Note & Interventi

La scuola, un’istituzione democratica della Repubblica

 


Rossella Marzullo, Docente Università di Reggio Calabria – Relazione al seminario “La scuola che vogliamo. Idee ed una proposta di scuola democratica“.

Reggio Calabria, I.C. “B. Telesio”, 20 febbraio 2020


 

Per comprendere le ragioni per cui la scuola è da intendersi come una delle più importanti istituzioni democratiche della Repubblica, bisogna ricordare qual è l’humus culturale in cui tale concezione è nata.

Il Novecento è stato un secolo di profondi cambiamenti, afflitto da due guerre mondiali, ricordato per il misconoscimento dei diritti fondamentali della persona e per le persecuzioni razziali, ma anche per la straordinaria rinascita dell’uomo, così ben rappresentata dalla poesia dei primi decenni del XX secolo, in cui hanno fatto la loro comparsa temi propri della letteratura di ogni tempo legati all’acqua e alle sue figurazioni.

L’immersione, il viaggio per acqua, il naufragio, il rispecchiarsi dell’uomo nell’elemento liquido, costituiscono il simbolo della rigenerazione che sembra essere il fil rouge del secolo breve.

Il Novecento è infatti l’era del riscatto dell’essere umano rispetto alla sofferenza, alla sopraffazione e alle esperienze di aridità interiore imposte dalla sua tormentata storia. Esso ha costituito, nella sua contraddittoria fisionomia, il punto di partenza per una nuova cultura dell’individuo, recuperando in questa dimensione una rinnovata sensibilità anche verso il mondo dell’infanzia.

Così hanno visto la luce la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e, soprattutto, la nostra Carta costituzionale, simbolo del ripudio degli orrori inferti ai singoli negli anni del totalitarismo e dei conflitti mondiali e monumento del pluralismo, unica vera ricchezza capace di far convergere tutte le culture nella condivisione dei valori universali.

Nell’impianto costituzionale, la scuola occupa un posto di primo piano, come sottolineava Calamandrei nel discorso pronunciato al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), (Roma 11 febbraio 1950). La scuola, secondo Calamandrei, è da considerarsi un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione, al pari della Camera dei deputati, del Senato, del presidente della Repubblica e della Magistratura.

Egli riteneva di dover considerare la scuola un organo costituzionale perché sapeva bene che nell’idea dei padri costituenti la scuola era stata pensata come organo centrale della democrazia. Perché? Perché essa è il veicolo per l’inveramento dei principi fondamentali della Costituzione stessa: è attraverso la scuola che si forma la futura classe dirigente, è attraverso la scuola che si offre la possibilità ai più meritevoli di compiere un percorso di formazione che consenta l’accesso a tutte le professioni, indipendentemente dal censo, è attraverso la scuola che si attuano i principi di uguaglianza e solidarietà sociale. Infatti, per formazione della classe dirigente deve intendersi non solo la formazione della classe politica, ma anche la formazione della classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti.

Nelle parole di Calamandrei questo è il compito autentico della scuola democratica: «la creazione di una classe dirigente che non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società».

A questo deve servire la democrazia, essa deve permettere ad ogni uomo di avere una chance, quella dell’autorealizzazione che su larga scala corrisponde naturalmente alla realizzazione di una società migliore.

Questo è il principio che l’art. 34 della Costituzione italiana intende inverare: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo: la funzione della scuola , quale istituzione fondamentale della Repubblica, è quella di coltivare le menti per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente e il miglioramento della società in generale.

La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea sudditi o prodotti del mercato da posizionare in spregio a qualsiasi valore etico.

In questo senso la scuola è la proiezione applicativa di altri due fondamentali articoli della Costituzione:

– l’art. 3: “Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

– l’art. 51: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.

L’alto compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana spetta innanzitutto alla scuola, strumento prezioso per dare a tutti gli uomini la dignità di uomo, strumento di eguaglianza civica, di trasmissione della cultura del rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni.

Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro – “corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.

In questi termini la Costituzione italiana ha una straordinaria forza pedagogica.  Ma siamo così sicuri che l’idea della scuola come istituzione della Repubblica, come articolazione dello Stato a difesa della democrazia, addirittura come “organo costituzionale” secondo la definizione di Calamandrei, sia oggi inverata dall’impianto attuale e dalla cultura dominante?

Gli articoli 33 e 34 della Costituzione repubblicana affermano che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» (art. 33) e che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34), ma nell’impianto attuale del sistema scolastico sembra che i principi contenuti nei predetti articoli abbiano subito un processo di dissoluzione.

 

Dissoluzione dell’art. 33.

L’articolo 33 sembra essersi dissolto nelle pieghe di nuove più o meno larvate forme di autoritarismo, nel quale il talento e la responsabilità culturale di ogni singolo docente vengono sostituiti da una serie di metodologie imposte dall’alto e verticisticamente calate nella pratica didattica quotidiana.

