazione: alternanza scuola lavoro; infatti, che rientro si potrebbe mai ipotizzare per giovani che frequentano i bienni di troppa attuale formazione professionale o si limitano all’apprendistato così come è oggi?.
Mi pare, invece, netta sia nella legge Moratti, sia, soprattutto, nei documenti che finora l’hanno accompagnata (e mi riferisco, in particolare, al Profilo educativo, culturale e professionale per il secondo ciclo che è unitario per il sistema dell’istruzione liceale e per il sistema dell’istruzione e formazione professionale, e che vale, quindi, per questo secondo sistema come determinazione dei Lep) l’affermazione del principio opposto. Per 12 anni, se esistono, come è ragionevole, diversità di istruzione e di formazione, non devono, per questo, esistere gerarchizzazioni qualitative tra esse. Questa è «l’istruzione inferiore» di cui parlava (e parla) la Costituzione del 1948, ma aggiornata alle esigenze di piena umanizzazione di ciascuno nella società del nostro tempo. Gli «almeno otto anni» del 1948, insomma, sono diventati 12, nel 2033. Né c’è prima l’istruzione «inferiore» (scuola primaria e secondaria di I grado) considerata «obbligo scolastico», a cui segue ancora un altro segmento di «obbligo scolastico» di serie A, oppure, a lato, un segmento parallelo di «obbligo formativo» di serie B, come è ora. L’«istruzione inferiore» di pari dignità giunge semplicemente, per tutti, «almeno fino al nuovo titolo di qualifica», quello rinnovato sulla base dei Lep, e si sviluppa, nel secondo ciclo, sia nell’istruzione liceale sia nell’istruzione secondaria che, al posto di essere liceale, è di istruzione e formazione professionale (ovvero nel percorso di «istruzione e formazione professionale» regionale di cui parla la Costituzione riformata). Un salto concettuale, civile e pedagogico che mi domando perché Astrid, al posto di avvalorare in funzione di una sua ulteriore e definita consacrazione nei decreti delegati di cui si aspetta la redazione, invece non sottolinea, e tende anzi a dissimulare e svilire.
Al di là di questi rilievi, comunque, per migliorare il testo in discussione, credo sia opportuno soffermarsi su alcuni altri nuclei problematici che sottopongo volentieri al vaglio critico degli amici di Astrid.
Costituzione e legge delega: la prima volta di un’accoppiata
Anzitutto, non può sfuggire un dato storico innegabile. Nel bene e nel male, la riforma Moratti è la prima riforma organica dell’intero sistema di istruzione e di formazione dai 3 ai 21 anni che è stata approvata all’indomani di una riforma della Costituzione.
Tutti ricorderanno le speranze suscitate dalla Costituzione del 1948 anche a proposito di riforma del sistema di istruzione e di formazione. Un deciso congedo dall’eredità strutturale fascista sembrava a portata di mano. Tutti, però, sappiamo come andò a finire nell’immediato dopoguerra.
Guido Gonella, ministro della P.I., fece sforzi encomiabili per 4 anni. Coinvolse le migliori intelligenze del Paese. Il suo tentativo fallì sul piano parlamentare. Il sistema di istruzione e di formazione italiano rimase, nel complesso, in particolare sul piano ordinamentale, quello costruito dal fascismo. Nonostante i significativi cambiamenti introdotti, la successiva politica scolastica della Repubblica non ne modificò a fondo né la fisionomia, né l’anatomia. Gli anni di istruzione obbligatoria restarono, infatti, quelli introdotti da Gentile nel 1923 e confermati dalla Costituzione: otto. L’«almeno» di cui parlava l’art. 34 co. 2 della Costituzione restò ritratto e inesploso fino alla legge 9 del 1999, quando diventarono 9. Anche la scuola media unica del 1962 era, tutto sommato, niente più che il perfezionamento di un disegno pedagogico e culturale già tracciato dai teorici che ispirarono, nel 1939, la riforma Bottai (teorici, guarda caso, che poi non furono affatto ininfluenti tra il 1956 e il 1962, gli anni di gestazione della scuola media unica).
La recente riforma del Titolo V della Costituzione (2001), invece, ha introdotto una netta discontinuità con il quadro ereditato dagli ultimi ottanta anni del secolo scorso. La riforma Moratti ha fatto lo sforzo, o è stata obbligata, di tenerne conto. Non credo che sia una circostanza da sottovalutare o da ridimensionare. Deve pur significare qualcosa il fatto che, nella storia d’Italia, è la prima volta che a una riforma della Costituzione segue una legge di riforma del sistema di istruzione e di formazione ad essa collegata. E poiché le riforme costituzionali non avvengono una volta a decennio, si può immaginare che la stessa cosa valga anche per le leggi che intendono darvi corso. Sarebbe un imperdonabile errore trascurare la circostanza per motivi di ostilità politica contingente. Siamo, insomma, dinanzi, ad un plesso normativo che si è costretti a guardare e leggere con categorie forse poco frequentate, ma non per questo meno pertinenti.
