29/05/2003
di Giuseppe Bertagna
Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione e della Comunicazione, Università degli Studi di Bergamo
Riceviamo e pubblichiamo un qualificato contributo del Prof. Giuseppe Bertagna sul sistema dei licei previsto dalla legge 53, del 28 marzo 2003.
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Un sistema dei licei bulimico e un sistema dell’istruzione e formazione professionale anoressico è il modo migliore per perpetuare la gerarchizzazione culturale e sociale attualmente esistente tra licei, istituti tecnici, istituti professionali e formazione professionale. L’intenzione della pari dignità tra i due sistemi fortemente innovativi previsti dal combinato disposto della Costituzione e della legge Moratti, quello liceale e quello professionale, diventerebbe, a questo punto, più una mistificazione che una scelta ordinamentale. Quale sarà la scelta dei decreti attuativi della riforma?
Il problema
Articolo 2, co. 1, punto g della legge delega Moratti: “ il sistema dei licei comprende i licei artistico, classico, economico, linguistico, musicale e coreutico, scientifico, tecnologico, delle scienze umane; i licei artistico, economico e tecnologico si articolano in indirizzi per corrispondere ai diversi fabbisogni formativi”.
Come interpretare questa disposizione nei decreti attuativi che la dovranno ben presto concretizzare?
Se ci si ferma a leggere soltanto questo comma della legge, il certo è che il sistema dei licei costituisce, appunto, un’unità organica. In caso contrario, non sarebbe più un ‘sistema’. Da questo punto di vista, non sarebbe una forzatura parlare di un unico ‘liceo’, sebbene con diverse, proprie accentuazioni e articolazioni interne; precisamente, le otto disposte dalla norma. La legge delega non le indica con il nome di «indirizzi», ma si potrebbe convenire sulla pertinenza sostantiva di questa qualificazione. Un unico liceo quinquennale con otto indirizzi liceali, in sostanza.
Conclusione analoga, anzi simmetrica, per il ‘sistema dell’istruzione e formazione professionale’ di cui, appena prima, parla lo stesso comma citato, sistema affidato dalla Costituzione alla legislazione esclusiva delle regioni. In questo caso, avremmo un unico «istituto» dell’istruzione e formazione professionale, ma con diverse, proprie accentuazioni e articolazioni interne dai 14 ai 18 anni (istruzione e formazione professionale secondaria: con titoli di qualifica e di diploma) e dai 18 ai 21 (istruzione e formazione tecnico-professionale superiore: con titoli di diploma superiore). In altri termini, un unico «istituto» dell’istruzione e formazione professionale con al proprio interno, numerosi quanto servono in base alle reali dinamiche economiche, sociali e personali, «indirizzi professionalizzanti» di qualifica secondaria triennale, di diploma secondario quadri e quinquennale, di diploma superiore sei e settennale (oppure secondo combinazioni diverse: ad esempio, aggiunte ogni volta annuali dopo la qualifica secondaria triennale, ai fini dell’acquisizione dei diplomi secondari e superiori; o, sempre dopo la qualifica secondaria triennale, passaggi diretti al quarto anno degli indirizzi quadri-settennali posti ad ordinamento dalle regioni).
L’incerto nasce, invece, dalla precisazione di legge che “i licei artistico, economico e tecnologico si articolano in indirizzi per corrispondere ai diversi fabbisogni formativi”. Le accentuazioni e le articolazioni, infatti, qui, passerebbero alla seconda potenza: non solo un unico liceo in otto «indirizzi», ma tre (e solo tre) di questi «indirizzi liceali» con altri «indirizzi» che dovremmo, dunque, più correttamente, chiamare «sub-indirizzi».
In effetti, in questi mesi, in sedi peraltro autorevoli, è stato proposto di dividere ordinamentalmente:
– il liceo artistico in almeno due indirizzi o «sub-indirizzi» (comunicazione e architettura) quando non in quattro (arti figurative; architettura e beni culturali; grafica e comunicazione visiva; design; spettacolo e comunicazione audiovisiva);
– il liceo economico in due (gestionale e commerciale) o in tre sub-indirizzi (gestione aziendale, comunicazione e marketing, turismo) o, come vuole Confindustria, addirittura in cinque sub-indirizzi (amministrazione e commercio, marketing e internazionalizzazione, gestione aziendale e dei servizi, economia del turismo e dei beni culturali, ambiente e territorio);
– il liceo tecnologico, secondo alcuni in tre (territorio, produzione di beni e servizi, agroindustriale), secondo altri in quattro (territorio, industria, agricoltura e ambiente, salute) e, secondo alcune ipotesi di Confindustria, o in cinque (meccatronica, informatica e comunicazione, chimica e chimica ambientale, tessile e sistema moda, produzioni biologiche e risorse naturali) o, addirittura, in otto sub-indirizzi (meccanico, elettronico, informatico, chimico, tessile-moda, beni culturali, biologico, risorse naturali).
Se a questa inclinazione si aggiunge che, tra quote regionali e di scuola, ogni istituzione liceale potrà ulteriormente adattare il piano di studi nazionale “ai diversi fabbisogni formativi” locali (le ipotesi più accreditate parlano, per le due quote, fino al 20% del piano degli studi nazionale), si può immaginare quante altre accentuazioni e articolazioni interne potranno caratterizzare il sistema dei licei, ovvero quanti sub-sub-indirizzi si potranno alla fine ottenere.
Ma in questo caso, è ancora legittimo parlare di «liceo (classico, scientifico ecc.)» e di «sistema» dei licei? Inoltre, si è sicuri che la disarmonia così introdotta tra «i licei artistico, economico e tecnologico» e gli altri possa restare solo architettonica e nominalistica, senza diventare anche e soprattutto qualitativa? Che cosa, inoltre, a questo punto, vista la proliferazione a cui dovrebbe sottoporsi, potrebbe differenziare il «sistema» dei licei, per definizione non professionalizzante e propedeutico all’università, dal «sistema» degli istituti dell’istruzione e della formazione professionale per definizione, invece, appunto, professionalizzante e, nei suoi vari gradi secondari e superiori, in sé compiuto e terminale?
