di Teresa Celestino
In un articolo del 1976, in riferimento ai corsi di formazione rivolti ai maestri, Natalia Ginzburg scriveva che l’educazione è “cosa strana e misteriosa”, nella quale è impossibile “tracciare delle leggi e formulare un tipo di comportamento unico, immoto e costante” [1]. Qualche decennio più tardi anche Domenico Starnone, pur con la sua lunga esperienza di docente di scuola, si arrendeva alla difficoltà di definire come dovesse comportarsi un insegnante, limitandosi a scrivere in maniera volutamente utopistica che [2]
“occorre una sintesi superiore di dottrina, intelligenza, ricchezza umana. Insomma, per essere all’altezza dobbiamo diventare persone eccezionali.”
(poco prima aveva precisato: “ci devono pagare meglio, lo so; ci devono far lavorare con agio, lo so; ci devono trattare con le molle, è chiaro: ci devono fornire strumenti e spazi adeguati; ma ammettiamolo: sarebbe un lavoro appassionante.”)
È comune, tra gli scrittori insegnanti, la frustrante percezione della complessità di questa professione.
Lo stesso Starnone scrive dei suoi trasformismi didattici, dei tentativi falliti di vestire i panni di questa o quella tipologia di docente, approdando a una sconsolante verità: il bilancio della sua esperienza è negativo. È raro trovare questa spiazzante sincerità; si ripete continuamente che la qualità di una scuola è data dalla qualità degli insegnanti. Di conseguenza, se un insegnante poco ha ottenuto in termini di rendimento dei suoi studenti, probabilmente poco vale. Quando ha scritto quelle righe Starnone era ormai uno scrittore di successo: poteva permettersi di dire ciò che anche un ottimo insegnante eviterebbe di ammettere di fronte a una vasta platea (a partire dallo stesso collegio dei docenti): il bilancio è negativo.
Alla domanda “che fare?” gli scrittori (non) rispondono con una sorta di ritegno. I filosofi e gli psicanalisti sembrano più bravi a circoscrivere il problema, ma sempre nella vaghezza delle soluzioni ideali. Massimo Recalcati [3] e Umberto Galimberti ripetono da anni che gli insegnanti devono affascinare. Partendo da questo presupposto, i corsi di formazione avrebbero una utilità molto limitata a causa del carattere innato dell’attitudine all’insegnamento (così come il fascino, del resto: che può nutrirsi dell’esperienza, a patto che esso sia già presente in nuce). Inoltre le tecnologie digitali oggi al centro del dibattito pubblico sarebbero strumenti quasi del tutto ininfluenti nel contrastare la principale carenza del nostro sistema scolastico: la mancanza di educazione emotiva. Sono le emozioni che portano uno studente ad appassionarsi alla matematica, alle scienze o alla storia dell’arte; è il desiderio di provare l’emozione di capire che porta un ragazzo a trascorrere ore sui libri. Ore durante le quali si accenderà la passione per un campo del sapere, per un mestiere, per una professione. Ecco risolto il problema della dispersione scolastica, dell’abbassamento del livello culturale, dell’orientamento: servono insegnanti affascinanti. Tutti siamo d’accordo con Galimberti: come si fa a non desiderare tali insegnanti per i propri figli? E come non ricordare, con commossa gratitudine, i pochi insegnanti affascinanti che ci sono toccati in sorte? Altra cosa è supporre che almeno una parte non troppo limitata dei numerosissimi docenti delle scuole primarie e secondarie (sono più di ottocentomila!) possa essere dotato di questa caratteristica, e chi dovrebbe essere capace di intercettarla per fini selettivi.
La domanda è sempre la stessa: cosa fare? I verdetti delle indagini PISA-OCSE e INVALSI sono impietosi e, al di là della fiducia altamente variabile che gli educatori nutrono nei confronti di queste statistiche, è indubbio che il malcontento dei docenti di ogni ordine e grado è molto esteso. È sempre stato così? Non è difficile reperire scritti sul degrado della scuola in epoche insospettabili; questi documenti sono spesso usati in maniera strumentale dai detrattori della catastrofe educativa in atto, liquidando il grido di allarme come una sterile e infondata laudatio temporis acti.