Da quattro a due: il senso di una semplificazione
In questo contesto, mi ha colpito, perciò, molto, nella lettura del documento Astrid, ciò che reputo la permanenza di un linguaggio del passato e, quindi, se si ascolta Wittgenstein, anche di un mondo del passato.
Per farmi intendere, riparto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2003, n. 3. Come riconosce più volte il documento Astrid, essa identifica due sistemi educativi: uno «di istruzione», a legislazione concorrente tra Stato e Regioni, salvo che per le «norme generali» ed i «principi»che restano alla legislazione esclusiva dello Stato; e uno «di istruzione e formazione professionale» a legislazione esclusiva regionale, salvo che per i Lep, che competono allo Stato.
La riforma Moratti ne ha preso atto. Di conseguenza, ha scompaginato molte espressioni che, in tema di istruzione e di formazione, ci erano ormai diventate abituali.
Non parla più, infatti, ad esempio, di istruzione classica e tecnica (come fece la legge Casati del 1859), oppure di istruzione liceale e magistrale, istruzione tecnica, istruzione professionale e formazione professionale, come ci aveva abituato a fare il fascismo tra il 1927 e il 1939 e come i successivi 50 anni di Repubblica, in sostanza, non solo confermato, ma anche amplificato.
Azzera questa quadripartizione concettuale, linguistica e ordinamentale (perfino burocratica: si ricordino le vecchie direzioni generali del Ministero) e la riduce, invece, alla bipartizione di cui parla la Costituzione riformata: «sistema dell’istruzione» (infanzia, primaria, secondaria di I grado, Licei) e «sistema dell’istruzione e formazione professionale» che distingue tra collocato nel II ciclo e nella Istruzione e Formazione tecnica superiore. Il primo dai 3 ai 19 anni. Il secondo dai 14 ai 21. Dai 14 ai 18 anni, inoltre, ambedue i sistemi, quello dell’istruzione e quello dell’istruzione e formazione professionale, in parallelo, ugualmente educativi e di pari dignità culturale, garantita, quest’ultima, per il primo sistema, dalle «norme generali» e dai «principi» stabiliti dallo Stato e, per il secondo, come ben mette in evidenza Astrid, dai Lep sempre stabiliti dallo Stato. Ambedue, infine, sottoposti alle valutazioni (a) di sistema e (b) degli apprendimenti, condotte dall’Invalsi, sebbene, per l’istruzione e formazione professionale, con tutte le prevedibili concertazioni con le Regioni.
Il quadro, come si intuisce subito, è talmente inconsueto per le nostre abitudini che ritengo una forzatura inaccettabile continuare a leggerlo come una mera prosecuzione dell’esistente e delle usuali categorie interpretative.
Ecco perché, a mio avviso, continuare a parlare, ad esempio, come fa la legge Bastico dell’Emilia Romagna, ma anche Astrid, di «formazione professionale» o, come sollecita Confindustria, di «istruzione tecnica», magari da «nobilitare», facendola transitare tra gli indirizzi del Liceo tecnologico, è un significativo contributo all’adombramento del quadro innovativo ricavabile dal combinato disposto del Titolo V e della riforma Moratti.
Infatti, al posto di impegnarsi insieme a ripensare l’esistente e a ristrutturarlo creativamente dentro un unitario «sistema dell’istruzione» liceale, da un lato, e un unitario «sistema dell’istruzione e della formazione professionale» che rifonda organicamente natura ed identità degli istituti tecnici, professionali e della formazione professionale, con l’uno e l’altro sistema tra loro interconnessi, dall’altro lato, si continua a ragionare nei termini tradizionali di licei, istruzione tecnica, istruzione professionale e formazione professionale. Pensare che tutta questa cura analitica nel cautelarsi dall’impiego dei vecchi termini sia soltanto il segno di un’indulgenza nominalistica significa, mi pare, rinunciare per principio a cogliere l’ampiezza della sfida ordinamentale, culturale e pedagogica postaci dal combinato disposto del Titolo V e della riforma Moratti.
Per continuare con un altro esempio il discorso sull’inadeguatezza ermeneutica delle vecchie logiche per comprendere le nuove, si ragioni, inoltre, sui seguenti passaggi argomentativi.
A) Oggi, di fatto, al di là di tutte le dichiarazioni teoriche di segno contrario, esiste una gerarchizzazione culturale che è anche sociale tra Licei, Istituti tecnici, Istituti Professionali e Centri di Formazione Professionale. Essi non sono, né sono percepiti socialmente, di pari dignità.
