18/10/2004
Alberto Giovanni Biuso e Dario Generali
Uno dei problemi che connotano la vita civile, amministrativa e politica del nostro Paese è senz’altro quello del reclutamento del personale docente del sistema universitario e di ricerca. Su questo argomento ci sono stati innumerevoli interventi di denuncia, molti dibattiti anche interni al mondo accademico, persino sentenze di condanna della magistratura, senza che poi nulla sia cambiato, se non nel senso di una progressiva accettazione dello stato di fatto. In realtà le condizioni di arbitrio e di larga illegalità nelle quali si tengono i concorsi per questi ambiti del pubblico impiego rappresentano uno degli elementi di maggior degrado della nostra vita civile, quantunque spesso non riconosciuto per tale. Un degrado che colpisce in primo luogo la credibilità delle istituzioni, proprio in un ambito, come quello dell’insegnamento, che dovrebbe essere esemplare anche moralmente, per l’influenza che esercita sulla formazione e sulla mentalità delle giovani generazioni. Un degrado per il danno che produce alla società civile, a cui viene sottratta la certezza che le risorse, tratte dalla contribuzione fiscale a cui partecipa, siano utilizzate per reclutare i soggetti maggiormente idonei e capaci in settori tanto rilevanti come lo sono quelli della ricerca e dell’insegnamento universitario. Un degrado che vanifica parte degli investimenti nella ricerca, che costringe molti dei migliori a fuggire all’estero e che indebolisce in modo così vistoso la capacità del nostro Paese di stare al passo con lo sviluppo scientifico internazionale. Un degrado che assume l’aspetto di un’intollerabile prevaricazione per i singoli che risultano vittime di meccanismi concorsuali che ne disconoscono meriti evidenti, a vantaggio di candidati scientificamente assai più deboli, ma sostenuti in vari modi.
L’esigenza di porre rimedio a un malcostume così evidente non può quindi non apparire come un’esigenza prioritaria per la difesa dello stato di diritto e degli stessi fondamentali interessi del Paese. Come sempre è però necessario porre attenzione a che i disegni riformatori siano migliorativi rispetto all’esistente, perché, come si è tristemente osservato nelle diverse riforme della scuola secondaria che si sono succedute, il nuovo non coincide necessariamente con il meglio. Bisogna altresì fare in modo che le nuove norme siano in grado di scardinare nei fatti le vecchie collusioni e le procedure viziose, perché è risaputo che nella nostra tradizione nazionale, come è ben noto a chi ha pratica della pubblica amministrazione e non solo, spesso si cambia per non modificare nei fatti alcunché.
Non si può negare che il disegno di legge delega approvato il 16 gennaio 2004 dal Consiglio dei Ministri sul Riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari contenga alcuni elementi interessanti. Fra questi si trova senz’altro quello che sancisce il ritorno dei concorsi centrali su scala nazionale, sottraendo alle singole università il compito dell’assegnazione delle idoneità, ponendo così rimedio a uno dei meccanismi maggiormente perversi delle procedure di reclutamento degli ultimi anni. Ci sono tuttavia diversi punti oscuri che dovrebbero essere chiariti e aspetti problematici da correggere.
L’intero disegno di legge tende a spostare l’asse dello stato giuridico dei nuovi assunti nell’università dalla condizione pubblica a quella privata, cioè da un’assunzione a tempo indeterminato ad una a tempo determinato. Poiché tale operazione viene realizzata solo sui soggetti in ingresso e per un periodo limitato di tempo, per un verso ne prolunga la ricattabilità da parte dei poteri baronali e, per l’altro, non modifica in alcun modo la condizione di possibile sinecura dei soggetti già assunti o che lo saranno dopo tale periodo di “purgatorio”. Se, al posto dell’ossessione aziendalistica e della pervicace volontà di applicarne la logica in ambiti differenti da quelli dove è evidentemente efficace, si volesse effettivamente affrontare il problema dell’efficienza del personale scientifico delle università, la via da seguire sarebbe piuttosto quella dei giudizi periodici reali e non solo apparenti, per esempio ogni tre o cinque anni, con procedure rigorose e con l’ausilio di quelle commissioni internazionali che si indicano all’art. 1, per tutto il personale, compresi quegli ordinari di lunga data che non da ora teorizzano pubblicamente che, una volta diventati tali, non ci si deve più occupare di ricerca ma solo di gestione del potere accademico. Una simile azione avrebbe molte conseguenze virtuose per il sistema, che andrebbero da un’indubitabile maggiore efficienza scientifica di molti soggetti oggi, sotto questo aspetto, “dormienti”, a una maggiore attenzione degli ordinari verso i giovani capaci di lavorare con profitto nei progetti scientifici da loro coordinati, più che a quelli portatori di altri “meriti”, a un minor tempo disponibile per imbastire gli infiniti intrighi accademici, ai quali non pochi sono oggi interamente votati.
