17/03/2008
di Maurizio Tiriticco
Per una ricomposizione delle conoscenze
Il documento con cui si traccia il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale intitolato Persona, tecnologie e professionalità, recentemente prodotto dalla Commissione ministeriale ad hoc, è indubbiamente interessante e, per certi versi, nuovo nel suo impianto e nelle sue argomentazioni. In effetti, la prospettiva di promuovere un’istruzione tecnica di tutto rispetto, assolutamente riscattata dal suo vizio di origine gentiliano, per cui tutto ciò che non è classico e letterario sarebbe sempre un qualcosa di secondo livello, è assolutamente necessaria. L’evoluzione dei saperi nelle società avanzate ci ha ormai confermato da tempo che sul piano della ricerca e dello sviluppo delle conoscenze non ci sono gerarchie di sorta. Le ricadute di tale assunto sui processi educativi sono altrettanto importanti e determinanti, per cui è assolutamente necessario che tutti i percorsi dell’istruzione postobbligatoria vengano riordinati e vengano cancellate per sempre gerarchie che non hanno più ragion d’essere.
Nel nostro Paese il cammino in tale direzione ha preso l’avvio. Ne sono testimonianza recenti documenti. Nelle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, il capitolo intitolato Per un nuovo umanesimo sottolinea come sia decisiva ai fini di un rinnovamento complessivo dell’intero Sistema educativo “una nuova alleanza tra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo”. Il Ministro Fioroni ci ricorda nella sua nota del primo settembre 2007 che “la dimensione educativa del nuovo obbligo di istruzione intende fornire ai giovani gli strumenti per l’acquisizione dei saperi e delle competenze indispensabili per il pieno sviluppo della persona in tutte le sue dimensioni e per l’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza”: saperi, competenze e diritti che – ricordiamolo – per la prima volta nella nostra storia di europei – sono comuni a tutti i giovani dell’Unione europea. Ed ancora, la questione di un’educazione diffusa e ad ampia valenza culturale costituisce una assoluta centralità sia nelle Linee guida per la riorganizzazione del Sistema di istruzione e formazione tecnica superiore e la costituzione degli Istituti tecnici superiori che nei recenti provvedimenti relativi alla istituzione dei Poli tecnici superiori e al riconoscimento della piena autonomia dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti.
E evidente che stiamo operando una importante trasformazione: stiamo lentamente ma decisamente passando da un Sistema scolastico, tipico di una società in cui la scuola è intesa ed esercitata come un servizio pressoché riservato ai bambini e agli adolescenti, ad un vero e proprio Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione, ed in dimensione europea, aperto a tutti e per la loro intera vita, con una assoluta continuità tra istruzione di base, istruzione secondaria, istruzione superiore, formazione professionale, percorsi universitari. E a tutti sarà reso un servizio a tempo pieno e a spazio aperto non solo da parte delle istituzioni scolastiche in senso stretto, opportunamente riordinate, ma anche da parte delle istanze del territorio e dei settori produttivi.
Il pasticcio dell’istruzione tecnica “e” professionale “e” liceale
Le linee di tendenza che abbiamo riassunte costituiscono un’assoluta novità nel campo dell’educazione e stanno ad indicare percorsi di apprendimento che dovranno essere profondamente connotati da una forte valenza culturale. Qualunque sia il percorso postobbligatorio scelto dal cittadino/persona che deve diventare anche lavoratore, la dimensione cognitiva, ovviamente con tutte le differenziazioni che può assumere nelle sue specifiche e molteplici variabili, deve avere un alto spessore.
In effetti, tutti i percorsi postobbligatori sono anche preprofessionalizzanti, di ampio spessore all’avvio, quindi sempre più orientati verso specifici settori lavorativi, dalle qualifiche professionali fino alle specializzazioni universitarie. Ed è nell’arco di questa specificità che il nuovo umanesimo si deve manifestare comunque e sempre, indipendentemente dalle mansioni che il soggetto poi svolgerà. Se tale assunto è vero – e sono le linee di tendenza che oggi si stanno sviluppando nella società della conoscenza – non si comprendono le ragioni che hanno condotto la Commissione che ha steso il documento Persona, tecnologie e professionalità ad operare una netta distinzione tra l’istruzione tecnica e l’istruzione professionale.
