Analisi & Commenti

Considerazioni a margine del disegno di legge 1306 sulla riforma dei cicli

04/10/2003

di Teo Orlando

Pubblichiamo volentieri un vivace e originale commento di Teo Orlando al ddl di riforma. Fra le questioni affrontate sottolineiamo la critica al «facilismo pedagogistico», la difesa delle SISS come strumento di formazione professionale dei docenti, la rivendicazione del sapere disciplinare rispetto a ogni didatticismo fine a se stesso. Naturalmente, i giudizi espressi nell’articolo rimangono dell’Autore e non coinvolgono l’AND. Il Prof. Orlando insegna filosofia presso il Liceo scientifico “Democrito” di Roma e collabora ai programmi culturali della RAI.
(20 novembre 2002)

Nella seduta del 13 novembre 2002, l’assemblea di palazzo Madama ha approvato il disegno di legge 1306, «Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale», ossia la controversa riforma (o controriforma, come qualcuno ha osservato riferendosi a quella di Berlinguer e De Mauro, dei cicli scolastici).
Non condurrò qui un’analisi esaustiva, ma mi limiterò a soffermarmi su alcuni punti che mi sembrano dequalificanti, rimandando ad altra occasione una disamina più profonda anche di tipo ideologico, e concentrandomi soprattutto sulla formazione degli insegnanti.
Peraltro, una discussione anche delle basi ideologiche della riforma Moratti (che qualcuno ha paradossalmente, ma neppure tanto, ribattezzato riforma Berlinguer-Moratti) mi costringerebbe ad assumere una posizione precisa all’interno degli schieramenti politici, che per molti versi sono solo fittiziamente contrapposti: e attualmente non è mia intenzione precisare in modo netto la mia opzione. Mi sono comunque divertito ad abbozzare una sorta di rudimentale schema delle posizioni sulla scuola interne ai due principali schieramenti politici:

Sinistra:

1) Posizione della CGIL: sì pressoché incondizionato alle riforme di Berlinguer, fino al punto da configurarsi come “sindacato giallo” con i governi di sinistra; anche se le riforme potevano suscitare perplessità (ad esempio nelle elucubrazioni del pedagogista Roberto Maragliano), l’adesione ad esse veniva tributata in modo acritico e dogmatico, e il motto imperante era: “non capisco, ma mi adeguo”.

2) Posizione di Claudia Mancina, Vittorio Campione e Paolo Ferratini: si può definire una posizione “consociativa” che tende a muoversi entro logiche cosiddette “bipartisan” e a cercare punti di contatto tra l’impostazione del centro-destra e quella del centro-sinistra, in nome del principio per cui la scuola è un bene dell’intero Paese: non si può gettare tutto a mare ad ogni cambio di legislatura.

3) Posizione dei COBAS e di Rifondazione: egualitarismo a ogni pie’ sospinto, con tutto quel che comporta, dal biennio unitario all’immissione in ruolo di tutti i precari senza verifiche e senza controlli di spesa.

4) La posizione dei cosiddetti “gentiliani di sinistra”, come ebbe a definirli l’ex ministro Berlinguer: esprimono un forte disagio per il riformismo della sinistra di governo e gli contrappongono un’idea di scuola in cui i valori del merito sono da anteporsi a tutti gli altri, contro ovviamente le discriminazioni censitarie e in nome di solidi contenuti. La si trova nei pamphlet e in vari articoli di intellettuali come Lucio Russo (Segmenti e bastoncini, Milano, Feltrinelli, 20002), Antonio La Penna (Sulla scuola, Roma-Bari, Laterza, 1999), Massimo Bontempelli (L’agonia della scuola italiana, Pistoia, Editrice CRT, 2000), Luciano Canfora, ecc. Non mancano accenti critici anche in altri intellettuali di sinistra, sebbene con prese di posizione meno “apocalittiche”, ma ugualmente liquidate con sufficienza dai “riformatori” più ostinati: un esempio è costituito da Giulio Ferroni, autore de La scuola sospesa, Torino, Einaudi, 1997.

5) Posizione dei “cattocomunisti” e, un po’ diversa, della Margherita: sì alle riforme, ma in modo da dare comunque spazio ad alcuni temi (famiglia, parità, ecc.).

Destra:

1) Posizione tecnocratica, in parte coincidente con quella della stessa Moratti: la scuola vista come impresa, ma con un occhio di riguardo per la famiglia (la caricatura di questa posizione si riassume nello slogan della scuola delle tre i).

2) Posizione dei tradizionalisti e “gentiliani” di AN, sintetizzabile con il ritorno al passato, ma “cum grano salis”: è più o meno quella del senatore Valditara e, in parte, del CNADSI di Rita Calderini e Manfredo Anzini. Purtroppo il resto del partito preferisce seguire le ubbie del movimento giovanile, fissato con il revisionismo storico (che spesso sconfina in posizioni pesantemente ideologiche) e con l’alleggerimento dello studio in modo tale che i giovani si dedichino ad altre attività.

3) Posizione di Forza Italia: in parte coincide con le opinioni di Dario Antiseri sul buono scuola e su altri temi di matrice liberista.