Lo scenario attuale ci consegna infatti una scuola, così come anche un’università, piegata alle regole del mercato. Anche il linguaggio riflette questo mutato clima culturale che sembra sempre più curvato sull’aziendalismo.  Gli insegnanti, mutuando il linguaggio aziendale, sono considerati risorse umane e vengono gestiti al pari di strumenti finanziari e strutturali con efficienza ed efficacia, in un’ottica di tipo aziendalista tesa a contenere i costi per massimizzare i profitti.

Lo strumento formalmente tecnico ma sostanzialmente ideologico per conseguire tale risultato – che di fatto annienta il senso autentico dell’art. 33 della Costituzione– è la cosiddetta valutazione.

Parafrasando Foucault potremmo parlare di una sorta di contemporaneo “Valutare e  punire”. Imporre un criterio di valutazione è come imporre un linguaggio. Significa costringere altri a impegnare se stessi e il proprio agire su un territorio scelto da chi valuta, con parametri che sono tanto più di parte quanto più si presentano come oggettivi, con interpretazioni tanto più insidiose quanto più danno a intendere di essere invece dei semplici fatti.

Eseguire le indicazioni di una entità che non è né la scienza, né l’umanità, né l’istituzione nella quale si lavora e si vive, ma “il mercato”, è un’idea di conoscenza concepita interamente sotto il segno della esecuzione, dell’ubbidienza senza sforzo e senza tentennamenti a un sistema di regole definito in anticipo, dall’esterno e dall’alto.

La parola chiave è mercato, il principio supremo al quale tutto sacrificare, è il sistema produttivo verso cui far convergere l’attività di ogni laboratorio, accademia, biblioteca, lo scenario globale che unifica i saperi, le idee e i linguaggi sul fondamento di una standardizzazione universale dei metodi, dei contenuti e degli obiettivi. È quindi evidente che la valutazione non è un fatto tecnico e neutro ma è diventata una vera e propria visione del mondo e un’autentica «cifra del nostro tempo».

Dietro l’apparente neutralità oggettiva del dato numerico, tutti i docenti, anche i docenti universitari, sono sottoposti a una costante ‘intimidazione matematica’, ad una ‘tirannia della metrica’ che alimenta sentimenti collettivi di inadeguatezza e competizione e funge da base pseudo-scientifica delle nuove politiche dell’emergenza.

I dati che i documenti internazionali, i questionari, i rapporti, i decaloghi, le raccomandazioni, contengono, si fondano su un sistema troppo incline alla iper-semplificazione e alla trasversalità, finendo con l’ignorare le specificità dei contesti, delle condizioni storico-geografiche e sociali.

Tutto è sostituibile dall’apparente neutralità e oggettività di indicatori numerici, in spregio alla ratio sottesa all’art. 33, il cui respiro era decisamente più ampio.

 

Dissoluzione dell’art.34

Anche l’articolo 34 della Costituzione repubblicana sembra essersi dissolto nella progressiva imposizione dei principi di competizione, concorrenza, individualismo patologico, del ‘a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha’.

La dissoluzione è avvenuta innanzitutto mediante l’abolizione della funzione educativa della scuola e la sua sostituzione con una funzione meramente istruttiva.

Se l’educazione mirava alla Bildung, ora l’istruzione è invece finalizzata a creare dei meri ‘tecnici’, in grado di conformarsi pienamente alla tecnocrazia mondiale totalmente asservita al neoliberalismo della globalizzazione, finalizzata unicamente all’incremento costante del profitto che tutto fagocita entro il proprio orizzonte utilitaristico e distruttivo.

L’art. 34 sembra essere stato fagocitato dalla sostituzione delle conoscenze disciplinari con una didattica per competenze che risulta tanto più ossessivamente ripetuta quanto più rimane vaga nel suo significato. L’antitesi tra conoscenze e competenze è infatti strumentale ed è funzionale alla trasformazione della scuola da spazio di elaborazione critica a luogo di utilizzo di dispositivi e metodologie pensate da altri e pensate per alimentare e autoalimentare il narcisismo imperante anche attraverso formule linguistiche che fanno assurgere a diritto un non meglio precisato concetto di “successo formativo”.

Formule volutamente vaghe, quasi propagandistiche che riconfigurano addirittura in termini di diritto, dunque di pretesa, intrinsecamente coercibile, il c.d. successo formativo.

Anche le parole ci raccontano lo zeitgeist… siamo passati dal principio secondo cui “I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, al “diritto al successo formativo”.

C’è una differenza concettuale profonda, dolente, tra il diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi conferito a tutti i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi e il diritto trasversale e indistinto al successo formativo. Sembra uno slogan, degno della civiltà dello spettacolo per dirla con il premio nobel Vargas Llosa, lontano dalla cultura dell’uguaglianza, della dignità e del merito a prescindere dal ceto sociale.