Ovviamente la responsabilità della Commissione è stata, per così dire, limitata, stante il fatto che doveva rifarsi a un dettato di cui alla legge 40/07. Tuttavia, sembra con le concrete scelte di riordino adottate dalla Commissione, si corra il rischio di confermare, e di riprodurre – forse al di là delle intenzioni di cui al citato documento – i tre percorsi di sempre, quello classico-umanistico, quello tecnico, con tutta l’enfasi che nel documento lo connota, e quello professionale. Viene da pensare: non è anche un percorso tecnico quello in cui si apprende a tradurre dal greco all’italiano o a disquisire sul secondo canto del Paradiso o dell’Io fichtiano? E non è anche un percorso tecnico quello che conduce ad acquisire competenze nel campo della musica, della pittura, delle arti plastiche? E non è forse scienza (dallo scio -is dei latini) lo studio delle lingue, della letteratura, della filosofia? Oppure, nonostante le belle dichiarazioni sul nuovo umanesimo, sembra che per alcuni pesi ancora la riserva mentale per cui scienza, tecnica e tecnologia sono cosa altra rispetto ad altre attività di ricerca e produzione. E forse più attinenti alla spiritualità che alla materialità?
Il fatto che si intenda rilanciare l’istruzione tecnica – specialmente dopo il panlicealismo della Moratti e dopo gli esiti dell’indagine Pisa – indubbiamente è più che corretto. Ma non emerge anche un “caso” relativo all’istruzione umanistico-letteraria? Si pensa forse che questo canale di studi sia immune dall’usura? Che sia l’unico perfetto ed irriformabile? L’unico percorso di studi “serio” e “severo” che non occorre riordinare? Assolutamente no! Il nuovo umanesimo passa trasversalmente attraverso tutta la nostra cultura, attraverso tutti i nostri percorsi di studio! Se non si accetta questa tesi, viene da pensare che ci sia una istruzione “altra” – quella su cui ancora non si è avanzata alcuna proposta – quella dei nostri licei, che nulla avrebbe a che fare con l’istruzione professionale, o meglio con un’istruzione che sia anche professionalizzante o – se piace di più – preprofessionalizzante!
Il nodo gordiano del Titolo V
Vi è, tuttavia, una ragione specifica per cui l’attenzione è oggi concentrata più sull’istruzione tecnica e professionale che su quella umanistico-letteraria: la difficile attuazione del novellato Titolo V della Costituzione repubblicana.
Facciamo un passo indietro. Nella Costituzione del ’47 si affermava all’articolo 115 che “le Regioni sono enti autonomi con propri poteri e funzioni” E all’articolo 117 si affermava che, tra le competenze regionali figura anche “l’istruzione artigiana e professionale”. Tale scelta fu determinata dal fatto che la Regione è direttamente legata alle specificità del mondo del lavoro e può meglio organizzare i percorsi in materia, appunto, di formazione professionale. Va considerato, però, che le Regioni, fatta esclusione di quelle a Statuto speciale, videro la luce solo negli anni Settanta, per cui, nelle more di un avvio di una formazione regionale, lo Stato ritenne opportuno intervenire a mo’ di supplenza e istituì quei corsi di istruzione professionale – per distinguerli dalla formazione regionale – che furono poi organizzati e affidati addirittura ad una Direzione generale ad hoc del Mpi.
Ora, con il novellato Titolo V (legge Cost. 3/01), nel quadro del tanto atteso avvio della decentralizzazione dei poteri dallo Stato alle Regioni, si è scelto di tornare alle origini e restituire per intero alle Regioni tutti i percorsi direttamente professionalizzanti. Si è stabilito che tra le materie di legislazione concorrente figurasse “l’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale”. Stando alla lettera del nuovo dettato costituzionale, un percorso di studi che sia finalizzato all’esercizio di una professione di livello intermedio (le lauree sono rilasciate dalle università) è di competenza regionale.