4) Posizione della Lega: basti dire che è una grottesca caricatura di posizioni federaliste serie.

5) Posizione di associazioni che hanno scelto tatticamente di appoggiare la Moratti, ma che in realtà tendono a essere “trasversali”, come Diesse, Nova Spes e PRISMA: per loro l’importante è salvare una certa idea di scuola di qualità, indipendentemente dalle opzioni ideologiche (in ciò simili o contigui ai “gentiliani” di sinistra).

Non mi sembra che altre parti della destra abbiano espresso posizioni particolarmente originali, né i cattolici, né altri.

Passo ora ad esaminare alcuni punti poco convincenti del testo della riforma.

1) Questione dei “periodi biennali” ai fini valutativi: nel testo approvato dal Senato, effettivamente, seppure in modo alquanto sibillino, si ammette la bocciatura solo ogni due anni. Cito dall’art. 3 del disegno di legge: «a) la valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del comportamento degli studenti del sistema educativo di istruzione e di formazione, e la certificazione delle competenze da essi acquisite, sono affidate ai docenti delle istituzioni di istruzione e formazione frequentate; agli stessi docenti è affidata la valutazione dei periodi didattici ai fini del passaggio al periodo successivo». Dato che questi periodi didattici di solito durano un biennio, ne consegue necessariamente che la non ammissione all’anno successivo avviene solo a biennio ultimato. Dopo l’abolizione degli esami di riparazione si tratta di una certa concessione a un facilismo pedagogistico piuttosto discutibile. Anche su altri punti controversi mi pare che il testo non si discosti molto da quello proposto alla VII commissione. Viene anche eliminato l’esame di quinta elementare (in effetti superfluo, ma dava comunque l’idea che bisognasse superare una prova).

2) Niente si dice sugli esami di maturità: dipendesse da me, ripristinerei le commissioni tutte esterne, escluso un membro interno di garanzia (o almeno metà della commissione esterna). Se dovessi poi scrivere pagine del libro delle utopie, chiederei anche di sdoppiare il colloquio in due diverse giornate, una da dedicare a un gruppo di materie più caratterizzante del corso di studi seguito (per esempio le cosiddette materie “umanistiche” nel liceo classico o quelle tecniche nel liceo tecnologico), l’altra alle rimanenti materie.

3) Formazione e reclutamento degli insegnanti: questo è forse il tema su cui ho le maggiori perplessità. In pratica le SISS (di cui sono uno strenuo difensore e contro cui alcuni gruppi di pressione stanno montando una polemica vergognosa; è tra l’altro mio desiderio insegnarvi come professore a contratto o supervisore del tirocinio, auspicando che si sostituiscano seri insegnamenti disciplinari a quelli di taglio più pedagogistico) vengono sostituite da una laurea specialistica integrata dal tirocinio, soluzione a cui io sono nettamente contrario, come lo sono all’eguale durata della formazione per le maestre di scuola materna e i professori di liceo (e non mi si dia del classista o peggio ancora: se volete polemizzare, usate argomenti validi). Io sarei addirittura per il 3+2+2, ossia laurea triennale, specialistica e SISS: qualcosa del genere è previsto per i magistrati e non si vede perché i professori di liceo non debbano avere la stessa dignità e durata di percorso formativo di chi porta la toga, mentre le maestre di scuola materna avranno una formazione di uguale durata rispetto a chi insegnerà matematica e fisica, filosofia e storia o latino e greco.