Come si vede, nell’imposizione di riforme stabilite d’autorità e in modo del tutto artificioso sul corpo vivo delle strutture scolastiche e universitarie, ciò che è in gioco non è un qualche consolidato metodo didattico; è in gioco qualcosa di più grande: la libertà intellettuale e la capacità progettuale delle nuove generazioni.

Mediante il proliferare della miriade di ‘educazioni’ alimentare, ambientale, sessuale, stradale, sanitaria; attraverso l’accrescersi delle ore dedicate ad attività ludiche, all’alternanza scuola-lavoro; attraverso l’abitudine da quest’ultima instillata a offrire gratuitamente il proprio lavoro, la scuola si propone sempre più come un luogo di divertimento per accrescere il numero di iscritti e allettare le famiglie, così come fanno tutti gli operatori economici nelle operazioni di marketing, con proposte formative sempre più articolate e infarcite di possibilità.

La scuola diventa quindi cinghia di trasmissione delle esigenze del mercato e forma figure capaci di essere dallo stesso assorbite e prive di quella critica dell’esistente che è il portato più fecondo della storia italiana ed europea.

L’articolo 34 della Costituzione italiana non garantisce a nessuno ‘pari opportunità di successo formativo’ ma offre a ogni membro del corpo collettivo «capace e meritevole» uguali occasioni di apprendimento, senza che l’esito sia condizionato dall’origine sociale e dalle condizioni economiche.

Il sogno illuministico e laico di una scuola concepita come ascensore sociale, come riscatto dei ceti popolari, come premiazione del merito indipendentemente dalla professione o dalla provenienza sociale dei genitori, si sta così estinguendo senza che nessuno ne abbia dichiarato esplicitamente l’obsolescenza o ne abbia firmato il certificato di morte.

E così la scuola italiana, come anche l’Università, sta progressivamente allontanandosi da quell’idea che sembra averne governato per una lunga fase l’evoluzione e via via scivolando verso il clientelismo nella forma della promozione generalizzata volta a mantenere i posti di lavoro nelle scuole; nell’ assistenzialismo teso a deresponsabilizzare la persona; nei rapporti patologici e perennemente conflittuali tra le varie componenti: docenti, dirigenti, allievi, famiglie.

Si è creato, mi viene da pensare ad hoc, un falso universalismo egualitario che riconferma anche nella scuola tutte le effettive diseguaglianze di partenza che si traduce nei fatti in una iniquità complessiva come risultato di una logica distorta tesa a premiare i furbi che sappiano guadagnarsi visibilità e a deprimere il merito e l’impegno.

Il dettato costituzionale viene dunque progressivamente svuotato dall’interno. Tale svuotamento produce diversi gravi effetti:

– l’aumento delle diseguaglianze;

– la perdita della funzione di ascensore sociale della scuola a tutto vantaggio di chi proviene da famiglie agiate che si possono permettere di pagare per gli studi dei figli e anche di mantenerli più a lungo fino a quando non si rendano autonomi professionalmente;

– la perdita progressiva e inesorabile della capacità di leggere e di comprendere testi di media difficoltà, poiché in questo sistema, alterato dai numeri e dalle valutazioni che abbandonano del tutto i sistemi tradizionali, un numero sempre più elevato di studenti non sa scrivere correttamente e non sa esprimersi adeguatamente.

La scuola delle competenze insegna infatti sempre meno a scrivere correttamente, sostituendo questa fondamentale capacità con fumose formule del tipo ‘imparare a imparare’ e promuovendo l’acquisizione di abilità che senza quelle di base non potranno mai essere possedute, né spese, dagli studenti.

 

La Scuola della Costituzione

Le riforme volute dal neoliberismo stanno dunque avendo due effetti complessivi.

Il primo è la sostituzione della dimensione culturale dell’educazione umana con la dimensione burocratica che pesa sempre più sulla pratica didattica quotidiana: la valutazione, la misurazione e il monitoraggio della ‘qualità’ si è così trasformata in una sorta di ossessione istituzionale e burocratica, all’interno della quale si stanno costruendo nuove e subdole forme di controllo e di potere che minacciano seriamente la cultura e i valori democratici.

Il secondo è la dissoluzione degli aspetti più fecondi e di maggiore equità che la tradizione educativa europea possedeva, nonostante il suo impianto ideologico classista, e l’accentuazione invece dei suoi aspetti deteriori, formalistici, iniqui. «L’aziendalizzazione vigente», infatti, «peggiora i difetti della scuola precedente e ne erode alcune positività».