Ma una cosa è la norma, altra cosa sono i fatti. Ragionando con estrema approssimazione, da un lato l’Istruzione professionale statale temette di perdere ruolo e specificità; dall’altro le Regioni, già impegnante nella formazione professionale di loro competenza, temettero che lo Stato volesse caricarle di nuove responsabilità senza contropartite di sorta. Ne è nata una conflittualità – contrappuntata da numerose sentenze della Corta costituzionale – della quale a tutt’oggi non sono affatto chiari gli sbocchi. Con l’amministrazione Moratti si optò per una cancellazione di tutta l’istruzione tecnica e professionale statale e si dette vita ad otto percorsi liceali statali. Con l’attuale amministrazione, invece, si è operata un’altra scelta: ridare forza e prestigio all’intero asse dell’istruzione tecnica e professionale connotandone una piena competenza statale. Ma si tratta di una scelta convincente, sia sotto il profilo costituzionale che sotto quello educativo, istruttivo e formativo?
Serie A e serie B per i tecnici e i professionali!?
Sotto il profilo costituzionale, la norma è completamente saltata! Lo Stato riprende ciò che la Costituzione gli ha tolto! E questo perché? Perché si ritiene che le Regioni non siano all’altezza di effettuare loro stesse il rilancio di quell’istruzione tecnica di cui tutti avvertiamo una assoluta necessità? Perché lo Stato teme di svendere uno dei gioielli di famiglia di cui si è fatto sempre un gran vanto? Ma allora perché si è giunti a riscrivere il Titolo V?
Così, mentre sotto il profilo del diritto costituzionale si ritiene che le Regioni debbano gestire in prima persona tutta la partita “della istruzione e della formazione professionale”, nei fatti invece si agisce in senso contrario! E con la legge 40/07 lo Stato si è riappropriato in via definitiva (con gran dispetto delle Regioni, ovviamente) dell’istruzione tecnica e dell’istruzione professionale, con l’impegno di procedere ad un loro riassetto educativo, culturale ed ordinamentale. Fin da allora fummo in molti a nutrire forti dubbi sulla necessità di procedere ad un semplice riordino di percorsi, molti dei quali, nel giro degli ultimi decenni, erano diventati veri e propri doppioni. Infatti, nella misura in cui i corsi dell’istruzione professionale, in seguito alla riforma del ’69, sono stati quinquennalizzati consentendo anche l’accesso all’università, e con l’adozione dei Progetti ’92 e 2002 hanno assunto uno spessore culturale per nulla inferiore ai corsi dell’istruzione tecnica, si è reso sempre più difficile ritrovare nette differenze tra corsi tecnici e corsi professionali. Forse sarebbe stato più opportuno ripensare prioritariamente all’impianto complessivo dell’intera istruzione secondaria con particolare attenzione a tutti i curricoli postobbligatori.
Il documento presentato lo scorso 3 marzo dalla Commissione ministeriale incaricata di tradurre in proposta operativa l’assunto della legge 40 non poteva fare più di quello che ha fatto, stando sia al mandato affidatole che allo stato in cui operano gli attuali istituti tecnici e professionali. Gli spazi concessi alla Commissione dalla legge erano molto stretti: restituire due specifiche differenziazioni a due tipologie di istituti che nel corso degli anni si sono venuti sempre più assimilando era impresa difficile, se non impossibile. Ma la Commissione aveva un mandato preciso ed è riuscita, comunque, a quadrare il cerchio. Due tocchi da maestro! Un high tech e un high touch e il gioco è fatto! Anche se all’insegna del più scoperto nominalismo!