B) Il Costituente ha introdotto la normativa che sappiamo. Non si può, però, ragionevolmente pensare che abbia immaginato di ridurre questi quattro sistemi ai due per l’istruzione, l’uno, e per l’istruzione e la formazione professionale, l’altro, solo per confermare, semplificandola un po’, la imbarazzante gerarchizzazione prima ricordata. Anche alla luce degli articoli 118 e 119 della Costituzione, pare più ragionevole ipotizzare che abbia semmai introdotto questi due diversi sistemi per procedere all’obiettivo contrario: scommettere sulla significativa attenuazione, se non proprio sulla scomparsa, della gerarchizzazione esistente.
C) In modo coerente con la forma e, per quanto mi riguarda, anche con la sostanza del Titolo V, la riforma Moratti, con tutti i difetti che ha e che le si possono giustamente rimproverare, lascia, tuttavia, ancora aperta la scommessa del superamento della gerarchizzazione culturale e sociale prima menzionata. Basta, ad esempio, per offrire un contributo in proposito, che i decreti attuativi puntino sull’irrobustimento quantitativo e qualitativo del «sistema dell’istruzione e della formazione professionale», e non seguano, o almeno non accentuino, la purtroppo peccaminosa inclinazione presente nella legge, peraltro contrastata da alcuni ordini del giorno accolti dal Governo, a moltiplicare gli indirizzi liceali, prevedendo ulteriori indirizzi per l’artistico, l’economico e il tecnologico, con il neanche troppo segreto proposito di svuotare di spessore, di opportunità, e di appeal il futuro «sistema dell’istruzione e della formazione professionale» regionale, privandolo dell’apporto che ad esso può portare in termini di strutture, di know how e di progettualità l’attuale istruzione tecnica.
D) Che cosa fa Astrid, in questo contesto così cruciale, aperto e precario? Invece, come si augurano tutti gli interessati a costruire un sistema di istruzione liceale e di istruzione e formazione professionale di pari dignità, di incalzare il Governo affinché non segua, nei decreti attuativi, la via che porta alla bulimia liceale e all’anoressia dell’istruzione e della formazione professionale regionale, oggettivamente un modo certo per mantenere la gerarchizzazione di cui al punto A), ripropone la solita polemica sulla canalizzazione precoce, senza accorgersi, in questo modo, di confermare proprio ciò in teoria vorrebbe togliere. Il vero problema della giustizia educativa, infatti, non è quello della «scelta precoce» a 13,5 tra licei e istituti, ma, anzitutto, quello di poter scegliere davvero tra due offerte formative equivalenti e, in secondo luogo, quello di poter contare con altrettanta certezza su un’efficace sistema che assicuri e garantisca, come impone peraltro la legge Moratti, i passaggi tra i due sistemi. È su queste due strategie, dunque, che andrebbero spostati i riflettori, non su recriminazioni che finiscono per essere soltanto ideologiche.
Nostalgie anacronistiche
Capisco che non sia facile confrontarsi con il nuovo. Capisco pure che, per la prima volta negli ultimi 50 anni, non sia stato l’apparato scolastico (sindacati, burocrazia ministeriale, associazioni professionali, riviste didattiche, professori di pedagogia, gruppi di studio scolastici ecc.) a guidare e ad imporre il cambiamento della scuola, con la politica che poi ratifica gli equilibri culturali e ordinamentali raggiunti (emblematica la vicenda relativa della riforma della scuola elementare del 1990, venuta ben 5 anni dopo il varo dei nuovi Programmi del 1985 e l’attivazione, da parte del Ministero, di un Piano quinquennale di formazione e aggiornamento tra i più cospicui che la nostra repubblicana ricordi). Per la prima volta negli ultimi 50 anni, infatti, senza per questo voler esprimere giudizi di valore, è un fatto che, con l’autonomia delle istituzioni scolastiche, prima, il Titolo V e la legge Moratti, poi, si sia, per molti aspetti, rovesciato questo schema: è accaduto che sia stata la politica a correre più della scuola e a disegnare un’anatomia e una fisiologia del sistema educativo di istruzione e di formazione molto diverse da quelle ereditate. A volte talmente diverse, da apparire perfino tra loro estranee.