Quello che maggiormente dovrebbe portare a riflettere sulla realtà di un decadimento da più parti negato è il numero delle testimonianze e il loro riferimento a un arco temporale ristretto, se si pensa che gli effetti su larga scala della qualità dei processi di scolarizzazione sono solitamente visibili sul lungo periodo. Ad esempio, fa specie che il sociologo Luca Ricolfi scriva [4]:
“Io stesso devo ammettere: se oggi pretendessi dai miei studenti, non dico quel che i miei docenti pretendevano da me, ma quello che io stesso pretendevo anche solo venticinque anni fa, non riuscirei a promuoverne più di uno su dieci.”
Di simili considerazioni pullulano i sempre più numerosi libri sulla scuola, a prescindere dalla prospettiva dalla quale si sviluppano: storiografica, pedagogica, sociologica; per non parlare di quella narrativa, considerato che ormai i romanzi sulla scuola sono talmente numerosi da aver quasi dato vita a un genere letterario a parte. Pieni di tangibile sconforto sono anche i locali – reali o virtuali – dove i docenti parlano tra loro, ma la voce degli insegnanti raramente è presa in considerazione (diceva il preside e critico letterario Giovanni Pacchiano negli anni ’90 [5], constatando tristemente lo status sociale dell’insegnante: “Chi, di quelli che predicano tanto, dall’alto di una posizione di privilegio, vorrebbe fare il cambio con te?”). E poi, qual è la voce degli insegnanti? Quella della professoressa moglie del notaio che compra la borsa griffata pagandola un intero stipendio o quella del supplente squattrinato che si arrabatta studiando giorno e notte? È estremamente difficile definire, seppure in linea generale, una categoria così numerosa e variegata [6]. È inoltre diffusa l’opinione che gli insegnanti si lamentino sempre, a prescindere.
A compensare almeno parzialmente la frammentazione e la mancanza di autorevolezza della classe docente italiana interviene di tanto in tanto la voce di qualche intellettuale di grande levatura. Lo storico della scienza Paolo Rossi, ponendosi alcune domande su come integrare i curricula di quelle che Charles P. Snow chiamava le “due culture”, scriveva le seguenti considerazioni sulla conciliazione tra specializzazione e formazione generale rivolgendosi agli studenti in Comunicazione della Scienza della SISSA di Trieste [7]:
“Fino a pochi lustri or sono, formularle o tentare di rispondere sarebbe sembrata alla maggioranza degli scienziati un’inutile perdita di tempo. Per due ragioni. Ridotta all’osso la risposta è oltremodo banale: prima di iscriversi all’Università e di studiare matematica, fisica, o biologia, tutti costoro avevano fatto un ottimo Liceo […]. Ci fu qualcuno, in Italia, che pensò e scrisse che quando un’istituzione scolastica (come appunto il Liceo) funziona abbastanza bene, non si deve cominciare a discutere se il latino è cultura o la matematica è più cultura del latino […], ma si deve fare come facevano e fanno gli inglesi, gli empiristi, i pragmatisti, nonché i tecnici di laboratorio e i meccanici di ogni parte del mondo: quello che funziona bene non si tocca e si continua a usare, aggiustandolo con cautela ogni volta che è indispensabile. Le ragioni del buon funzionamento di un’istituzione sono complicate, spesso sfuggenti, sempre molto difficili da determinare.”
Dunque, anche uno storico della scienza fa riferimento alle ragioni complicate, spesso sfuggenti del funzionamento di una istituzione, non troppo diversamente da uno scrittore. Siamo ancora nel vago; tuttavia, anche in questo caso si tratta di una vaghezza altamente consapevole dell’inutilità di proporre spiegazioni (e soluzioni) semplici a problemi complessi. Semmai occorre agire in modo mirato con il cacciavite. Le modalità con le quali tali aggiustamenti possono essere realizzati sono ben conosciute dagli insegnanti più aggiornati, in quanto la ricerca didattica (generale e disciplinare) ha prodotto una letteratura scientifica sterminata. Tuttavia, non sempre le condizioni per poter aggiustare con cautela sono presenti, soprattutto quanto tutto rema contro – in primis le scelte politiche e il substrato ideologico sotteso a una certa concezione della scuola.