Questa laurea specialistica sarà ad hoc, ossia calibrata sulla formazione degli insegnanti e distinta da quella più “puramente scientifica”, sia pure con la precisazione che essa per gli insegnanti secondari sarà di carattere piuttosto disciplinare che pedagogico: «Per la formazione degli insegnanti della scuola secondaria di primo grado e del secondo ciclo le classi predette sono individuate con riferimento all’insegnamento delle discipline impartite in tali gradi di istruzione e con preminenti finalità di approfondimento disciplinare» (art. 5). Il problema è che questo comporterà comunque una riduzione del percorso rispetto a quello attuale (quattro o cinque anni di laurea + 2 di SISS).
Mi sembra assurdo “archiviare” o trasformare in questo modo l’esperienza delle SISS, che dopo un avvio un po’ stentato, vanno migliorando di anno in anno, avvicinandosi a qualcosa di serio e di sensato; sarebbe folle gettar via una esperienza che si va finalmente perfezionando e adeguando agli standard che deve prefiggersi un corso a numero programmato, un po’ come il dottorato di ricerca.
Tra l’altro le SISS sono una delle poche maniere per tenere aperta qualche forma d’osmosi tra scuola e università, sempre più tenue. Per esempio, nei giorni scorsi s’è tenuto a Roma I un convegno sull’Estetica di Croce: ora, a parte due docenti in pensione del “Visconti” e qualche collega ancora in contatto con l’università, non ho notato docenti di liceo! E si noti, non si trattava di un convegno in inglese sulle logiche intuizioniste, ma di un normale convegno in italiano su un argomento accessibilissimo e noto a tutti i docenti di filosofia e letteratura italiana (parlavano poi Tullio De Mauro, Mario Reale, Gennaro Sasso, Emilio Garroni, Paolo D’Angelo). Vent’anni fa avremmo avuto legioni di insegnanti di liceo a parteciparvi, anche come relatori, magari un po’ babbioni (del tipo: “il Croce appalesa nella sua opera l’identità e ad una la distinzione del Vero e del Bello, dappoiché l’intuizione lirica è sintesi a priori di contenuto e forma”), ma meglio che nulla. Ho il sospetto che ormai, anche prescindendo dalle colleghe che fanno solo le massaie e ripetono il manuale, il resto degli insegnanti sia così oberato da riunioni collegiali e altre amenità burocratiche da non aver né tempo, né voglia per seguire convegni di filosofia.
Io credo nella necessità che la formazione degli insegnanti di scuola secondaria superiore si svolga con un ulteriore anno di studio dopo il conseguimento della laurea specialistica di taglio decisamente disciplinare, ossia comportante una “vera” tesi di laurea. Preferirei il mantenimento della SISS biennale post laurea specialistica con minore caratterizzazione pedagogica, ma è una soluzione che non verrebbe accettata. Mentre potrebbe essere accettato un anno solo di scuola di specializzazione il cui esame finale sarà abilitante a tutti gli effetti (in pratica sostituirebbe il concorso) e seguito da un ulteriore anno di tirocinio: questa proposta peraltro era già stata avanzata nella passata legislatura – sebbene invisa all’allora sottosegretario Guerzoni -, mi pare da Nicola Tranfaglia, e trova un riscontro nel sistema francese, dove peraltro la frequenza della scuola non è obbligatoria. Sarei invece più cauto nel chiedere il ripristino dei concorsi ordinari tradizionali, anche se io stesso sono entrato nei ruoli con tale sistema e anche molti apprezzabili colleghi più giovani di me sono diventati di ruolo anche con l’ultimo concorso (soprattutto per la A051): ma troppi altri pur validissimi non hanno superato tali selezioni, e non solo per sospetta corruzione dei commissari, come per il concorso di filosofia a Latina, ma anche perché spesso le commissioni erano incredibilmente inadeguate: non è ammissibile che un esperto di filologia dantesca venga esaminato da presidi e insegnanti di scuola media (non solo nelle commissioni d’italiano non c’erano professori universitari a presiederle, ma non c’era neppure un solo professore di liceo, e questo per esplicita disposizione ministeriale), proprio su Dante, stante il fatto che la prova d’italiano è comune e unica per l’intero ambito disciplinare.
È innegabile peraltro come molti docenti universitari stiano toccando con mano la peggiore preparazione dei laureati ‘triennali’ rispetto ai vecchi quadriennali/quinquennali, soprattutto perché non devono concludere i loro studi con una dissertazione che provi l’attitudine a un minimo di ricerca. Tra l’altro, mi è giunta notizia (da una persona che vi insegna) che, in alcune SSIS, accettano già ‘laureati’ triennali: in teoria dovrebbe essere vietato da una circolare ministeriale del 15 luglio 2002, ma in alcuni casi il principio dell’autonomia universitaria ha surrettiziamente consentito di eluderla, almeno parzialmente. Tutto ciò si inquadra in una generale dequalificazione del corpo insegnante, alla quale concorrono sia la destra, sia la sinistra sebbene sulla base di diversi assunti (pseudo-) culturali e ideologici.
Il problema principale è rappresentato dalla dittatura del pedagogismo, alla quale appare “crimen laesae majestatis” ogni asserzione che tenda a riconoscere non solo una differenza tra le diverse tipologie di scuole, ma anche una diversità intrinseca e qualitativa nell’insegnamento di determinate discipline: se si esigessero anche solo sei anni (e non sette) di formazione per i professori di liceo, contro i cinque per le maestre, ci sarebbe una levata di scudi da parte di costoro. Peraltro, chi studierebbe più di cinque anni per andare a insegnare in una scuola materna?
Non parliamo poi dell’innegabile “valore aggiunto” costituito dal dottorato, non a caso visto con diffidenza dai sindacalisti che ora si fanno pure belli di una mini-vittoria che non compete loro assolutamente: mi riferisco alla circolare ministeriale 120 del 4 novembre 2002, con la quale si riconosce il diritto incontestabile di dottorandi di ricerca e borsisti vari ad ottenere il congedo o l’aspettativa per motivi di studio, indipendentemente dalla valutazione discrezionale del dirigente scolastico: la circolare è stata emanata per l’effetto congiunto di un ordine del giorno del Parlamento e dell’attività di pressione esercitata dall’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani.
In conclusione, vorrei semplicemente sottolineare come questo disegno di legge, al di là degli aspetti discriminatori che vi sono indubbiamente contenuti (sebbene eccessivamente enfatizzati dall’opposizione), non riesce neppure ad assicurare un innalzamento qualitativo della scuola e un’autentica riqualificazione della classe docente, premesse indispensabili perché l’istruzione pubblica possa in effetti essere sostenuta e difesa nella sua superiorità rispetto all’offerta presentata da altre “agenzie formative”.

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