Si pensi, per esempio, a che cosa possa significare, per molti funzionari, dirigenti e docenti, passare dalle abitudini dello statalismo in cui sono cresciuti a quelle richieste dal regionalismo e dal federalismo solidale; da un sistema di istruzione e di formazione a gestione e ad organizzazione gerarchica ad un sistema a gestione e ad organizzazione poliarchica; dal rassicurante modello del welfare state alla responsabile valorizzazione della sussidiarietà orizzontale e verticale; da un sistema amministrativo che trattava le famiglie e i cittadini come oggetti della propria azione plasmatrice ad un sistema amministrativo chiamato ad improntarsi sul principio opposto: a lasciarsi plasmare attivamente dalle famiglie e dai cittadini, recuperando il suo originario significato di «servizio»; ecc.
Io non so ancora dire se questa ripresa della progettualità politica che si impone su quella scolastica sia un bene o un male. Né so se è la politica ad essere e ad essere stata pretenziosa, se non velleitaria, o se siano, e siano state, la scuola e il suo establishment sindacalburopedagogico a restare realisti, se non conservatori.
Mi limito ad osservare che, dopo il varo di un nuovo testo costituzionale e di una legge che gli vuole dare corso, sarebbe ora dovere di tutti, indipendentemente dalla proprie preferenze, confrontarsi con il nuovo quadro e fare ogni sforzo per tradurlo in azioni e strutture senza tradimenti, al meglio possibile. Senza volervi necessariamente «resistere», magari intensificando l’infinito per tre volte. Senza, però, per questo, arrendersi agli eventi, ma piuttosto correggendoli eventualmente in itinere e giungendo alle mediazioni operative ritenute più plausibili.
Faccio, comunque, alcuni esempi di questa resistenza al nuovo che, essendo tutta ripiegata sull’interdizione dell’incoato, finisce più per proibire che per far essere, costruire e correggere.
1. Tutto il documento Astrid è attraversato da una palpabile diffidenza nei confronti della «formazione professionale». Essa sarebbe di «preparazione al lavoro» e «in funzione del lavoro e dell’occupazione». Vero: ma questo vale per l’art. 35 co. 2 della Costituzione, che riguarda i rapporti economici e l’elevazione dei lavoratori. Ben altra impostazione ha la questione nel combinato disposto Titolo V e riforma Moratti. Qui, infatti, si afferma il principio che, per 12 anni, ogni cittadino italiano ha il diritto di incontrare un’istruzione e una formazione che non sono al servizio del lavoro e dell’occupazione, ma della persona. Si incontrano, quindi, conoscenze (sapere) ed abilità (sapere del fare) disciplinari non perché ciò sia un valore in sé, ma perché ciò fa crescere e maturare come persone: ci rende più competenti nel pensare, giudicare, lavorare, amare, sentire, gustare, vivere con gli altri meglio. Analogamente, nei 12 anni, si possono, e a mio avviso si devono, fare esperienze di alternanza scuola lavoro (laboratori, stage, tirocini formativi), e perfino di apprendistato con lavoro vero e proprio svolto in autonomia, non perché ciò sia un valore in sé, quindi perché bisogna imparare comunque un lavoro per l’occupabilità, quanto perché imparare ad enucleare criticamente dalle competenze necessarie per svolgere qualsiasi lavoro le conoscenze e le abilità che incorporano fa crescere e maturare come persone: il lavoro, cioè, come occasione per accrescere la competenza intellettuale, morale, sociale, espressiva, operativa, motoria, estetica di ciascuno. La fp dei 12 anni, insomma, non è, non deve essere, affatto la fp che conosciamo: è nient’altro che «sistema dell’istruzione e della formazione professionale» di cui parla la Costituzione, ripresa dalla riforma Moratti: istruzione «e» formazione professionale, non «istruzione» separata dalla «formazione professionale», non «cultura generale» che non è «cultura professionale»; e viceversa; ma l’intreccio e il reciproco rafforzamento delle due. Una cosa che, per la verità, è da costruire, ma che certo non si riuscirà mai a concretizzare nemmeno in parte se si continua a confondere «l’istruzione e formazione professionale» dei 12 anni di diritto dovere perfino a livello teorico con ciò che non è e non vuole essere. E, soprattutto, se non si chiamano a contribuire alla sua definizione le migliori intelligenze culturali e pedagogiche disponibili, indipendentemente dagli schieramenti politici di appartenenza.