Ancora di più, siamo sicuri che questa scelta non pregiudichi fin dall’inizio la possibilità di vincere la principale scommessa istituzionale, ordinamentale, culturale ed educativa temerariamente e innovativamente lanciata, sull’onda del Titolo V della Costituzione, dalla riforma Moratti, ovvero il proposito di costituire anche nel nostro Paese, e almeno per i 12 anni relativi al diritto dovere di istruzione e di formazione per tutti, un «sistema dell’istruzione liceale» (licei) e un «sistema della istruzione e formazione professionale» (istituti) tra loro sì ben distinti per natura e scopo, ma anche ambedue ugualmente educativi, di pari dignità culturale, oltre che di immagine sociale, e, quindi, con strutture di interconnessione reciproche che i giovani possano facilmente percorrere?
Una soluzione continuista
Senza dubbio, l’ipotesi di prevedere un sistema di otto indirizzi liceali e, al proprio interno, un’ulteriore articolazione alla seconda potenza dei «licei artistico, economico e tecnologico» è, fin dal linguaggio, la continuazione di scelte e di paradigmi abbondantemente frequentati in questi ultimi trent’anni.
Lo conferma il concetto stesso di «indirizzi», concepito, dopo la famosa legge di liberalizzazione degli accessi universitari del 1969, a Frascati nel 1971 e poi diventato quasi un trascendentale delle proposte di riforma dei piani di studio della secondaria nei decenni successivi. Basta rileggere le ipotesi della Commissione Brocca che avanzarono la proposta di 17 indirizzi liceali, e considerare quanto di esse è stato poi trasformato in ordinamento nel corso degli anni novanta. E, ancora di più, basta riferirsi alla adesso abrogata legge 30/2000 e, soprattutto, al suo Programma quinquennale di progressiva attuazione approvato dal Parlamento alla fine dello stesso anno, che costituisce, per così dire, l’ultima e più compiuta maturazione di questo impianto.
Quest’ultimo documento, come è noto, parlava, infatti, di quattro aree liceali:
– la prima (area classico-umanistica) articolata in due «indirizzi» (lingue e letterature classiche; lingue e letterature moderne);
– la seconda (area scientifica) ancora in due «indirizzi» (scienze matematiche e sperimentali; scienze sociali);
– la terza (area tecnica e tecnologica) in sei «indirizzi» (gestione e servizi per la produzione di beni; gestione e servizi per l’economia; gestione e servizi per l’ambiente e il territorio; gestione e servizi per le risorse naturali e agro-industriale, gestione e servizi alla persona e alla collettività, gestione e servizi turistici);
– la quarta (area artistica e musicale) in due «indirizzi» coincidenti con la stessa, duplice qualificazione dell’area.
Il Programma quinquennale si preoccupava di aggiungere subito, inoltre, che ogni «indirizzo» poteva ulteriormente articolarsi in «sotto indirizzi» grazie «alla possibilità di opzioni tra alcune delle discipline indicate nella loro quota nazionale obbligatoria».
Se, dunque, i decreti attuativi della riforma Moratti ragioneranno in termini di indirizzi e di subindirizzi liceali, niente di nuovo sotto il sole, ma un’esplicita scelta continuista con il recente passato non solo e non tanto nel linguaggio, quanto e soprattutto nel mondo che, ci ricorda Wittgestein, tale linguaggio esprime.
Ispirazioni culturali
A proposito di mondo, infatti, al di là delle ovvie differenziazioni, è sintomatico osservare come, dal 1971 al 2001, tutte le proposte di riforma della scuola secondaria che si sono succedute, sebbene con equilibri al proprio interno diversi, abbiano, tuttavia, sempre miscelato tra loro quattro fondamentali ingredienti .
Il primo rimanda ad una posizione antinomica nei confronti del lavoro, considerato dalla Costituzione addirittura a fondamento della Repubblica (art. 1). Per un verso, infatti, il lavoro contemporaneo, prosciugato dal fordismo e dal taylorismo di ogni residua concettualizzazione conoscitiva (conoscenza) e operativa (abilità), oltre che di ogni pratica sociale condivisa, è considerato non bisognoso di educazione e di cultura per essere svolto. Per questo sarebbe inutilizzabile per fini davvero formativi, mentre, naturalmente, manterrebbe la sua utilità economica pubblica (aumenterebbe comunque la ricchezza di tutti) e personale (consentirebbe a chi lo svolge di accumulare il capitale necessario per trovare i propri spazi di realizzazione al di fuori dal lavoro stesso). Per l’altro verso, però, sia perché occorre in ogni caso preparare qualcuno in grado di «pensare» (progettare, governare, gestire e innovare) questo tipo di lavoro alienato ed estraniato che è culturalmente povero solo per chi lo esegue, e, soprattutto, sia perché anche chi lo esercita deve essere messo, come cittadino, per un minimo di equità sociale e di rispetto dei diritti sociali e civili all’educazione, nelle condizioni di poter trovare i propri spazi di realizzazione fuori da esso, è sempre più necessario, in una società complessa come la nostra, aumentare per tutti il livello di educazione e di cultura.