Un aspetto invece condivisibile è la norma, esposta nel penultimo comma dell’art. 1, che stabilisce il diritto, per i dipendenti della pubblica amministrazione, di essere posti in aspettativa non retribuita per tutta la durata dei contratti a diritto privato che avessero sottoscritto con strutture universitarie. Sarebbe però necessario estendere tale diritto anche ai periodi di prova per gli incarichi di docente associato e ordinario e per quelli quinquennali di ricercatore. Se, infatti, la volontà fosse effettivamente quella di aprire l’università al contributo di molti soggetti meritevoli che, per vari motivi, spesso legati alla scorrettezza delle procedure di reclutamento, ne sono stati sinora esclusi, sarebbe necessario evitare di rendere svantaggioso il tentativo di passaggio dall’amministrazione di provenienza a quella universitaria. Pochi, infatti, soprattutto se di una certa età e con impegni di famiglia, sarebbero disposti a tentare un’avventura il cui primo passo fosse la rinuncia alla propria condizione di sicurezza, per esempio di insegnante della scuola media superiore assunto a tempo indeterminato, e la caduta in una condizione di precarietà e di incertezza professionale, quantunque in un ruolo assai più stimolante e gradito.
Del tutto inaccettabile sembra invece la decisione di voler limitare il numero della partecipazione ai giudizi di idoneità a fronte di un criterio di concessione della medesima non legato al solo merito dei candidati ma condizionato dal «fabbisogno, indicato dalle università, per cui è garantita la relativa copertura finanziaria, incrementato di una quota ulteriore non superiore al 20%». Con un simile criterio, anche ammettendo di avere dei concorsi pressoché utopici nel nostro Paese, in cui fossero resi idonei i candidati effettivamente più meritevoli, si avrebbero delle tornate concorsuali dove, magari per una maggiore disponibilità di posti, ma anche per un livello medio dei candidati più basso, sarebbero dichiarati idonei candidati decisamente meno meritevoli di altri giudicati invece inidonei in tornate meno favorevoli. Con la conseguenza che si arriverebbe a impedire, con il detto limite di partecipazioni, a studiosi migliori di quelli finiti in cattedra per le contingenze favorevoli del loro concorso di ripresentare almeno la loro candidatura.
Pure non si capisce la ragione della riserva dei posti del 15% garantita a ricercatori e docenti associati rispettivamente per i concorsi ad associato e ad ordinario. Già essere stati ricercatori o associati costituisce un titolo assai forte del curriculum, da far valere contro chi, per ragioni non legate alla propria volontà o ai propri meriti, è stato magari costretto per anni, spesso molti più di quelli che hanno relegato nelle scuole secondarie intellettuali non graditi al regime durante il ventennio fascista, a condurre le proprie ricerche e i propri studi in condizioni di grave disagio, di notte, nei fine settimana, durante le vacanze. Quale ragione di equità può suggerire, a fronte della reale volontà di aprire le strutture universitarie e di ricerca ai soggetti maggiormente meritevoli, di penalizzare ulteriormente chi è già stato costretto a lavorare in condizioni di svantaggio, e che chiede semplicemente di veder valutati i propri meriti con equità, con lo stesso metro di chi è invece stato pagato per anni per studiare. Senza dire che, nelle sopraddette condizioni di degrado in cui si svolgono i concorsi in Italia, la riserva del 15% finirebbe per pesare molto di più di quanto esprime la sua quantificazione numerica, perché sarebbe fatta valere a sostegno dei candidati interni più deboli e contro gli esterni più forti. Solo chi ha lunga esperienza, da esterno e, spesso, da perseguitato dagli attuali meccanismi di reclutamento, può facilmente capire quali e quanti possono essere i mezzi utilizzati dal sistema per perseguire i propri obiettivi a danno dei meriti e del diritto. Mezzi che si arricchirebbero in questo modo di un nuovo potente strumento.