La diffidenza che mi sarei aspettato dagli intellettuali di Astrid, dunque, non era tanto quella rivolta all’«istruzione e formazione professionale» dei 12 anni di diritto dovere di cui alla legge Moratti, bensì alla «formazione professionale» di cui all’art. 35 della Costituzione, ancora ferma, oggi, 2003, società della conoscenza e postindustriale, alla persuasione di potersi costituire senza «istruzione» e, soprattutto, non avendo come fine la maturazione della persona attraverso il lavoro, ma il mero adattamento della persona allo svolgimento di un lavoro. Il problema davvero epocale con cui tutti dobbiamo confrontarci, infatti, è questo: se anche la formazione professionale ex art. 35 della Costituzione non si trasformerà in «istruzione e formazione professionale» con alti scopi educativi e critici, sarà messo a repentaglio lo stesso sviluppo del sistema Paese, visto che senza persone innovative, critiche, capaci di scoperte tecnologiche, di gusto, responsabili sul piano morale e sociale, con congrue e positive relazioni interpersonali, in una parola «ben educate», è retorica parlare di «crescita sociale ed economica». Non per nulla queste consapevolezze si ritrovano anche nella legge 30/2003 sul lavoro e l’occupazione, così fortemente voluta dal compianto prof. Marco Biagi.
2. Secondo esempio di fuga dal nuovo. Il documento Astrid sostiene la necessità che lo Stato detti le «norme generali» sull’istruzione, determini i «Lep» per il servizio di istruzione e formazione professionale regionale e fissi i «principi» fondamentali in materia di istruzione a cui devono attenersi le Regioni nell’esercizio dei loro poteri normativi regolamentari perché è fondamentale «l’esigenza di assicurare un quadro uniforme ad un sistema basato sul valore legale dei titoli». Francamente giustificare cose così importanti come le «norme generali», i «Lep» e i «principi» per mantenere il valore legale dei titoli di studio mi pare sproporzionato. Un po’ come avere a disposizione un maglio per schiacciare una pulce. Si giustificano, infatti, più in nome dell’equità e della giustizia educativa, per non privare ogni cittadino italiano del diritto sostanziale all’istruzione e alla formazione, che dei titoli formali di studio.
Questa ossessione delle etichette sui barattoli piuttosto che dei contenuti dei barattoli, del resto, è abbastanza pericolosa. Non a caso ebbe la sua consacrazione quando Mussolini, alla fine degli anni venti del secolo scorso, sciolse la contesa sulla natura e sulla collocazione dell’istruzione tecnica e professionale tra il suo Ministro dell’Economia, l’on. Belluzzo, e il suo Ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele a tutto vantaggio del secondo: la scuola doveva servire più come apparato ideologico dello stato, da un lato, e come agenzia di credenziali burocratiche per l’accesso ai posti e ai ruoli ben governati dal regime ai fini politici del consenso che come istituzione autonoma di istruzione e di formazione, legata al territorio e alle professioni, nella quale contassero più le reali competenze maturate e, soprattutto, socialmente e riconosciute che i titoli dichiarati sulla carta. Ad oltre ottant’anni di distanza sarebbe ora, credo, di cominciare ad invertire con energia la tendenza, e prendere sul serio le virtù delle competenze, peraltro molto decantate in questi ultimi dieci anni non solo in Italia (cfr. la stagione Berlinguer), ma anche a livello europeo. Se non si lancia questo messaggio, infatti, da un lato, non si comprimerà a sufficienza la tendenza di ogni apparato, compreso quello formativo, alla burocratizzazione e all’autoreferenzialità, dall’altro lato, non si porteranno gli incentivi necessari a diminuire la distanza tra esiti del sistema formativo e bisogni della realtà economica e sociale a cui devono corrispondere. A meno che si immagini davvero un sistema di istruzione e di formazione come una variabile indipendente dal territorio, dalla società e dal mondo del lavoro, e si ritenga tollerabile sul lungo periodo che un laureato su 2 che non svolga il lavoro per cui si sarebbe dovuto preparare (con punte di 2 su 3 per i laureati in discipline letterarie).
3. Terzo esempio di inerzia dell’esistente. Astrid propone un «sistema integrato dell’istruzione liceale e dell’istruzione e formazione professionale». Per la verità, quest’ultima espressione è usata, per chiarire l’oggetto del contendere, da chi scrive. La dizione precisa del documento, infatti, è «sistema integrato dell’istruzione e della formazione professionale, in una prospettiva di realizzazione di un sistema educativo unitario». I presupposti di questo modo di esprimersi sono presto detti.
Per gli estensori dell’ipotesi di Astrid, infatti, esiste il sistema dell’istruzione statale (quello che la legge Moratti, dai 14 ai 19 anni, chiama liceale). Esiste poi la formazione professionale regionale, che non essendo, giustamente, così come è, spendibile ai fini dei 12 anni di diritto dovere di istruzione e formazione previsti dalla stessa legge, necessita di evidenti «integrazioni». In questo senso, si tratterebbe di fertilizzare la formazione professionale regionale con l’istruzione statale, e di costituire il «sistema educativo integrato» a cui si accennava poc’anzi. Ma, ecco il punto: la proposta potrebbe essere chiara se ci si riferisse alla situazione così come si presenta oggi, con tanto di licei, istituti tecnici e professionali statali e con tanto di formazione professionale regionale. Le esperienze di integrazione tra istruzione professionale statale e formazione professionale regionale sono, del resto, numerose e datano dal 1988 in avanti. Esistono da anni esperienze di integrazione, inoltre, anche tra istituti tecnici statali e formazione professionale. Dall’approvazione della legge 9/99, poi, esistono esperienze di integrazione perfino tra licei statali e formazione professionale regionale.