Il secondo ingrediente rintracciabile nelle varie ipotesi di riforma elaborate tra il 1971 e il 2001 è il seguente. La scuola è ambiente educativo di apprendimento. Essa ha al centro la promozione delle capacità personali e la loro trasformazione in competenze, grazie all’incontro con la «cultura». Essa è, quindi, «formativa». Gli ambienti di lavoro e i percorsi formativi che mirano ad abilitare un soggetto nell’esercizio di un lavoro, non possono, invece, nella sostanza, rivendicare la medesima qualificazione. Non incorporando più «cultura» intellettuale e pratiche sociali sarebbero, infatti, educativamente sterili, se non pericolosi. Per rendere davvero «persona» ogni persona, quindi, e per proteggerla nei suoi diritti umani, sociali e civili, è necessario prolungare la sua permanenza nella scuola e rimandare quanto più è possibile l’incontro con il lavoro. Si radica, senza dubbio, anche in questo intreccio di convinzioni e di mentalità il lungo dibattito sul «prolungamento dell’obbligo scolastico» (già dagli anni settanta proposto fino a 16 anni, poi, in attesa della riforma dei cicli, portato dalla legge n. 9/99 a 15 anni); la distinzione tra «obbligo scolastico» e «obbligo formativo», il primo con un’aura di dignità ‘umanistica’ maggiore rispetto al secondo; infine, la diffidenza per il contatto sistematico della scuola con le eventuali pratiche, conoscenze e valori dell’impresa, del mercato e del lavoro.
Il terzo ingrediente è una specie di precipitato ordinamentale, a livello di impianto del sistema di istruzione e di formazione, dei precedenti, e procede ad una polarizzazione asimmetrica che presenta la seguente morfologia. La formazione professionale, quella affidata alle Regioni, e l’apprendistato sono strategie ed ambiti formativi «minori», da ospedaliera «riduzione del danno». Sono destinate a quei giovani, per tante ragioni, «espulsi» dall’ambiente educativo di apprendimento scolastico (drop out), malati di scuola, perduti alla cultura con la c maiuscola e destinati ai «lavori poveri di conoscenza». Coinvolgono tra il 5 e il 10% di una generazione a seconda dei distretti industriali e sociali del Paese. Sul lato opposto, sta la maggior parte dei giovani, chiamati, per le politiche educative di equità e uguaglianza delle opportunità, a prolungare e a potenziare ‘scolasticamente’ la propria formazione (interessa il 70% circa di ogni generazione). A questo scopo, per usare un’espressione che si ritrova nel Progetto ’92 dell’istruzione professionale statale, nella Commissione Brocca e nel Programma quinquennale di progressiva attuazione della legge 30/2000, proprio a causa della maggior base culturale richiesta, in genere, dal lavoro contemporaneo, la «storica dicotomia tra licei finalizzati al proseguimento degli studi universitari e istituti (tecnici e professionali quinquennali) finalizzati all’inserimento nel mondo del lavoro» non ha più motivo di esistere. Non per nulla la legge 30/2000, quasi concretizzando quanto a Frascati, nel 1971, fu solo annunciato, con la cosiddetta «secondaria comprensiva», designò tutti gli «indirizzi» della scuola secondaria come Licei. In mezzo, però, tra i due estremi della formazione professionale e dell’apprendistato, da un lato, e dei Licei, dall’altro, resterebbe lo spazio per un’istruzione professionale corta, triennale, né ‘nobile’ come quella liceale, né culturalmente ‘plebea’ come la formazione professionale e l’apprendistato, che funga da camera di compensazione tra le due polarizzazioni. Se i decreti della riforma Moratti confermeranno, come auspicano ad esempio, la legge regionale Bastico sul sistema formativo dell’Emilia Romagna, la Confindustria e una parte del mondo sindacale, l’esistenza di un «sistema dell’istruzione e formazione professionale» regionale ridotto a contenere l’attuale formazione professionale distinta dall’attuale istruzione professionale di durata triennale, da una parte, e l’esistenza di un «sistema dell’istruzione liceale» statale, arricchito da indirizzi e sub indirizzi che assorbano la vigente istruzione tecnica e i percorsi quinquennali più ‘licealizzati’ dell’istruzione professionale, dall’altra parte, saremo dinanzi ad un’architettura che sanziona anche per i prossimi decenni quella che consegue da questo terzo ingrediente.
L’ultima linea che ha sotteso le politiche formative degli ultimi trenta anni riguarda le modalità di costruzione dei piani di studio. In modo coerente alla svalutazione del lavoro e alla simmetrica ipervalutazione della «cultura scolastica», separa e, per quanto può, espunge dai piani di studio dei percorsi ‘nobili’ le discipline tecnico-pratiche, di serie b, da quelle teoretiche, di serie a, siano esse umanistiche o scientifiche o tecnologiche. Parla, inoltre, di «area comune» e di «area di indirizzo», sottintendendo la persuasione che la prima avrebbe poco o nulla a che vedere con la professione perché rivolta «all’uomo» e alla «cultura generale», e che la seconda sarebbe un’area aggiuntiva tendenzialmente specialistica, non organica e consustanziale alla precedente. Come se potesse esistere un sapere disancorato dal contesto in cui si trova calato, e l’uomo non fosse allo stesso tempo, sempre, anche cittadino e lavoratore. Dissocia, quindi, programmaticamente, cultura e professionalità, cultura generale e cultura specifica, competenze trasversali e particolari, col neanche troppo dissimulato presupposto che il primo termine dell’endiadi sia più importante e prestigioso del secondo, oltre che ad esso cronologicamente precedente. Introduce, infine, lo stage e l’apprendistato formativo, non nascondendo, però, che tali esperienze non promuoverebbero, in situazione, la scoperta delle conoscenze e delle abilità specifiche previste nell’indirizzo di studi frequentato, quindi non servirebbero alla cultura e alle competenze cosiddette ‘trasversali’, ma promuoverebbero soltanto, o soprattutto, competenze da professionalità specifica. Una conferma, insomma, del pregiudizio circa la separazione tra studio e lavoro, tra cultura e professione, tra umanesimo e tecnica, tra generale e particolare, tra umanità e professionalità.