Così apprendiamo che le differenze tra le due tipologie sono le seguenti: a) l’istruzione tecnica è correlata alla innovazione e allo sviluppo delle tecnologie, mentre quella professionale è correlata alla loro applicazione e personalizzazione; b) le variabili discriminanti sono per la prima le tecnologie e le tecniche, per la seconda i settori e i contesti produttivi; c) i contenuti formativi prevalenti nella prima sono di carattere tecnico-scientifico, tecnico relazionale nella seconda; ed è qui la preziosa illuminazione dell’high-tech e dell’hig touch; d) nella prima tipologia la complessità dominante è la tecnologia, nella seconda l’applicazione. Ovviamente nel documento il discorso è molto più disteso e per certi versi anche suadente, ma…
Ma non si corre il rischio di conferire all’istruzione tecnica una valenza tutta teorica ed alla professionale una valenza tutta pratica? E di riprodurre artificialmente – e per norma – proprio quella differenziazione che, invece, è stata superata nel corso degli ultimi anni? Da tempo la ricerca psicopedagogica insiste sulla circolarità che corre costantemente tra mano e mente, tra fare e sapere, tra tecnhe e theoria, e sulla necessità di superare la dicotomia tra studi letterari e studi scientifici, proprio in forza di questo riscoperto “nuovo umanesimo”. Ma poi? Ci proponiamo di riordinare un’istruzione tecnica, tutta ricerca tecnologica, ed una istruzione professionale, tutta applicazione pratica?
Mah! Se andiamo a leggere le conclusioni dell’Indagine conoscitiva sulle problematiche connesse alla riforma del secondo ciclo del Sistema educativo nazionale di istruzione e di quello di istruzione e formazione professionale, condotta recentemente dalla VII Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera dei deputati, cogliamo passaggi interessanti. Vi si afferma testualmente che nel modello gentiliano “la separazione tra ‘sapere’ e ‘fare’ muoveva in larga parte dalla presa d’atto di una divisione in classi della società italiana che, inevitabilmente, si ripercuoteva anche sulla cultura generale … Per il modello gentiliano, protrattosi anche successivamente alla nascita della Repubblica italiana, non era né realistica né utile una scuola che modificasse lo status quo in senso inclusivo”. Da allora le cose sono profondamente cambiate e non è un caso che “il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 abbia conferito all’Unione europea un nuovo ambizioso obiettivo: diventare entro il 2010 l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo…Non ha più senso parlare di scuola ‘teorica’ e formazione ‘pratica’; invece ha significato assumere il meglio dagli strumenti didattici legati all’apprendimento di quelle che si potrebbero definire ‘conoscenze sperimentali’ e ‘nozioni materiali’. L’obiettivo di fondo è suscitare l’interesse dello studente – poco importa se in un liceo o in un istituto tecnico o professionale – alla conoscenza attraverso la dimostrazione della sua ‘realtà’ e non solo con l’apprendimento teorico”.
I possibili effetti del riordino annunciato
Le ricadute dell’annunciata “riforma” non saranno di poco conto. Sul piano culturale ed educativo, sembra che non riusciamo liberarci dei tre canali di sempre, quello privilegiato dei licei, quello tecnico a tutto tondo, e quello professionale, essenzialmente finalizzato ad un inserimento rapido nel mondo del lavoro. In ordine a questa terza opzione, occorre tener conto del fatto che le Regioni non stanno con le mani in mano e – a prescindere dal contenzioso a cui daranno vita – attivano da tempo i loro percorsi di formazione professionale mirati ad un obiettivo che è e sarà concorrenziale con quello dell’istruzione professionale di Stato.
La schizofrenia con cui ci misuriamo da anni non solo non sarà superata, ma si aggraverà. In altri termini, un giovane uscito dall’obbligo di istruzione, se intende continuare nell’istruzione ha, due scelte precise e diverse, i licei e i tecnici; se vuole misurasi presto con il mondo del lavoro, ha, invece, due scelte sovrapposte e concorrenziali, quella dello Stato e quella della Regione. Perché dovrebbe optare per lo Stato, quando la Regione offre percorsi più articolati, più flessibili, più incardinati nella sperimentalità, nell’immediato saper fare, maggiormente legati al mondo del lavoro? Ed ancora: perché dovrebbe optare per lo Stato dal momento che, se a 17 anni volesse conseguire una prima qualifica, l’istituto professionale non è in grado di rilasciargliela se non con il concorso attivo della formazione professionale regionale? Come se l’autonomia di cui gode l’istituzione scolastica statale fosse limitata dall’istituzione regionale.
