04/10/2003
di Alberto Giovanni Biuso
Direttore del Centro Studi dell’A.N.D
Commentando notizie provenienti dalla Francia, qualche giorno fa notavamo quanto difficile sia diventato insegnare in Occidente. Un sondaggio al quale la stampa ha dato ampia risonanza sembra darci ragione: il 57 per cento degli insegnanti non è soddisfatto del proprio lavoro. Due articoli in particolare riprendono questo tema. Aldo Zandi sul Secolo d’Italia osserva che «anche un numero ridotto di persone che trasmettono dalla cattedra verso i banchi la loro demotivazione può essere deleterio sulla formazione dei giovani». Vittorino Andreoli, sull’Avvenire, parla addirittura dell’andare in classe come a una guerra, quando invece «insegnare è atteggiamento spontaneo nell’uomo» e dovrebbe dare a chi tale attività esercita per professione la più grande soddisfazione. Se questo non accade, le ragioni sono evidentemente molte e complesse. Zandi denuncia gli eccessi di burocratizzazione e di dirigismo da parte dei presidi che privano molti collegi docenti della loro forza propositiva e accenna ai complessi di colpa ingenerati «nella categoria quando tutto si è cominciato a misurare in ore e minuti», e cioè da quando la trasformazione dell’insegnamento in un mero impiego ha cominciato a prevalere. Andreoli ribadisce lo scarso prestigio di una categoria malpagata in un contesto nel quale tutto sembra misurarsi in base al reddito: «gli insegnanti hanno diritto almeno al doppio di quanto viene loro dato». Si tratta di cause strettamente correlate: la nostra è in realtà una professione ad alto valore aggiunto, specialistica, essenziale per la vita e lo sviluppo di una società complessa ma a diminuire il suo prestigio hanno anche contribuito gli eccessi di sociologismo nella didattica, la medicalizzazione e la giuridicizzazione dell’attività educativa (la scuola affidata ai Tar!). Lo conferma un articolo di Giuseppe Pennisi su Italia Oggi, a proposito della pubblicazione dei voti di fine anno. Nonostante l’evidente necessità di rendere pubblici i risultati per le «esigenze di controllo sociale e professionale che dipendono proprio dalla conoscibilità delle valutazioni finali», un giudice di primo grado ha ritenuto tale pubblicazione lesiva della legge 675/96…
Non dobbiamo e non possiamo, tuttavia, scaricare sempre sugli altri le responsabilità: se il nostro insegnare si è trasformato in un impiego, lo si deve anche a chi ha rinunciato a studiare in favore di una stanca ripetizione di ciò che ha imparato tanto tempo prima. Ritorna, quindi, l’esigenza di una formazione costante e qualificata dei docenti e di una forte Associazione Professionale che li sostenga e li stimoli: esattamente i due obiettivi primari dell’A.N.D. Gli Ordini professionali che già ci sono, si stanno accorgendo della centralità strategica della formazione, come afferma Giuseppe Del Barone -presidente dell’Ordine dei medici- sul Sole 24 Ore del 9 settembre: «per non essere più la sede di una “semplice” tutela degli eletti e della deontologia, l’Ordine deve occuparsi sempre più della formazione e della preparazione». Non basta certo cablare le scuole e imparare l’utilizzo dei mezzi multimediali -si vedano gli articoli sul numero odierno di Italia Oggi-; sono, questi, strumenti certo necessari ma non sufficienti. Bisogna prima di tutto riscoprire le radici esistenziali, sociali, culturali del nostro fare scuola, poiché «se è ovvio che non si possa pensare ad una scuola senza alunni, è assurdo voler costruire una scuola contro gli insegnanti» (Zandi).
Milano, 10 settembre 2002
Alberto Giovanni Biuso
Direttore del Centro Studi dell’A.N.D