Il passo del gambero al quale si è assistiti nel corso delle ultime settimane a proposito delle norme sull’Esame di Stato, con la restaurazione dell’organizzazione di morattiana memoria, e poi il repentino dietrofront dopo le vibrate proteste e i richiami scandalizzati di molti esperti della materia, ha riportato la situazione al punto di partenza. Abituati all’idea che non è per niente utile, anzi è dannoso, proporre decisioni organizzative che innescano attese, speranze ed illusioni, proprio per le conseguenze negative che l’impatto psicologico del sentirsi dire “abbiamo scherzato” può avere sull’utenza, è opportuno fare alcune considerazioni di metodo e di merito per il prosieguo di questa vicenda che sembra ben lungi dall’essere giunta alla sua conclusione.
Paradossalmente, tuttavia, un elemento di positività si può trarre da quanto accaduto: forse involontariamente si è riportato al centro della discussione l’annoso problema dell’Esame di Stato conclusivo del percorso di studi secondari superiori, del suo valore intrinseco ed estrinseco e della sua stessa ragion d’essere. Il confronto già in atto, stavolta potrebbe innescare un percorso davvero virtuoso che, attraverso una riflessione seria e costruttiva, potrebbe giungere finalmente al definitivo inquadramento di questo appuntamento decisivo per le vite di tanti studenti e le loro famiglie, in una dimensione europea sotto tutti i punti di vista. Tuttavia, affinché ciò avvenga, è necessario mettere da parte le logiche ragionieristiche e i calcoli di bilancio, dando finalmente spazio ai contenuti specifici dei percorsi formativi, della società della conoscenza e delle certificazioni delle competenze, che non possono non coinvolgere in modo totale il mondo della scuola e dell’educazione, con le sue intelligenze e capacità professionali e progettuali, in una prospettiva meta sistemica.
In altri termini, non può ridursi una questione centrale e nevralgica per i destini della società ad un puro calcolo aritmetico, per cui la scelta di una formula di una prova di esame si preferisca ad un’altra solo e soltanto per il suo gettito di risparmio che può portare al Bilancio dello Stato, come sembra sia avvenuto a proposito dell’ormai famoso art. 28 della bozza di Legge di Stabilità 2015. Se si sceglie di imboccare l’altra strada, allora avrà senso parlare di Buona Scuola e porre al centro della società e di ogni investimento per il futuro l’educazione, la formazione e la conoscenza dei nostri giovani; diversamente diventa un inutile, patetico esercizio di retorica che deprimerà ulteriormente e definitivamente le speranze e le energie migliori delle nuove generazioni. In definitiva, è più che mai il caso che i ragionieri e la politica facciano bene il loro dovere, mettendo al servizio della Scuola risorse vere e non partite di giro, aumentino i punti percentuali del Pil, adeguandosi almeno alla media europea e pretendendo, nel contempo, competenza, professionalità, onestà intellettuale e rigoroso rispetto delle regole a tutto il personale scolastico, eliminando quelle forme estreme di lassismo e di pseudo-assistenzialismo che si è alimentato proprio all’ombra di un sistema da troppo tempo abbandonato a se stesso.
Pio G. Sangiovanni