… FATTO L’ACCORDO, TROVATO L’INGANNO
Esultano le note sigle sindacali CGIL, CISL, UIL, SNALS, GILDA per il nuovo successo, l’ultimo di una lunga serie, frutto della loro preziosa interlocuzione con il governo in carica, che porterebbe, a loro dire, tanti benefici alla problematica situazione della scuola pubblica. Il trionfo ovviamente è amplificato dai media, che non tralasciano di celebrare la immediata revoca dello sciopero previsto per il 17 Maggio, con grande sollievo generale.
C’è da osservare però che negli ultimi anni l’attività dei Sindacati confederali si è sostanziata nella firma di qualsivoglia proposta governativa, senza ponderazione alcuna sugli effetti, spesso nefasti, prodotti da ciò che di volta in volta si andava a sottoscrivere, seguita dalla frettolosa revoca degli scioperi proclamati.
Niente di nuovo quindi, ma la consueta parata di dirigenti sindacali che sfilano dinanzi al governo di turno solo per affermare pubblicamente la loro esistenza, avendo da tempo abdicato al nobile ruolo sociale e politico di difesa del lavoro e di rivendicazione dei diritti delle categorie lavorative che rappresentano e di cui mensilmente percepiscono quota parte della loro retribuzione.
L’accordo del 24 aprile ben si inquadra in questo sterile teatrino che ormai va avanti da anni e che però non convince più nessuno, poiché fin troppe volte le promesse fatte sono state disattese e forte è, anche questa volta, la sensazione che non vi sia alcuna intenzione di dare risposte concrete alle istanze del mondo della scuola.
In effetti, questo decantato accordo prevede nuovi concorsi a cattedra ordinari, con percorsi agevolati per i precari aventi tre anni di servizio, un incremento di risorse in vista del rinnovo contrattuale per riequilibrare la perdita del potere di acquisto degli stipendi dei docenti, ed infine vi si dichiara l’intenzione di contenere le spinte regionalistiche sull’istruzione. Di fatto, anche queste misure promesse appaiono del tutto inadeguate. Oggi, un professore guadagna mediamente mille euro in meno all’anno rispetto al 2008. Gli stipendi degli insegnanti italiani oltre ad essere tra i più bassi d’Europa, sono proiettati verso netto ed inesorabile calo. La spesa per il personale della scuola, secondo i dati pubblicati recentemente dal MEF evidenziano una contrazione di ben 4 miliardi di euro in meno rispetto a dieci anni addietro.
Ancora, non si capisce quale senso abbia continuare a bandire concorsi di ogni genere quando ancora vi sono docenti di ruolo che attendono il trasferimento nelle sedi scolastiche cui avrebbero diritto per titoli e servizio, o docenti in esubero; non si comprende come si vorrà intervenire sul regionalismo differenziato che pare ancora essere una priorità della componente leghista del governo; e dove verranno prese le risorse aggiuntive per dare dignità economica ai docenti, ormai con stipendi da fame.
In effetti, più che impegni politici, appaiono semplici astrazioni, nulla di concreto. Solo promesse e accenni di impegni per gli anni che verranno. Ma tanto è bastato per revocare lo sciopero! Forse sarebbe bastato anche meno. Tuttavia, già questo fa capire qual era, e qual è, la determinazione dei sindacati di portare avanti le rivendicazioni della categoria, la più bistrattata del pubblico impiego.
Sfugge la ratio dell’affrettarsi a dare il consenso a tale risibile documento programmatico. La posizione da assumere era ben altra, di contrasto ed opposizione. E dispiace dover constatare che ancora una volta i docenti sono stati lasciati soli a proclamare il loro No alla scuola azienda, al dirigismo scolastico, alla burocratizzazione della scuola, alle classi pollaio, alla didattica per competenze, al regionalismo differenziato, all’immobilizzazione dei docenti meridionali al Nord.
Da questi imprescindibili obiettivi bisogna ripartire, perseguendoli con serietà ed impegno, ognuno nel proprio ruolo, senza pericolose commistioni. Al governo tracciare un indirizzo politico coerente con la tutela della scuola pubblica, ai sindacati la difesa della categoria, senza subalternità o sudditanza al potente di turno, ritrovando la perduta dignità della propria funzione.