Matrici storiche del paradigma
Si sbaglierebbe, tuttavia, ad immaginare che gli ingredienti prima segnalati sorgano e si condensino all’improvviso, solo negli anni settanta del secolo scorso. Uno sguardo anche rapido alle vicende del sistema di istruzione e di formazione del nostro Paese nella prima metà del secolo scorso, infatti, mostra come, in maniera certo talvolta sfumata ed obliqua, ma anche non tale da rendere la valutazione del tutto indebita, essi abbiano trovato terreno di cultura fin dal ventennio fascista.
Il modello prefascista. Secondo un modello che si è precisato a partire dai primi tentativi di regolazione legislativa del 1912-1913, l’istruzione tecnico-professionale è, come è noto, usando un linguaggio attuale, frutto dell’incontro e della collaborazione sistematica tra istituzioni pubbliche centrali (Stato, con le sue scuole), amministrazioni comunali (enti territoriali), professionisti, industria e sindacato (mondo del lavoro). A favore di un’istruzione tecnico-professionale strettamente connessa alla sfera degli interessi produttivi delle imprese, all’azione degli enti territoriali e ai bisogni delle comunità professionali, nella seconda metà degli anni Venti, si pronunciano, peraltro, e in più occasioni, autorevoli rappresentanti della Confindustria e delle Confederazioni sindacali. Fino all’estate del 1928, del resto, la maggior parte dell’istruzione tecnico-professionale dei giovani non fa nemmeno parte delle materie di competenza del ministero del Pubblica istruzione e, quindi, dei progetti di riordinamento del sistema scolastico statale.
La riforma Gentile aveva, per così dire, quasi rafforzato questo quadro. Aveva staccato dall’Istituto tecnico, infatti, le sezioni industriale e agraria, che erano state incorporate nelle scuole professionali dipendenti dal ministero dell’Economia nazionale, aveva trasformato la gloriosa sezione fisico-matematica (senza latino) degli istituti tecnici nel nuovo liceo scientifico (con molto latino) ed aveva diviso il corso superiore dell’istituto tecnico solo in due rami, commercio e ragioneria, da un lato, agrimensura, dall’altro.
Restavano del ministero dell’Economia nazionale gli Istituti superiori di agraria e di Scienze economiche e commerciali (le future facoltà di agraria e di economia e commercio) a cui accedevano non solo i diplomati delle scuole tecnico-professionali dipendenti dallo stesso ministero, ma anche quelli che avevano optato per i due rami dell’istituto tecnico gentiliano.
Quando si parla di istruzione tecnico-professionale, quindi, fino alla risistemazione fascista del settore, non ci si riferisce solo alle scuole di arti e mestieri o alle scuole per la riqualificazione operaia che cominciavano a sorgere nei diversi distretti industriali del paese. E nemmeno alla sola istruzione tecnico-professionale secondaria espressione della cosiddetta società civile e dal mondo del lavoro. Esisteva un vero e proprio sistema della istruzione tecnico-professionale iniziale, secondaria e superiore, per la maggior parte coordinato dal ministero dell’Economia nazionale e solo per una parte minore, quella indicata, dipendente dal ministero della Pubblica istruzione.
La sconfitta di questo modello. Le interferenze e le sovrapposizioni tra i due sistemi, quello della Pubblica istruzione e dell’Economia azionale, non erano, tuttavia, come è immaginabile, indolori.
Le competenze dei geometri gentiliani, ad esempio, interferivano non poco con quelle dei periti agrari e dei laureati degli Istituti superiori di agraria dipendenti dall’Economia nazionale. Il ministero dell’Economia nazionale, tuttavia, contestava ai diplomati dell’istituto tecnico gentiliano la padronanza di autentiche competenze professionali. La scelta di introdurre latino e di potenziare le dimensioni letterarie nel corso inferiore dell’istituto gentiliano confermava, infatti, la pertinenza dell’addebito, per gli esperti dell’Economia nazionale. L’accusa di fondo, in sostanza, era di aver iniziato un processo neanche troppo dissimulato di deprofessionalizzazione della formazione specifica dei periti e di aver cominciato a sostituire alle competenze professionali in senso stretto una ‘formazione’ più che «generale» generica. Il fatto che fosse sanzionata da un titolo scolastico formale rilasciato dallo Stato aumentava invece che risolvere il problema, perché finiva per accreditare come competente professionalmente una persona che, in realtà, non lo era.
La portata dell’obiezione dei rappresentanti dell’Economia nazionale, e del mondo che esprimevano, travalicava, quindi, come è facile intuire, i limiti della discussione sullo statuto professionale prima dei geometri e, subito dopo, dei ragionieri, in relazione ai laureati degli Istituti superiori di Scienze economiche e commerciali. Si estendeva non solo al merito qualitativo degli istituti tecnici usciti dalla riforma del 1923, ma metteva in discussione anche qualcosa di più rilevante. La riforma De Stefani del pubblico impiego, infatti, aveva imposto, nel 1923, il titolo di studio scolastico come criterio fondamentale per identificare le competenze necessarie per poter assumere le diverse funzioni professionali previste negli uffici statali. Tra il 1923 ed il 1929, inoltre, avevano ricevuto la protezione degli albi i titoli di studio di ingegnere, architetto, chimico, geometra, perito industriale, agronomo, perito agrario e dottore commercialista. Tra il 1933 ed il 1942 lo ricevettero, a loro volta, i dottori attuari, gli avvocati e i procuratori, le professioni sanitarie.
Il messaggio di questa strategia era chiaro: per accedere alle professioni contava sempre meno la competenza professionale specifica e il riconoscimento pubblico di essa da parte degli imprenditori, degli enti territoriali e dei «clienti», e sempre di più la sanzione burocratico-amministrativa dei titoli di studio scolastici. La scuola, in altri termini, come mezzo autosufficiente della regolazione giuridica e sociale delle professioni, ma condotta, tale regolamentazione, fornendo agli allievi più ideologia e conoscenze da status symbol, controllate dallo Stato, che reali competenze professionali socialmente riconosciute e culturalmente legittimate.