Il fatto è, tuttavia, che la riforma del Titolo V e della legge Moratti ha cambiato, come ho cercato di argomentare nel ‘ 3°, le carte in tavola. Si può ancora fingere che ciò non sia accaduto e che ci troviamo dinanzi a norme pleonastiche dell’esistente?
La proposta di Astrid (come della legge Bastico dell’Emilia Romagna) mi pare vada proprio in questa direzione. Legge il Titolo V e la riforma Moratti sotto le lenti della figura retorica della preterizione. Per questo, ad esempio, giunge ad interpretare l’endiadi «istruzione e formazione professionale» di cui parla la Costituzione semplicemente come la conferma dello status quo. Al massimo, concede che, usando questa espressione, il costituente potesse al più esprimere l’orientamento di assegnare alle Regioni il governo e la gestione, oltre che della formazione professionale, anche degli attuali istituti professionali statali che non si siano licealizzati (cioè, in sostanza, che non si siano quinquennalizzati: praticamente la quasi totalità). Questo concesso alle Regioni, però, resterebbe in ogni caso fisso il principio per cui il sistema di istruzione di cui parla la Costituzione, a legislazione statale per le norme generali e concorrente per il resto, sarebbe chiamato ad «integrarsi» con quello regionale. Il che sarebbe come dire: prima del Titolo V e della riforma Moratti «l’integrazione» si registrava tra scuola statale (liceale, tecnica e professionale) e centri della formazione professionale regionale; dopo il Titolo V e la riforma Moratti l’integrazione, per Astrid (e per la legge Bastico dell’Emilia Romagna), va realizzata tra il «sistema dell’istruzione» (che sarebbe composto dai licei, dagli istituti tecnici e dagli istituti professionali quinquennali) a dominanza statale e il «sistema dell’istruzione e formazione professionale» regionale (che risulterebbe composto dall’attuale formazione professionale e dagli attuali corsi brevi dell’istruzione professionale statale). Insomma, se prima la formazione professionale regionale trovava una legittimazione educativa e culturale che la sottraeva dalla sua oggettiva condizione di minorità solo «integrandosi» con i licei, gli istituti tecnici e gli istituti professionali, adesso che la formazione professionale regionale avrebbe assorbito l’istruzione professionale statale breve e sarebbe diventata «istruzione e formazione professionale», non potrebbe comunque rivendicare una forza e una dignità educativa e culturale autonoma, ma troverebbe ancora una volta nobilitazione culturale e sociale solo se si «integrasse» con il «sistema dell’istruzione» composto da licei, istituti tecnici e istituti professionali quinquennali.
Come si vede, in definitiva, con questa lettura, non si fuoriesce dal paradigma della gerarchizzazione culturale e, quindi, anche sociale dei percorsi formativi del secondo ciclo, con uno di serie A e l’altro di serie B, di cui si parlava. Il secondo potrebbe aspirare all’altezza del primo solo attraverso l’artificio di un matrimonio morganatico. Con questa lettura, inoltre, potremmo rappresentare la vicenda di una Costituzione riformata dopo 48 anni dalla precedente e di una legge delega che tenta per la prima volta di applicarla con il titolo della nota commedia sakespeariana Much ado about nothing.
A parte ciò che possono pensare le Regioni di questa interpretazione molto attenuata della recente normativa (sono tutte disposte a riconoscersi talmente inaffidabili da aver bisogno di una sovranità limitata? Nessuna presenterà ricorso alla Corte costituzionale?), c’è da osservare, tuttavia, che essa presenta anche ulteriori complicazioni, questa volta non istituzionali, ma tecniche e culturali.
I percorsi formativi, e soprattutto la distribuzione dei loro contenuti, sono ovviamente condizionata dai Profili educativi, culturali e professionali che si vogliono perseguire. Il paradigma dell’integrazione, al contrario, sposta per forza di cose il rapporto fini-mezzi, traguardo-percorso, risultato-procedura. Se si tratta di integrare i percorsi e di renderli intercambiabili, infatti, a parte il pedaggio pagato alla formula dell’apprendere ad apprendere, per cui pare che tutti possano fare le stesse cose alla fin fine perché i contenuti formativi sarebbero indifferenti alle competenze finali attese, è naturale concludere che, in questa maniera, la specificità dei Profili si dovrebbe molto stemperare. Il mezzo, il percorso, la procedura si promuovono essi stessi a fine, a valore in sé. Parlare di «biennio integrato» dai 14 ai 16 anni, per esempio, e a maggior ragione negli anni di studio successivi, significa, quindi, ritenere che la specificità pluriennale dei percorsi e l’organicità ben distribuita dei loro contenuti sia del tutto ininfluente rispetto ai risultati che si volgiono raggiungere. L’integrazione, insomma, diventa il vero valore del sistema di istruzione e di formazione.