Leggiamo la seguente dichiarazione: «Tutto quello che sarà tolto all’enciclopedismo nozionale, che ora affatica le menti, sarà dato al lavoro; e il tempo, vanamente perduto finora nell’acquisizione di dati eruditi, verrà impegnato con profitto d’una formazione integrale nella conquista di attitudini pratiche». Questa affermazione, che ben descrive lo spirito e gli intenti della cosiddetta ‘Buona scuola’, è di Giuseppe Bottai, ministro dell’Istruzione dal 1936 al 1943, e si trova nella Carta della scuola voluta dal fascismo.
Ebbene, quando ci interroghiamo sul ruolo della scuola nel sistema democratico, nell’impianto costituzionale, dovremmo tornare all’interrogativo posto nel 1784 dal mensile berlinese Berlinische Monatsschrift agli intellettuali tedeschi: Che cosa è l’illuminismo?

A questo interrogativo Kant rispose: «Illuminismo (Aufklärung) è la liberazione dell’uomo dallo stato volontario di minorità intellettuale. Dico minorità intellettuale, l’incapacità di servirsi dell’intelletto senza la guida d’un altro. Volontaria è questa minorità quando la causa non sta nella mancanza d’intelletto, ma nella mancanza di decisione e di coraggio nel farne uso senza la guida di altri. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto! Questo è il motto dell’illuminismo».

Nessuno può imparare ad essere libero se non viene educato al pensiero critico, se non viene educato anche al fallimento, allo scacco, alla perdita.

Una scuola che abdica al ruolo educativo è una scuola estranea a quella pensata dai padri costituenti, che ad essa hanno affidato il compito di ridurre gli svantaggi culturali e sociali, il compito altissimo di restituire possibilità di crescita e miglioramento a chi nasce in contesti familiari deprivati.

La scuola attuale non è, a mio avviso, la scuola pensata dalla Costituzione, che presentava forti assonanze con la scuola deweyana, scuola intesa quale laboratorio di democrazia, perché come diceva Dewey la democrazia non è solo una forma di governo, ma è molto di più, è una cultura, è way of life, è “prima di tutto una forma di vita associata, di esperienza continuamente comunicata”. Ritengo che non sia la scuola pensata dalla Costituzione perché il mito della produttività è stato rovesciato senza filtri nel campo dell’ educazione sotto il manto del riformismo del e delle necessità di ammodernamento del sistema scolastico, nonostante il dato paradossale della riduzione degli stanziamenti per l’istruzione. Ricordiamo tutti l’improvvida ma sintomatica battuta dell’ex ministro Tremonti sulla cultura che non dà da mangiare! Purtroppo i “risparmi”  sulla scuola pubblica e sugli istituti di ricerca, l’ostentato  disprezzo per i “beni culturali”, che la Repubblica avrebbe tra l’altro l’obbligo di tutelare (Art. 9 Cost.), non sono fenomeni passeggeri, ma sono drammaticamente destinati a durare e lasciare un segno difficile da cancellare.

Quanto alle cosiddette riforme di questi ultimi anni, a me pare che – non fondandosi su un solido terreno culturale condiviso, condizionate come sono state dalla contingenza politica del momento anziché esser parte di un progetto sociale e culturale strutturato e proiettato verso il futuro – esse risultino deboli e inefficaci. Perciò è senz’altro necessario un nuovo ripensamento del sistema nel suo complesso, ma finché prevarrà la logica dell’utilitarismo e del produttivismo, la formazione dell’uomo, la sua educazione al pensiero critico e al gusto per l’estetica, continueranno ad essere percepite come una perdita di tempo, anti-economica e superata dai tempi nuovi. Ne consegue che sarà un’impresa difficilissima persuadere i ragazzi disincantati d’oggi che un altro mondo è possibile, un mondo in cui le competenze non siano unicamente funzionali al loro impiego economico immediato, ma strumenti per migliorare l’umanità in tutti e in ciascuno.

Dunque si, un cambiamento di rotta è necessario. Ma in quale direzione? Sebbene il quadro attuale sia tutt’altro che confortante, mi chiedo e vi chiedo: se si spegnesse la speranza e l’impegno di fare della scuola pubblica un laboratorio quotidiano e aperto dove docenti e allievi, vecchi e giovani, esperti e inesperti, dotati e meno dotati, condividano tempi, spazi, progetti, linguaggi, fatiche e speranze, che significato potrebbero ancora avere espressioni come “integrazione delle diversità”, “educazione ai valori”, “formazione dell’uomo e del cittadino” e, quindi, “democrazia sostanziale e non solo formale”?

L’incontro di oggi, le parole e le riflessioni spese su un tema dolente e complesso, siano allora il volano per il cambiamento, un cambiamento pensato, condiviso, attento a recuperare l’umano e l’humanitas, perché il cambiamento – come dice Olga Tokarczuck – è sempre più nobile della stabilità.


 Rossella Marzullo
Docente Università di Reggio Calabria

 

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