Le obiezioni avanzate alla fine degli anni venti dal ministero dell’Economia nazionale sul ruolo e sul potere autoreferenziale del ministero della Pubblica Istruzione in ordine agli statuti professionali dei geometri e dei ragionieri comportava, quindi, di fatto, se fossero state accolte, la richiesta di un ridimensionamento del ruolo e del potere dei titoli scolastici nella politica sociale delle professioni nel frattempo avviata dal fascismo. Non a caso Mussolini non aderì a questa critica e diede ragione al ministro della Pubblica istruzione Pietro Fedele, disponendo, nel 1928, il passaggio dell’istruzione professionale secondaria e superiore ancora alle dipendenze dal ministero dell’Economia nazionale alla responsabilità della Pubblica istruzione.
Il passaggio dell’istruzione professionale alla Minerva si perfezionò il 15 giugno 1931 con la legge n. 889. L’intero settore assunse l’assetto istituzionale che avrebbe conservato a lungo, tutto sommato fino agli anni sessanta, quando si assisté, da un lato, ad una nuova esplosione normativa riguardante la regolamentazione delle professioni e, dall’altro, alla conferma, anzi all’accelerazione, del paradigma deprofessionalizzante e dissociativo tra cultura e lavoro, tra umanità e professione. Il principio per cui, per l’accesso alle professioni pubbliche e private, valgono maggiormente i titoli formali di studio che le competenze professionali davvero acquisite e spendibili in modo efficace nelle concrete dinamiche interpersonali e socioeconomiche uscì, in quegli anni, ancora più rafforzato.
Non è, perciò, dal nulla della nostra storia che si giustificano posizioni molto critiche contro il valore legale dei titoli di studio espresse, ad esempio, da Luigi Einaudi alla Costituente o da don Luigi Sturzo in numerose sue opere e in suoi continui interventi .
Né è difficile capire perché i dati Eurostat 2002, l’organismo di statistiche comunitario, ricordino che l’Italia vanti tuttora la più alta percentuale UE di persone che lavorano in settori differenti da quelli in cui hanno condotto gli studi: il 47% (contro il 29% dell’Olanda, il 32% della Finlandia, il 35% della Francia, il 40% della Grecia); una percentuale che sale ad oltre il 70% per i laureati in discipline umanistiche.
Né stupisce, infine, che, a tutt’oggi, su 100 laureati o diplomati assunti dalle imprese, circa il 65,7% abbia bisogno di formazione in azienda per poter svolgere la funzione per cui sarebbero stati assunti, con picchi del 78,7% per coloro che provengono dal settore chimico e del 76% da quello informatico . La scuola, insomma, che, scollegata dal territorio e dalle imprese, non prepara affatto al lavoro, ma svolge una funzione soprattutto credenzialista, e che spiega come possa capitare il sorprendente fatto che, nel nostro Paese, quasi il 60% del Pil sia prodotto da aziende artigianali nelle quali il 12,5% della forza lavoro ha appena la licenza elementare; il 36,2% la scuola media e il 7,9% (1,8 milioni) una qualifica professionale mono-biennale ; come a dire che quasi il 60% del Pil è prodotto da persone che imparano sulla propria pelle, lavorando, a produrre bene, con intelligenza, versatilità e innovazione, e a gestire i problemi complessi di una piccola azienda, non potendo contare su un’apposito servizio pubblico di qualificata istruzione e formazione professionale.
La continuità del modello fascista. Sebbene con le cautele di qualsiasi generalizzazione, non sembra, perciò, una forzatura ritrovare in queste vicende alcune linee delle politiche scolastiche e formative successive, che, paradossalmente, permangono costanti dal regime fascista al dopoguerra repubblicano e, addirittura, alla legge 30/2000.
La prima di queste linee si riconosce nella progressiva licealizzazione dell’intero sistema dell’istruzione secondaria. Tale licealizzazione, tuttavia, avviene tramite una contemporanea e progressiva svalutazione della stessa idea liceale. Il superamento dell’opposizione tra istruzione generale teoretica e disinteressata, da un lato, e istruzione professionale tecnica e interessata, dall’altro lato, si realizza in sostanza non scoprendo l’una nell’altra, ma stingendo, se non negando, sia l’una, sia l’altra. Abbiamo così licei che si pretendono professionalizzanti e istituti tecnici e professionali che intendono confondersi con i licei non professionalizzanti. Col risultato di un doppio tradimento d’identità e di funzioni. Una propensione che comincia ben prima di Bottai, trova uno sviluppo rilevante a partire dal 1969, passa per i Progetti assistiti dell’Istruzione tecnica e professionale della fine degli anni ottanta e per il progetto Brocca degli anni novanta e trova, infine, la propria più alta e definitiva consacrazione con la legge 30/2000.
La seconda riguarda la conferma della tesi per cui la preparazione alle professioni è più un problema dello Stato che degli enti territoriali, in collaborazione con le imprese, le associazioni professionali, le diverse autonomie funzionali, i sindacati; e, inoltre, è più una questione di titoli di studio formali erogati dalla burocrazia scolastica che di reali e documentate competenze maturate in situazione d’esercizio, socialmente e intellettualmente controllate.