Al di là delle specificità disciplinari, non pochi intellettuali hanno cercato di comunicare al grande pubblico le loro considerazioni sul livello culturale della scuola italiana, nel rispetto di tutte le componenti che in essa operano. Questi intellettuali sanno che esprimersi sul mondo della scuola senza infingimenti e corporativismi, con equilibrio e senso critico, è un dovere civico; suggerire possibili rimedi è altrettanto necessario perché il comune cittadino sia in grado di leggere le scelte politiche evitando un ammaliamento acritico verso le mode che periodicamente inflazionano il dibattito pubblico sull’istruzione (si pensi alla didattica digitale e alle implicazioni che essa comporta a seconda dello statuto che le si attribuisce).
Oltre i pedagogisti, a dominare la scena sono solitamente letterati, filosofi, storici, ognuno dei quali vede i problemi dalla propria angolazione. Il ramo tecnico-scientifico computa un numero minore di esponenti di prestigio particolarmente interessati alle sorti della nostra scuola. Uno di questi è stato Filippo Ciampolini, professore di Elettrotecnica e ideatore della cosiddetta “Didattica breve” (da tempo scomparsa dai documenti ministeriali per riapparire in tempi più recenti nelle linee di indirizzo sulla DAD). Non è questa la sede per entrare nel merito della ricerca metodologico-disciplinare del Prof. Ciampolini: come sempre accade per qualsivoglia metodologia, la didattica breve ha estimatori e detrattori, essendo il suo campo di applicazione altamente condizionato dal tipo di disciplina e dal contesto socio-culturale nel quale l’insegnante opera. La necessità di citare il prof. Ciampolini è dettata principalmente da due motivi: si tratta di un docente del ramo ingegneristico che si è attivamente occupato di didattica; le sue considerazioni si basano su una intensa esperienza di insegnamento universitario e sui numerosissimi contatti con il mondo della scuola (migliaia di ore trascorse in aula in collaborazione soprattutto con insegnanti e studenti degli istituti tecnici). In un periodo in cui la principale preoccupazione è l’apprendimento delle materie indicate con l’acronimo STEM, è utile rivisitare la concezione di quello che Ciampolini chiamava “sapere tecnologico” ad elevata valenza formativa, la cui mancanza causa: progressiva perdita di iscritti degli istituti tecnici a favore dei licei; calo delle iscrizioni ai corsi di laurea tecnico-scientifici, considerati di grande importanza per l’avvenire del Paese; enormi difficoltà da parte degli studenti iscritti a questi corsi nel sostenere adeguati ritmi di studio; deludenti risultati nelle classifiche internazionali, che vedono l’Italia per lo più relegata a fanalino di coda nell’apprendimento degli studenti nel ramo scientifico. Pur ammettendo una complicata serie di concause di tali fatti, Ciampolini dà voce agli insegnanti scrivendo [8]:
“resta la constatazione, riconosciuta dalla stragrande maggioranza dei docenti, del progressivo degrado della qualità che caratterizza l’apprendimento medio dei nostri studenti, un degrado che riduce ogni anno di più la valenza formativa delle discipline insegnate.
Un degrado iniziato molti decenni fa, proseguito poi con sistematici incrementi verso il basso fino a raggiungere gli attuali livelli, francamente inaccettabili. Un degrado che induce alcuni docenti (per fortuna non tutti) a colpevolizzare i Colleghi che hanno insegnato in precedenza ai loro allievi: così non è infrequente ascoltare universitari che criticano severamente la scuola secondaria di secondo grado e, analogamente, docenti di questo ordine di scuole che si lamentano del lavoro svolto dai Colleghi della scuola secondaria di primo grado, ecc. Questo scarica-barile, prima che ingeneroso, è ingiusto in quanto frutto di una analisi superficiale e istintiva”
Dopo aver accennato alle diverse componenti interrelate che sembrano contribuire in maniera circolare al progressivo consolidamento di questa spirale discendente, il professore indica una prima area di intervento – soprattutto in riferimento alle materie scientifiche e tecniche – anche nell’ottica di indirizzare i finanziamenti a progetti formativi di effettivo valore. Questo locus è individuato nella carenza logico-linguistica:
“È una carenza che mina alla base ogni tipo di studio successivo (umanistico e scientifico), cosicché può annoverarsi fra le principali cause della dispersione scolastica in generale. Nel caso specifico delle materie scientifico-tecniche essa risulta ancora più grave perché troppo spesso ‘tollerata’ […] soprattutto sul versante ‘linguistico’ (ma il danno si propaga poi inevitabilmente anche a quello più strettamente ‘logico’) ove mai come oggi è risultata nei fatti così diffusa la falsa idea che la lingua italiana abbia poco a che vedere con la matematica, con la fisica ecc.”