Ma se è così, perché ridurre l’integrazione solo «al biennio» e non estenderla all’intero percorso? Forse perché dai 14 ai 16 anni si acquisiscono competenze indipendenti dalle future utilizzazioni professionali, mentre dopo ci si deve confrontare con specifiche competenze professionali? Ma a parte la discussione sulla sostenibilità di una tesi di questa natura in una stagione epistemologica che vede esaltata la complessità e la contestualità, non ci si accorge che, in questo modo, si ripropone la tradizionale idea di una separazione tra cultura generale e cultura professionale, tra istruzione e formazione che si dichiarava di voler togliere? Non si aveva sostenuto che l’integrazione fosse un valore in sé? E se esiste separazione, che cosa impedirà di considerare di serie A il percorso della cultura generale e di serie B quello della cultura professionale? Solo il fatto che i giovani hanno 16 anni? Ma perché una scelta culturale e metodologica sbagliata e inaccettabile a 14 dovrebbe diventare giusta e consigliata a 16? Non sarebbe più conveniente per tutti mirare, invece, alla pari dignità dei percorsi e, quindi, alla permeabilità dell’istruzione nella formazione e della formazione nell’istruzione come ha deciso di scommettere la riforma Moratti?
L’importanza dell’autonomia
Le pagine più convincenti del documento Astrid sono quelle nelle quali si conduce il discorso sull’autonomia delle istituzioni scolastiche, sulla protezione di questa centrale strategia istituzionale minacciata da numerose tentazioni neo centralistiche, sulla collocazione di questa strategia nel più generale processo di riforma della forma di Stato.
Proprio per questo stupisce che il documento passi sotto silenzio tre aspetti che, forse, meriterebbero una riflessione.
Il primo riguarda l’autonomia finanziaria. Per quanto sia stata significativamente incrementata, essa resta ancora insufficiente. Del resto, è noto che se l’autonomia organizzativa, didattica e di ricerca e sviluppo sono importanti, l’autonomia finanziaria, come ha dimostrato l’esperienza della riforma universitaria, è ancora più importante, perché costituisce lo stesso orizzonte di possibilità delle precedenti.
Il secondo riguarda la preoccupante tendenza che alcune Regioni stanno abbracciando. Dichiarano, in polemica con le quote dei piani di studio personalizzati riservati dalla legge Moratti alle Regioni, di rinunciare a questa quota loro riservata dal parlamento, a tutto vantaggio dell’autonomia didattica delle istituzioni scolastiche. Bene. Molto bene. Solo che poi si rifanno dell’apparente, disinteressata generosità, disponendo che concederanno finanziamenti solo a progetti delle istituzioni scolastiche coerenti con i propri piani di intervento. Il che è quanto dire: vi lascio il potere di decidere anche sulle mie quote di piani di studio, ma non vi finanzio né queste né altre se quanto programmate non rientra in ciò che decido io che si debba fare. Non era meglio, a questo punto, nemmeno fingere la devoluzione delle quote dei piani di studio?
L’ultimo aspetto riguarda i Cis. Il documento si lamenta che non siano stati attivati dal Ministero. Alcune Regioni (come l’Emilia Romagna), del resto, hanno deciso di istituirli di propria iniziativa. Se è vero, tuttavia, che le istituzioni scolastiche hanno l’autonomia di ricerca e di sviluppo, e non devono più restare nelle dande di istituzioni superiori, perché non valorizzare le reti di scuole ed affidare a loro la costituzione e il funzionamento dei Cis, ovviamente dotandole degli opportuni finanziamenti e dettando solo vincoli di funzionamento? Il fatto di reclamare i Cis in capo al Ministero o alla Regioni non è un residuo della vecchia mentalità statalista che metteva sotto tutela la libertà e la responsabilità delle istituzioni scolastiche per meglio controllarne le linee e le scelte sotto il nobile scopo della consulenza? Tanto più che un sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione fondato sull’autonomia delle istituzioni scolastiche si regge su una precisa divisione dei compiti: al centro il governo e il controllo del sistema, alla periferia (autonomie territoriali e funzionali) la sua gestione e organizzazione. E i Cis sono tutto fuorché strumenti di governo degli obiettivi del sistema e di controllo dei risultati di quest’ultimo: semmai possono proprio offrire qualche tentazione per far scivolare nel controllo ideologico, l’esatto contrario del principio dell’autonomia.