A questo punto va anche considerato il divario Nord-Sud. Nel Nord la concorrenzialità tra il sistema professionale statale e quello regionale sarà aspra. Nel Sud si può correre il rischio che una moneta cattiva cacci quella buona! E bisogna anche pensare ai fondi europei, che finanziano la formazione regionale e che per certi versi ed in alcune situazioni la potranno rendere più appetibile rispetto all’istruzione professionale. Comunque, nella citata indagine svolta dalla VII Commissione della Camera, è puntualmente descritta la variegata casistica delle tante formazioni professionali regionali. Si può anche considerare l’ipotesi di un’altra strada, quella di andare alla costruzione di percorsi fortemente integrati, tra istruzione, formazione e realtà produttive, con un alto tasso di continuità orizzontale.
Ma viene sempre da chiedersi: tutte queste implicazioni a chi giovano? Risorse, danaro, energie saranno spese a sostenere percorsi intercambiabili, ora ostili, ora concorrenti, ora interagenti, ora integrati. Va anche considerato che le Regioni attendono che lo Stato entro il mese di settembre 2009 definisca le norme generali sull’istruzione e i principi fondamentali che sono di riferimento per la legislazione concorrente in materia di istruzione nonché i livelli essenziali delle prestazioni relativi all’istruzione e formazione professionale di competenza esclusiva regionale. Si tratta di una matassa di adempimenti resa ancora più intricata dalle iniziative assunte dallo Stato, o meglio dal Mpi – anche se a livello di proposta aperta – con il documento dello scorso 3 marzo sull’istruzione tecnica e professionale.
In conclusione, il rischio è che l’istruzione professionale statale venga a trovarsi come il classico vaso di coccio, perennemente sballottato da un lato da un’istruzione tecnica effettivamente riordinata e rafforzata, dall’altro da una formazione professionale regionale ala ricerca di una sua identità, garantitale per altro dal dispositivo del Titolo V. Tale situazione di precarietà si aggraverebbe quando le Regioni avranno la piena legislazione concorrente in materia di istruzione. Vale la pena ricordare che nel Friuli Venezia Giulia è stato sottoscritto un protocollo “Illy-Prodi” in forza del quale dal 2009 tutta l’amministrazione scolastica passerebbe alla Regione e lo stesso Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale sarebbe sostituito da un Dirigente regionale.
Si tratta di situazioni e di segnali che non lasciano affatto bene sperare. E non si vuole affatto che il documento della Commissione ministeriale, pur pregevole per il suo spessore culturale e per le soluzioni che propone, non costituisca, a fronte delle prossime scadenze legislative, nazionali e regionali, un limite invece che un’opportunità.
PS – Ho letto qualche giorno fa su Il sole-24ore e oggi su TuttoScuola focus che l’amico Giorgio Allulli, pur essendo primo nella graduatoria dalla quale il Mpi doveva scegliere i tre membri del nuovo Comitato direttivo dell’Invalsi, non è stato affatto considerato, nonostante i suoi meriti di esperto di problemi di valutazione, peraltro pubblicamente noti al mondo della scuola. Sarebbe interessante conoscere, ai fini della trasparenza, quali criteri siano stati adottati per nominare tre membri dei quali nessuno sembra avere particolari esperienze in un area disciplinare che per un istituto come l’Invalsi appare assolutamente prioritaria. Anche perché, in materia di valutazione di sistema, nei prossimi anni – con tutti i problemi aperti tra Stato e Regioni – avremo senz’altro un gran da fare!
Roma, 17 marzo 2008