La terza linea mette in evidenza come la conseguenza di questo processo espansivo della scuola-amministrazione, quasi da «apparato ideologico dello stato», abbia portato ad accentuare il processo di separazione tra «cultura» e «lavoro (professionale e sociale)». Lo sforzo, e il proposito, di cercare di enucleare criticamente la «cultura» teorica, tecnica e pratica (etico-sociale e politica) presente nella complessità di qualsiasi «lavoro», e di procedere anche all’inverso, ovvero a rintracciare le intrinseche dimensioni socio-etico-operative e tecniche della tradizionale «cultura teoretica», ha, infatti, lasciato il passo sia ad una concezione «dei due tempi» (prima la scuola e dopo il lavoro, prima la cultura generale e dopo quella professionale, prima il teorico e dopo il pratico-operativo), sia a piani di studio caratterizzati, in senso deteriore, dallo «scolasticismo».
Per un verso, cioè, inclini all’eterogeneità culturale (il di tutto un po’, tipico di molti nostri piani di studio che, con l’artificio della modularità, miscelano tuttora da 15 a 20 campi disciplinari; abitudine non distante da quella inaugurata dal fascismo quando, ad esempio, introdusse anche negli istituti tecnici il latino, nel corso inferiore, elementi disparati di cultura tecnica e scientifica, «cultura fascista» e, a partire dal 1938, perfino «cultura militare»).
Per l’altro verso, propensi all’astrattezza (distanza delle eterogenee discipline inserite nei piani di studio dalle effettive dinamiche culturali di un territorio e dalle azioni concretamente esercitate dalle comunità professionali; sviluppo verticale e parallelo dei contenuti delle discipline di studio piuttosto che orizzontale ed integrato come mezzo di risoluzione di problemi dotati di senso, per definizione sempre complessi e interdisciplinari).
Per l’altro verso ancora, infine, caratterizzati dalla predominanza delle regole sui risultati, delle procedure di percorso (orari, discipline e moduli organizzativi rigidamente predeterminati da atti amministrativi) sulla qualità e sul merito dei traguardi finali.
La sfida innovativa del Titolo V e della riforma Moratti
Il Titolo V. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha, tuttavia, scompaginato in modo definitivo questo scenario e ha costretto la riforma Moratti, volente o nolente, a tenerne conto.
Per un primo aspetto, infatti, l’accoppiata delle due norme ha sancito il passaggio irreversibile da un sistema educativo di istruzione e di formazione fondato, al di là dei correttivi apportati a partire dal 1973 dalla stagione della partecipazione, su un modello di gestione e di organizzazione ancora di natura statalista e burocratico-centralista, ereditato dal fascismo, ad un sistema educativo di istruzione e di formazione fondato, invece, su un modello di gestione e di organizzazione compiutamente democratico e di natura poliarchica, che, cioè, in modi, ruoli, tempi e responsabilità differenti coinvolge allo stesso tempo lo Stato al centro e gli Enti territoriali, le istituzioni scolastiche, le famiglie e le diverse formazioni sociali e professionali alla periferia . Dalla scuola dello stato a quella della repubblica, definita secondo le precisazioni dell’art. 114 co. 1 e 118, co. 4 della Costituzione.
Per un secondo aspetto, più specifico, essa ha azzerato la diatriba cinquantennale sul ruolo della formazione professionale nel nostro Paese. Il vecchio art. 117 della Costituzione parlava di «istruzione artigiana e professionale» assegnata alle Regioni. Di fatto, nel dopoguerra, sull’onda della tradizione inaugurata da fascismo, si sviluppò in maniera notevole l’istruzione professionale statale, che crebbe accanto all’istruzione tecnica e all’istruzione classica. L’«istruzione artigiana e professionale» non poté crescere anche per la semplice ragione che le Regioni furono istituite nel 1970. In ogni caso, la legge 21 dicembre 1978, n. 845 non toccò, nella sostanza, gli equilibri esistenti perché parlando di «di formazione professionale» pose le basi, anche giuridiche, per lasciare allo Stato l’istruzione professionale. Il nuovo art. 117 della Costituzione toglie, invece, in proposito, ogni possibile equivoco. Non parla più di «istruzione artigiana e professionale»; nemmeno di «formazione professionale», ma, con chiarezza, abrogando l’una e l’altra espressione, di competenza esclusiva delle Regioni per «l’istruzione e la formazione professionale».
Il fatto che adoperi una locuzione innovativa vuol significare, anzitutto, che si sbaglierebbe ad immaginare «l’istruzione e la formazione professionale» come il mero accostamento meccanico dell’attuale istruzione professionale statale (20% degli iscritti alla secondaria) e dell’attuale formazione professionale regionale (tre il 6 e l’8 % dei giovani dai 15 ai 18 anni). Quasi ad immaginare che i due segmenti possano e debbano, nel futuro, restare ciò che sono, ancorché integrandosi sotto un unico governo.
Il nome nuovo, al contrario, indica anche una realtà nuova, che non può certo prescindere, per i tratti che la dovranno contraddistinguere, dall’altrettanto nuovo scenario istituzionale tracciato dalla riforma costituzionale. Non è, infatti, la stessa cosa immaginare struttura e contenuti «dell’istruzione e formazione professionale», quella cioè che ha, per elezione, a che fare con il territorio, le imprese, le professioni, la società civile, collocata in una Repubblica identificata con lo Stato (Costituzione del 1948) e in una «Repubblica (che) è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato» (art. 114 co. 1 della Costituzione 2001). Tanto più in una Repubblica dove non è consacrato nessun principio di sussidiarietà (Costituzione del 1948) e in una Repubblica (2001) dove, invece, il fulcro dell’ordinamento diventa il principio di sussidiarietà verticale (art. 118, co. 1) e di sussidiarietà orizzontale (art. 118, co. 4 ). Ancora non è la stessa cosa immaginare «l’istruzione e la formazione professionale» in uno Stato dove l’autonomia delle istituzioni scolastiche e formative non era protetta costituzionalmente (1948) e in una Repubblica (2001) dove invece lo è (art. 117, co. 3).