Pure il numero “chiuso” di soggetti che possono conseguire l’idoneità non appare condivisibile, perché tenderebbe a riproporre gli usuali meccanismi concorsuali. Se si volesse avviare un reale processo virtuoso di risanamento del sistema si dovrebbe cercare di introdurre il massimo possibile di oggettività nelle valutazioni, limitando all’indispensabile i margini di discrezionalità delle commissioni.
Nel nostro Paese il mondo accademico rappresenta, con poche quanto meritorie eccezioni, un corpo separato, che, pur composto da funzionari pubblici stipendiati dallo Stato, manifesta un sistematico disprezzo per le sue leggi. A queste ne ha sostituite di sue proprie, non scritte ma assolutamente determinate, largamente conosciute, rispettate e condivise dalla maggioranza dei suoi membri. Le conseguenze sono molteplici e tutte esiziali per la qualità e l’efficienza della vita universitaria. Esse vanno dalla realizzazione di una giustizia sommaria, pur al di fuori di qualsiasi regola formale, nei confronti dei soggetti meritevoli, a delle ingiustizie e prevaricazioni altrettanto sommarie e incontrollate. Perché, se è vero che, in tale contesto, non sono pochi i casi in cui, pur attraverso accordi e patteggiamenti del tutto illegali, viene riconosciuto il merito dei migliori, è altrettanto innegabile che, in un numero non minore di casi (a voler essere ottimisti), si compiono scandalose ingiustizie e prevaricazioni, determinate dagli indebiti vantaggi che provengono -per varie ragioni- ad alcuni candidati. Fra queste le più diffuse sono da individuare nelle appartenenze accademiche, nelle spartizioni di spazi e posti, negli interessi privati, quali l’intenzione di utilizzi impropri e funzionali alle proprie personali esigenze dei soggetti che si favoriscono, ma anche nei rapporti d’amicizia, di parentela e, last but not least e per usare una metafora, nei legami affettivi che intercorrono fra i commissari o i loro alleati accademici e i candidati e in tante altre ancora. In una situazione di tal genere la prima cosa da tentare di ottenere, anche per i concorsi da ricercatore, è che le valutazioni di idoneità dipendano al possibile da elementi non inquinabili, quindi non da scritti e orali spesso farseschi, ma dai titoli scientifici oggettivi, da valutare con dei criteri definiti in anticipo e con l’ausilio di studiosi di altri paesi dell’Unione Europea. Quindi pubblicazioni (da valutare con punteggi definiti a seconda della loro sede di uscita, del loro fattore di impatto sulla letteratura di settore, ecc.), partecipazione a progetti nazionali e internazionali (anche qui da valutare in modo non discrezionale a seconda degli enti coinvolti), riconoscimento delle proprie iniziative da parte della comunità scientifica, ecc. Garantito questo, che rappresenterebbe una rivoluzione straordinaria rispetto alle tradizioni concorsuali italiane, si dovrebbe dar vita a graduatorie nazionali aperte (per ogni classe di concorso, per le tre posizioni di ricercatore, associato e ordinario) da aggiornare continuamente, con una cadenza che potrebbe essere semestrale, ma anche annuale, che tenesse conto del continuo evolversi della posizione dei soggetti ritenuti ammissibili, perché, evidentemente, il profilo scientifico di uno studioso attivo è in continuo sviluppo e valutazioni comparative corrette possono registrare nel tempo anche notevoli variazioni. Le singole sedi universitarie dovrebbero scegliere gli studiosi da chiamare da queste graduatorie, seguendo il loro ordine, perché fare diversamente da noi non sarebbe possibile per la mancanza di garanzie di correttezza del sistema, mentre, in una situazione meno degradata sarebbe senz’altro meglio permettere alle singole sedi di scegliere con maggiore libertà gli idonei ritenuti più adatti alle loro esigenze.
Tutt’altro scenario si potrebbe delineare se ci si trovasse in una situazione di reale autonomia delle sedi universitarie e in una condizione giuridica -che noi auspichiamo da tempo- di mancanza di valore legale del titolo di studio. In tal caso il reclutamento del personale scientifico potrebbe avvenire senza concorsi e per semplice chiamata nominativa, con responsabilità esplicita di chi chiama. I risultati degli atenei premierebbero le politiche meritocratiche e sarebbe interesse del corpo docente delle diverse università impedire le attuali malversazioni.
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* Articolo pubblicato su “Il Protagora”, a. XXXII, gennaio-giugno 2004, quinta serie, n. 3, pp. 59-65.