Davanti a questo “malanno”, continua Ciampolini, la scuola secondaria di secondo grado ha alzato di fatto la bandiera bianca. La grande maggioranza dei docenti (anche universitari) ha imparato a difendersi da esso con l’uso sempre minore delle interrogazioni orali, la forte riduzione di domande rivolte a definizioni o a dimostrazioni, l’uso sempre più massiccio di esercizi che richiedono procedimenti “meccanici” e di verifiche scritte a risposta chiusa. Inutile dire che questa forma di difesa non solo non attenua il malanno, ma lo peggiora. Occorrerebbe invece interrogare maggiormente, anche e soprattutto su definizioni e dimostrazioni; far sì che l’esecuzione meccanica dell’esercizio non sostituisca la complessità della teoria ad esso sottesa.
Quanto all’insegnamento delle materie interdisciplinari – quali ad esempio le scienze dell’atmosfera – il consiglio è quello di collocarle il più avanti possibile nel curriculum scolastico, in modo che i nodi fondanti delle singole discipline siano ben saldi nella testa dello studente. Insomma, considerazioni di buon senso e interventi a costo zero, pur nella consapevolezza che si tratta di piccoli rimedi per contrastare l’avanzata del male, non certo sufficienti a eradicarlo. Abituati alle ricette preconfezionate proposte da sedicenti esperti, è facile dimenticare suggerimenti forniti con umiltà e nati in seno alla concreta pratica didattica (probabilmente dello stesso genere di quelli che avrebbe formulato Paolo Rossi al primo cenno di scricchiolio di un congegno liceale tutto sommato ben funzionante).
Alla luce di queste considerazioni, nel prossimo intervento cercherò di delineare gli attuali elementi trainanti del dibattito pubblico sulla scuola, mostrando come parte di essi risponda più a esigenze propagandistiche che non a una reale volontà di effettivo miglioramento della qualità degli apprendimenti.
Nota: una parte di questo lavoro era compresa nella prima versione di un articolo poi pubblicato su ROARS dal titolo “Il Piano Colao e la medicina digitale per i malanni della scuola”.
Riferimenti
[1] L’articolo a firma di Natalia Ginzburg è stato pubblicato sul Corriere della Sera il primo ottobre del 1976.
[2] Le citazioni sono contenute nel libro di Domenico Starnone edito da Feltrinelli e recentemente ripubblicato “Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso”, che consiglio di leggere per la profondità e attualità delle considerazioni riportate.
[3] “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento”, di Massimo Recalcati. Einaudi, 2014.
[4] “La società signorile di massa” di Luca Ricolfi. La nave di Teseo, 2014.
[5] “Di scuola si muore”, di Giovanni Pacchiano. Feltrinelli, Milano, 1998.
[6] “La mia scuola – Chi insegna si racconta”, a cura di Domenico Chiesa e Cristina Trucco Zagrebelsky. Einaudi, 2005.
[7] “Educare gli scienziati alla responsabilità e alla partecipazione”, Paolo Rossi. Journal of Science Communication, 4 (2), Giugno 2005, p. 1-5.
[8] “Educazione ambientale e metodi per evitare il rischio di inquinamento culturale”, di Filippo Ciampolini (pp 35-43); in “Appassionatamente curiosi – Per una didattica delle scienze dell’atmosfera”, a cura di Stefano Versari e Franco Belosi. Ed. Tecnodid. Collana “I quaderni dell’USR per l’Emilia Romagna”, Quaderno n. 15, 2006.