Proprio in base a questi principi costituzionali è perlomeno opportuno, quindi, domandarsi se non diventi obbligatorio, in questo inizio di terzo millennio, fare lo sforzo di congedarsi definitivamente dal modello di preparazione alle professioni liberali e non liberali messo a punto nel periodo fascista e poi non rinnegato nemmeno nel successivo periodo repubblicano.
Prendere atto, in dettaglio, della circostanza che, parlando di «istruzione», a legislazione concorrente tra Stato e Regioni, salvo che per le «norme generali» ed i «principi» che restano alla legislazione esclusiva dello Stato; e «di istruzione e formazione professionale» a legislazione esclusiva regionale, salvo che per i Lep (livelli essenziali di prestazione), che competono allo Stato, non è più possibile continuare ad usare espressioni, ad esempio, tipo «istruzione classica e tecnica» (come fece la legge Casati del 1859), oppure «istruzione liceale e magistrale, istruzione tecnica, istruzione professionale e formazione professionale», come ci ha abituato la lunga tradizione che parte dal 1927 e giunge ai nostri giorni.
Significa, al contrario, ripensare l’esistente e ristrutturarlo con l’occhio rivolto al futuro piuttosto che al passato.
La riforma Moratti. Questo sforzo di ripensamento progettuale, con tutti i difetti che ogni legge porta ovviamente con sé, è stato condotto dalla legge delega 28 marzo 2003, n. 53. Forse, in questo, l’ha aiutata la consapevolezza di essere la prima legge delega di riforma che segue una riforma della Costituzione. Non era accaduto nemmeno nel 1948, quando sembrava quasi obbligatorio ridisegnare il sistema educativo di istruzione e di formazione dopo il ventennio fascista. La Repubblica, infatti, ereditò l’impianto scolastico precedente, senza procedere ad altro che a qualche aggiustamento.
Come è noto, i punti essenziali della legge delega sono i seguenti:
– centralità della persona nei processi sia di istruzione infantile, primaria, secondaria di I grado e liceale, sia di istruzione e formazione professionale; la rivendicazione si giustifica senza dubbio sul piano ideale e filosofico, ma scaturisce anche da una mera constatazione di fatto: solo una persona matura, responsabile, critica nel pensare, nel fare e nell’agire (art. 2, co. 1, punti c e g) consente, infatti, l’incremento della qualità della convivenza civile e, con questa, l’intensità dello sviluppo economico; il capitale umano, in altri termini, come insegna una tradizione che parte da san Tommaso e arriva ad Adamo Smith, è il fondamento e la condizione prima dello sviluppo sociale e poi di quello economico;
– superamento della tradizionale separatezza tra scuola e lavoro, tra studio intellettuale e operatività, tra funzioni cognitive e percettivo-motorie-manuali, tra conoscenze e abilità, tra lezioni, da un lato, e laboratori/tirocini, dall’altro; quindi, per dirla col linguaggio ordinamentale della riforma, superamento della tradizionale gerarchizzazione e separazione tra theoría e téchne, tra il sistema dell’istruzione liceale (licei) e il sistema dell’istruzione e della formazione professionale (istituti);
– rifiuto, allo stesso tempo, della confusione tra theoría e téchne, tra licei e istituti dell’istruzione e della formazione professionale; i due percorsi sono diversi per natura e per scopo: confonderli danneggia gli uni e gli altri, e impedisce la reciproca valorizzazione; i licei mirano ad educare la persona attraverso theoría, gli istituti attraverso téchne; i primi hanno necessariamente bisogno di un successivo perfezionamento universitario e professionale, i secondi danno solo la possibilità di farlo: infatti, autorizzano l’acquisizione di qualifiche professionali, di diplomi professionali e di diplomi professionali superiori di durata variabile e, inoltre, con un anno integrativo, consentono anche l’accesso agli esami di stato liceali e, quindi, il proseguimento in università; non per questo non hanno pari dignità culturale ed educativa con i licei, visto che ambedue, in modo diverso e peculiare, recuperano dal proprio punto di vista la sistematica e unitaria interconnessione di theoría e téchne al servizio dell’educazione di ciascuno;
– riscoperta della cultura del lavoro e delle professioni (alternanza scuola lavoro sia nei licei sia negli istituti; coinvolgimento del mondo dell’impresa e delle forze sociali nella determinazione dei percorsi formativi dell’istruzione e formazione professionale); i lavori della società attuale, anche ai livelli più bassi, infatti, incorporano un sapere e un fare specifici ed esigono un essere personale che agisce nel sociale e nel professionale tale che solo un diritto-dovere all’istruzione e alla formazione per 12 anni, o almeno fino all’ottenimento di una qualifica profondamente rinnovata rispetto alle esistenti, è in grado di enucleare in modo critico e di far maturare in maniera compiuta; proprio per questo, a tutela e a garanzia del principio di equità, lo Stato (art. 117, punto m della Costituzione) fissa i livelli essenziali di prestazione che l’istruzione e la formazione professionale regionale è tenuta ad assicurare ai cittadini italiani per il godimento del diritto sociale e civile all’istruzione e alla formazione; ciò permette anche di assicurare a tutta la generazione giovanile quell’imparare ad apprendere da ciò che si fa, da cui poi si inaugura l’educazione per tutto l’arco della vita;
– affermazione della priorità dei problemi, dei compiti e dei progetti, piuttosto che delle discipline di studio nella costruzione dei piani di studio personalizzati; il punto di partenza dei piani di studio personalizzati, da questo punto di vista, non è più l’astratta enciclopedia dei saperi disciplinari, ma la problematicità del reale che occorre illuminare di teorie interpretative ricavate dalle discipline di studio e la naturale propensione dei giovani a confrontarsi con compiti e progetti da risolvere, per loro natura sempre interdisciplinari.
