07/03/2006
Riforma della scuola pubblica
Riceviamo e pubblichiamo
Mentre si continua a ripetere in tutte le sedi che l’istruzione e la formazione sono la risorsa primaria del paese, non solo per la sua crescita civile e democratica, ma anche per le sue prospettive economiche, da tempo la società non riconosce più alla scuola italiana il prestigio e l’autorevolezza che le sono essenziali per poter svolgere la sua funzione, cioè un chiaro e condiviso “mandato sociale”. È un profondo problema culturale, dunque un rilevante problema politico, che nessuna riforma degli ordinamenti può di per sé risolvere.
Tutti i sistemi scolastici dei paesi occidentali sono stati investiti in varia misura da una crisi di identità a fronte di grandi cambiamenti economici, sociali, tecnologici, in particolare nel campo della comunicazione e delle forme di trasmissione della conoscenza. Credo però che nella crisi della scuola italiana si possano identificare alcuni specifici caratteri che hanno a che fare con le vicende politiche e culturali degli ultimi decenni e che hanno le radici proprio nel periodo dei più profondi mutamenti della scuola e nella cultura che li ha promossi e sostenuti.
Negli anni Sessanta e Settanta alcune grandi riforme, la Scuola media unica con l’obbligo scolastico a 14 anni (1962), la Scuola materna statale (1968), il tempo pieno (1971), davano all’istituzione scolastica un mandato che appariva largamente condiviso: garantire l’accesso allo studio dei ragazzi di tutti gli strati sociali, come previsto dalla Costituzione repubblicana. Fu una stagione di entusiasmante impegno per moltissimi insegnanti e di una nuova e positiva consapevolezza del proprio ruolo per la scuola nel suo insieme, ma anche una stagione progressivamente egemonizzata da furori ideologici, da analisi dogmatiche e semplificatorie, da una contestazione a tutto campo della cultura “borghese” che si sarebbe poi inevitabilmente risolta in una radicale critica alla cultura tout court e in definitiva nella delegittimazione della scuola come istituzione deputata alla trasmissione di quella cultura.
Il più originale e ispirato tra i libri che contestavano la natura classista della scuola di allora, Lettera a una professoressa, non fu scritto da un marxista rivoluzionario, ma da un prete, Don Lorenzo Milani, e dai suoi studenti di Barbiana nel 1967.
A quarant’anni di distanza sarebbe l’ora che questo celebre testo e la stessa figura di Don Milani fossero oggetto di una rilettura storica quanto più lucida e pacata possibile, in luogo di una acritica beatificazione; e di mettere in chiaro che l’esperienza di Barbiana e la Lettera hanno sì esercitato nei decenni successivi una positiva influenza sulla scuola italiana e i suoi orientamenti, ad esempio ispirando molte meritorie esperienze didattiche “di base”, ma anche prodotto gravi danni, con l’estremistica condanna di tutta la scuola come “scuola di classe”, estraniata dalla vita e dai suoi problemi, e degli insegnanti, tutti più o meno complici del sistema.
Ma è necessario anche riconoscere che i maggiori danni li hanno fatti i molti epigoni del Priore di Barbiana i quali hanno messo rapidamente da parte il suo inflessibile rigore educativo e adottato una più spendibile pedagogia giustificazionista e permissiva. Per Don Lorenzo “stare dalla parte dei ragazzi” significava letteralmente costringerli a riscattare con lo studio e il sacrificio quotidiano la propria condizione di povertà e di emarginazione, oggi è più banalmente la difesa di ufficio dei giovani in quanto tali, con una sostanziale rinuncia della scuola al suo ruolo educativo insieme alla svalutazione del merito, dell’impegno, della responsabilità individuale. L’influenza del “donmilanismo” è stata profonda: da un lato si è imposto come un vero e proprio monopolio pedagogico, che ha quasi cancellato il confronto con altri indirizzi formativi; per un altro verso ha dato origine ad un sindacalismo ideologico (soprattutto la CGIL scuola) che ha promosso presso gli insegnanti un’ idea spiccatamente sociale-assistenziale del loro ruolo e ne ha fortemente svalutato la specifica dimensione culturale e professionale.
Svuotata della sua criticabile ma forte idealità, quella visione della scuola è divenuta una confusa miscela di paternalismo, buonismo, egualitarismo acritico e ha fatto da sponda alla demagogia e all’opportunismo della classe politica, che ha operato quasi sempre assecondando irresponsabilmente la dequalificazione della scuola, con l’obbiettivo di acquisire un facile consenso. Ed è bene sottolineare che a questa linea hanno contribuito in modo singolarmente convergente ministri della Pubblica Istruzione di opposta collocazione politica.
Come risultato ci ritroviamo con una scuola genericamente “democratica”, a disposizione dello studente-cliente, tendenzialmente luogo di socializzazione e “inclusione”, piuttosto che di crescita culturale e civile, con un insegnamento disciplinare che si vorrebbe depurato da difficoltà concettuali e sempre più svalutato a favore delle “educazioni” (ambientale, sessuale, alimentare, stradale, ecc.), finalizzate a fornire agli studenti una serie di informazioni e di prescrizioni, piuttosto che a dotarli di solidi strumenti concettuali e capacità critica.
È una scuola per molti aspetti conformista, appagata dalle sue molte iniziative politicamente corrette ma spesso vuote di contenuti, persino ipocrita quando promuove le sue “educazioni alla legalità e alla cittadinanza”, ma tollera tranquillamente al suo interno comportamenti (degli studenti ma non solo) che con la legalità e il rispetto delle norme poco hanno a che spartire.
Invertire questa tendenza è certamente arduo ed è ben comprensibile lo scetticismo di molti. Si tratta prima di tutto di una battaglia culturale, di cui dovrebbero farsi carico tutte le forze politiche, smettendo una volta per tutte di considerare la scuola come un terreno per procurarsi popolarità a buon mercato. Si tratta poi di assumere provvedimenti che riportino al centro della didattica la formazione culturale, valorizzino l’impegno e il merito e ridimensionino anche drasticamente la congerie di progetti e attività aggiuntive, quasi sempre di limitato spessore, promossi in regime di autonomia scolastica. Si tratta infine di restituire agli insegnanti la fiducia nella centralità della propria funzione, ma anche la consapevolezza della propria responsabilità che a volte mostrano di avere smarrito.
Andrea Ragazzini