Frammentazione o unificazione?
Forse sbaglio, ma, nonostante la norma sulle quote regionali dei piani di studio personalizzati (art. 2, co. 1, punto l), non riesco a prendere sul serio le accuse alla legge delega Moratti di comprimere, come rimprovera Astrid, l’autonomia delle istituzioni scolastiche e di mettere a repentaglio l’unitarietà nazionale del sistema di istruzione e di formazione.
Dirò di più: forse perché ammiro troppo la festa di Purim credo di avere addirittura argomenti per frequentare la paradossalità dell’inversione.
Primo argomento. Qualcuno, anche in questa sede, si è suo tempo rammaricato della decisione governativa di sostituire la legge 30/2000 con la legge Moratti. Non è vero, si è obiettato, che la legge 30/2000 fosse incompatibile con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Essendo una legge quadro, bastava interpretarla come una legge di principi e la congruenza tra legge 30/2000 e riforma del Titolo V era cosa fatta. Ma appunto questo era, e sarebbe rimasto, adesso, il problema, soprattutto se si è sinceri nel rivendicare la necessità di una tenuta unitaria del sistema educativo di istruzione e di formazione.
Se era una legge di principi, infatti, non era di norme generali. Le Regioni, con il Titolo V, proprio perché a pieno titolo Repubblica («la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato»: art. 114), avrebbero avuto tutto il potere di, anzi avrebbero dovuto, legiferare in piena sovranità (dalle leggi fino ai regolamenti) non solo sull’istruzione e formazione professionale, loro assegnata a legislazione esclusiva, ma anche sull’istruzione tout court. Non avrebbero fatto altro che dar corso ad una prerogativa loro riconosciuta dall’art. 33 della Costituzione («La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione»). Col bel risultato della reale possibilità di 20 sistemi di istruzione e di istruzione e formazione regionali. O si pensa che l’appello alla concertazione, così insistito anche in queste proposte di Astrid, avrebbe costituito un antidoto efficace a questo rischio di frammentazione?
Da questo punto di vista, la scelta del governo di intraprendere la strada che affida allo Stato le «norme generali» sull’istruzione (art. 117, co. 2, punto n) mi è parsa più rassicurante.
Così come non riesco a leggere con preoccupazione, quasi fosse un attentato all’unità del sistema educativo di istruzione e di formazione, il nuovo testo della legge costituzionale Bossi-La Loggia, meglio noto come devoluzione.
Il succo di questa correzione dell’art. 117 della Costituzione appena riformato, infatti, intende prescrivere chiaramente tre disposizioni: 1) lo Stato detta le «norme generali» non solo l’istruzione (testo del Titolo V riformato nel 2001), ma anche sull’istruzione e formazione professionale (ambito, invece, riservato dal Titolo V versione 2001 alla competenza esclusiva delle Regioni); 2) le Regioni mantengono una quota dei programmi scolastici e formativi (norma già prevista dalla legge Moratti) che si affianca a quella delle istituzioni scolastiche; 3) le Regioni hanno la competenza esclusiva sulla gestione e sull’organizzazione non solo dell’istruzione e formazione professionale come prevedeva il Titolo V del 2001, ma anche sull’istruzione (nel Titolo V del 2001 a legislazione concorrente, quindi con i «principi» dello Stato e con i regolamenti delle Regioni).
Nessuna delle tre mi pare pregiudicare l’unità del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione. La prima semmai lo tutela maggiormente e permette di superare i timori di legislazioni regionali che avrebbero potuto trasformare l’istruzione e formazione professionale in un sistema frammentato e disomogeneo. La seconda ha solo il problema di restare contenuta e di non raggiungere quote spagnole (in Spagna la quota delle Regioni è del 40%: da noi si è finora parlato di un 5% che si aggiungerebbe al 15% delle istituzioni scolastiche e formative). La terza, se ben accompagnata da una transizione dalla situazione attuale che non sia affrettata e rivendicativa, può addirittura migliorare la qualità complessiva del sistema. Per esempio, impedisce i danni della legislazione concorrente, di solito motivo di contesa tra Stato e Regioni. In particolare, può rassicurare maggiormente i docenti: infatti, anche solo l’idea che potesse esistere la remota possibilità un sistema dell’istruzione con docenti ancora regolati dallo Stato e un sistema dell’istruzione e della formazione con docenti regionali avrebbe creato numerosissime e gravi tensioni emotive e operative (si pensi solo ai trasferimenti).