– ristrutturazione, nel secondo ciclo, dell’attuale istruzione classica, scientifica, magistrale, artistica e musicale dentro un unitario «sistema dell’istruzione liceale» e dell’attuale istruzione tecnica e professionale e dell’attuale formazione professionale dentro un non meno unitario «sistema dell’istruzione e della formazione professionale» graduale e continuo dai 14 ai 21 anni. L’uno e l’altro sistema, inoltre, tra loro interconnessi, non nel senso che si integrino negando le reciproche peculiarità, e finendo per riproporre le caratteristiche dell’eterogeneità, dell’astrattezza e del proceduralismo dei piani di studio prima evocate, ma nel senso che, avendo pari dignità educativa e culturale, riescono, con appositi interventi (crediti formativi, Larsa) a rendere permeabili e riconoscibili i reciproci percorsi.
Ritorno al punto di partenza
Articolo 2, co. 1, punto g della legge Moratti: «il secondo ciclo, finalizzato alla crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire, e la riflessione critica su di essi, è finalizzato a sviluppare l’autonoma capacità di giudizio e l’esercizio della responsabilità personale e sociale; in tale ambito, viene anche curato lo sviluppo delle conoscenze relative all’uso delle nuove tecnologie; il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei e dal sistema dell’istruzione e della formazione professionale».
Poiché il secondo ciclo è composto dal «sistema dei licei» e dal «sistema degli istituti di istruzione e formazione professionale» si deve concludere che l’uno e l’altro siano di pari dignità e mirino alle medesime finalità educative. Risultati formativi uguali, ma con percorsi, metodi e contenuti diversi. Il cuore della scommessa dei nuovi ordinamenti sta nel riconoscimento di queste specificità e del loro contemporaneo intreccio, riconoscimento che diventa allo stesso tempo prospettiva di impegno.
La tendenza a continuare a riassorbire l’istruzione tecnico-professionale nell’istruzione liceale proseguirà, a dire il vero, ancora a lungo. L’inerzia non è soltanto un fenomeno fisico: è anche mentale. Lo dimostra, ad esempio, la legge Bastico dell’Emilia Romagna che, nonostante il Titolo V, continua a parlare senza imbarazzi di «formazione professionale» e di «istruzione professionale» (separate) come si è fatto negli ultimi decenni; oppure le proposte Confindustria che, rivendicando l’opportunità di collocare, come scrivono , «l’aristocrazia dell’istruzione tecnica» tra gli indirizzi del liceo tecnologico, conferma un anacronismo, una gerarchizzazione classista e un programma conservatore. L’anacronismo è continuare a parlare di «istruzione tecnica», e non come vorrebbe la Costituzione e la legge Moratti di «istruzione e formazione professionale». La gerarchizzazione classista scaturisce dal riconoscimento che, nell’istruzione tecnica, esisterebbero, dunque, corsi aristocratici e corsi evidentemente da terzo stato: si può a questo punto immaginare il tipo di valutazione immaginato da Confindutria per l’istruzione e formazione professionale. Il programma conservatore è di rifiutare l’articolo 2, co. 1, punto g della legge Moratti e di dare per scontato che, anche in futuro, esisterà sempre una gerarchizzazione tra il «sistema dei licei» e il «sistema degli istituti dell’istruzione e formazione professionale» e che la prospettiva della pari dignità resta una pia illusione consolatoria.
Il problema, però, non è tanto negare l’esistenza di queste tendenze inerziali conservatrici e regressive, impegnate a svuotare l’innovazione, anche democratica, che scaturisce dal combinato disposto del Titolo V e della riforma Moratti, quanto di compiere uno sforzo collettivo della cultura e della scuola per combatterle e superarle.
In particolare, si tratta di chiarire che esse sono responsabili della grave carenza di tecnici e di quadri di cui soffre in maniera sempre più preoccupante la struttura produttiva del nostro Paese. Inoltre, che la maturazione di adeguate competenze professionali dentro un rapporto di collaborazione triangolare tra istituti, imprese/ordini professionali e territorio non solo consente una maggiore coerenza tra qualificazione ottenuta e effettivo lavoro svolto, ma permette anche una maggiore realizzazione e soddisfazione personale, posizioni economiche più vantaggiose e un ruolo sociale più costruttivo e riconosciuto. Infine, che solo per pregiudizio si può negare la qualifica del ‘culturale’ al ‘professionale’, tanto più in una società della tecnica.
Inutile negare, in questo contesto, che costituire un sistema dell’istruzione e formazione professionale regionale che non solo non sia, ma non sia anche percepito come un percorso qualitativamente e quantitativamente concorrenziale al sistema dei licei sarebbe un modo sicuro per perdere la scommessa e far uscire il Paese dalle secche di un paradigma culturale che non è certo stato ininfluente sia negli alti tassi di dispersione scolastica di cui soffriamo, sia nella determinazione della crisi sociale ed economica in cui siamo immersi da quasi 25 anni.
Un conto, infatti, appoggiandosi sulle strutture e sul know how dei più gloriosi istituti tecnici e dei migliori istituti professionali della nostra tradizione, è esibire e consolidare un sistema unitario di istituti dell’istruzione e della formazione professionale, ben integrati tra scuola, territorio e imprese/professioni, che rilasciano qualifiche e diplomi secondari e superiori di prestigio; un altro dare l’impressione di voler mantenere un percorso formativo debole, contingente, residuale, riservato, come in passato, sostanzialmente ai falliti del sistema di istruzione liceale.
Né bisogna dimenticare, del resto, che la possibilità di costituire un sistema unitario dei licei degni della loro antica tradizione è direttamente proporzionale al grado di discontinuità che si riuscirà ad imprimere rispetto alle linee che hanno governato la politica liceale del recente passato che si è appena ricordato. Da questo punto di vista, la previsione di costituire «sub indirizzi» in tre degli otto licei della riforma è l’esatto contrario di quei messaggi che sarebbe bene inviare e di quelle abitudini che non sarebbe male interrompere.